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Isabella Tortola e Debora Vrizzi alla Fondazione Gajani

Per l’edizione di Art City 2025 gli spazi della Fondazione Gajani verranno contaminati attraverso il lavoro di due artiste chiamate a collaborare insieme per la prima volta: Isabella Tortola e Debora Vrizzi. Da una parte una fotografa; dall’altra una regista e una videoartista.
Obiettivo della mostra è quello, come sempre, di trovare un dialogo e una narrazione con Carlo Gajani e i suoi spazi: fondazione-galleria e casa d’artista. Se l’anno scorso l’approccio con Francesca Lolli è stato quello della caccia al tesoro, quest’anno, invece, avverrà una vera e propria “emissione dell’arte”.  Parte del mobilio e delle decorazioni architettoniche, infatti, rimarrà visibile; le opere d’arte dell’autore, invece, verranno “nascoste” attraverso l’utilizzo di semplici teli trasparenti.
Il telo si fa, in questo modo, simbolo di una cancellazione che non vuole essere, da parte delle artiste e della curatela, né un’occupazione all’interno della residenza del celebre artista bolognese, né una forma di remissione rispetto alla sua arte. L’obiettivo è semplicemente quello di ribaltare la visione e lo sguardo di chi, come ospite, entrerà all’interno della mostra durante la manifestazione. Cosa succede se il luogo che ci aspettiamo di trovare ricolmo di arte, si ritrovasse svuotato da tutto? Che significato produrrebbe nella mente dello spettatore? Una cancellazione che non vuole essere un ribaltamento dell’arte di Gajani, ma un vero e proprio cambio di significato, un’eliminazione alla Emilio Isgrò: cancellare per svelare il paradosso, giocare con l’ovvio e sulle aspettative di chi, da tempo, forse si è troppo abituato a dare per scontato ciò che ha davanti. In questo modo, l’arte, da mero oggetto commerciale, da banalità, da ovvietà riprende forza e spazio, urlando e manifestandosi attraverso la sua stessa assenza.
Per entrare più nel dettaglio Debora Vrizzi ci ha spiegato i retroscena.

 Sara Papini. Come nasce il progetto Blinding Plan?

Debora Vrizzi. Blinding Plan è nato nel 2011 come una provocazione nei confronti di quella politica che in Italia svaluta la cultura. Mi sono posta questa domanda “come sarebbe un mondo senza cultura?”.

Ho girato il primo Blinding Plan (piano di accecamento) al Museo MAXXI di Roma, filmando alcuni spettatori inconsapevoli mentre visitavano il museo. In un secondo momento ho cancellato dalle pareti le opere esposte lasciando invece lo sguardo al vuoto degli spettatori.

La cancellazione delle opere ha avuto l’effetto di sottolineare il rapporto tra il pubblico, l’opera d’arte contemporanea e i musei che la contengono.

In questo primo video ho voluto sottolineare come spesso l’arte contemporanea viene fruita ma non capita, vissuta con sufficienza o frustrazione, noia o ironia. Frequentare i grandi musei d’arte contemporanea (luoghi per eccellenza di consacrazione dell’opera d’arte e dell’artista), è oggi diventato un pellegrinaggio culturale, un rito obbligatorio che lascia spesso indifferente il pubblico.

Lo spazio vuoto che rimane si riempie di metafore, lasciando spazio a diverse possibilità di riflessione, in particolare rende palese l’incapacità di vedere e capire l’arte che viene proposta al grande pubblico.

 Il passaggio dal primo al secondo video, come è stato tornare a lavorare sullo stesso concetto?

La lettura del saggio L’inverno della cultura è stato fondamentale per il secondo video “Blinding Plan The Cathedral”. In questo saggio Jean Clair si interroga sulla giusta “forma” da dare ai musei, paragonandoli a delle chiese. A questo punto, una volta spogliati delle opere d’arte, i musei sono diventati per me delle grandi cattedrali vuote. Le cattedrali gotiche erano orientate verso est, per intercettare e celebrare il sorgere del sole. Al loro confronto, i musei sembrano cattedrali contemporanee che hanno perso il loro orientamento – come se la cultura non avesse più una direzione. Credo che i musei possano ancora cercare di essere cattedrali: sono tra i pochi luoghi in cui i cittadini possono celebrare il trovarsi, il raccoglimento, la concentrazione, la contemplazione, l’ascendere a qualcosa di più luminoso.

Art City e Fondazione Gajani, come ti senti per questa esperienza?

Ho visitato di recente la Fondazione Gajani che accoglie il visitatore dentro un’atmosfera avvolgente e ricca di stimoli. Mi sembra una bellissima e insolita opportunità espositiva, ideata da Sara Papini e Giuseppe Virelli.

L’esposizione a cui sono stata invitata mi pare che ben si concilia con il principio di Art City di coinvolgere un vasto pubblico e ampliare gli spazi espositivi nella città di Bologna. Principio che tra l’altro mi pare in linea con l’auspicio intrinseco nel mio progetto Blinding Plan di smuovere le istituzioni museali per farle diventare qualcosa di dinamico, interdisciplinare che propone un’arte inclusiva e un dialogo tra passato e presente con spazi inusuali della città.

 

 

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Carlo Zanni alla Banquet Gallery

“Mi sentivo diviso, schizofrenico. La guerra, ciò che
stava accadendo in America, la brutalità del mondo.
Che tipo di uomo sono, seduto a casa, a leggere
riviste, andando su tutte le furie per qualsiasi
cosa—e poi andare in studio a sfumare un rosso su
un blu.”
(Philip Guston, circa 1968)

 Banquet Gallery a Milano ospita DAN, personale di Carlo Zanni con opere recenti ed inedite, che includono dipinti, sculture e una performance digitale su Internet, tutte incentrate sulle intersezioni tra consumismo, ansia, emoji e identità, sullo sfondo di una guerra perpetua.

La serie Check-Out Paintings esplora il limbo psicologico dell’esperienza d’acquisto, catturando le emozioni fugaci e compulsive che l’eCommerce genera come forma di interazione con il mondo. Questi dipinti astratti evocano una riflessione contemplativa sull’ansia, il desiderio e la consapevolezza delle nostre azioni mentre prenotiamo, mettiamo like, scorriamo, spediamo, zoomiamo o restituiamo un oggetto. I Check-Out Paintings mettono in relazione la cultura digitale con una pratica artistica tradizionale, richiamandosi alle esplorazioni del tempo di On Kawara e alla sensibilità minimalista di Agnes Martin. Con una palette di colori delicati e l’inclusione di elementi visivi come emoji ed emoticon giapponesi utilizzati come clickbait, questi dipinti invitano lo spettatore a un’esperienza più intima, rivelando, infine, contenuti inaspettati.

Al piano inferiore, in un ambiente poco illuminato, è esposta per la prima volta la serie DAN: sculture in MDF incise al laser con i loghi di Amazon distorti e storpiati. Alterazioni generate dall’utilizzo di una versione preliminare ed imperfetta di DALL-E, un software di Intelligenza Artificiale per la generazione di immagini basate su input testuali – ora integrato in ChatGPT.

DAN è l’acronimo di “Do Anything Now”, un comando che un tempo permetteva agli utenti di hackerare ChatGPT, aggirando le sue protezioni etiche e morali. Queste sculture minimaliste, in penombra, invitano gli spettatori a impegnarsi in un processo simbolico di unboxing e di autoriflessione. Man mano che la vista si adatta alla scarsa illuminazione, delle forme nascoste iniziano gradualmente ad emergere.

A completamento della mostra è la performance online My Shameful Sweet Spot Between Distress and Hilarity, un’opera digitale, live e in continua evoluzione che esplora il fragile equilibrio tra bellezza, umorismo e assurdità delle nostre vite. Mediante un bot che interroga un sito web di moda con le ultime notizie di Al Jazeera, l’opera trasforma la cultura del consumo in una meditazione dinamica sui desideri e le vulnerabilità umane. Ciò richiama il concetto di Slavoj Žižek di “Unknown Knowns” (Cose Conosciute Sconosciute) – quelle credenze, valori e ideologie che esistono al di sotto della nostra consapevolezza e hanno un impatto determinante sul modo in cui percepiamo il mondo e agiamo in esso.

Le opere in mostra fondono tecnologia, commento sociale e tecniche tradizionali in uno stato liminale che evoca una sensazione di instabilità e trasformazione continua; elementi tipici della ricerca dell’artista.

(dal comunicato stampa)

Carlo Zanni. DAN, Banquet Gallery, Milano, 12.12.2024 – 01.03.2025
Carlo Zanni (La Spezia, 1975) è un artista concettuale la cui ricerca, sin dagli esordi, trova esiti coerenti mediante l’utilizzo di pratiche molto distanti, come la pittura e l’arte digitale. È stato pioniere nell’uso di dati di terze parti prelevati da Internet e da oltre vent’anni esplora lo spazio pubblico del web con opere effimere che combinano una forte sensibilità sociale con un’attenzione particolare alla privacy, all’identità e all’individuo.
Come pittore, focalizza la sua attenzione su un nuovo tipo di “paesaggio politico condiviso” emerso con Internet, che continua a trasformare le dinamiche umane. In un’epoca in cui le piattaforme di eCommerce dominano le nostre vite, Zanni rielabora questi ambienti familiari come vettori per sollevare questioni sociali e politiche urgenti. Zanni ha esposto in gallerie e musei di tutto il mondo, tra cui: National Taiwan Museum of Fine Arts, Taiwan; Arts Santa Mònica, Barcellona; Hammer Museum, Los Angeles; Marsèlleria, Milano; Tent, Rotterdam; MAXXI, Roma; MoMA PS1, New York; Borusan Center, Istanbul; PERFORMA 09, New York e ICA, Londra. È autore del libro “Art in the Age of the Cloud” in ristampa presso Magütt Publishing, e di recente è stato invitato a presentare la sua ricerca alla 10ª edizione di “Talking Galleries” a Barcellona. Il suo lavoro appare in più di 50 libri e cataloghi, oltre che in centinaia di articoli e interviste online. La sua prima monografia è in uscita per Printer Fault Press nel 2025.
immagini: (tutte) Carlo Zanni. DAN, Banquet Gallery, Milano

 

 

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Haacke alla Schirn Kunsthalle

Dall’8 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, la Schirn Kunsthalle di Francoforte dedica una retrospettiva all’artista tedesco-americano Hans Haacke, con una rassegna di opere a dal 1959 a oggi, tracciandone il suo indirizzo politico.

In diverse occasioni, i suoi controversi contributi artistici ai dibattiti in corso sono stati censurati dalle mostre. Artisticamente, ha perseguito una varietà di strategie, impegnandosi precocemente nei campi dell’ecologia e delle scienze naturali, attingendo agli approcci del gruppo ZERO, del Minimalismo, dell’Arte Concettuale, dell’arte pubblica e della poster art, tra gli altri. In qualità di pioniere della Critica Istituzionale nell’ambito dell’Arte Concettuale, le sue opere esaminano ordini o sistemi e li presentano in modo comparativo. L’artista stesso descrive il mondo come un super-sistema con innumerevoli sottosistemi, ognuno dei quali è più o meno influenzato dagli altri. Il pensiero sistemico, la critica istituzionale e la democrazia sono i temi principali che attraversano l’opera di Haacke. Alla Schirn sono in mostra i primi lavori iconici degli anni Sessanta, i suoi influenti sistemi in tempo reale, i pezzi che invitano alla partecipazione del pubblico e le ampie installazioni (storiche) politiche. Con circa settanta dipinti, fotografie, oggetti, installazioni, azioni, manifesti e un film, la mostra illustra come Haacke sia diventato uno degli artisti politici più importanti e influenti del mondo per le generazioni successive.

 

Per questa retrospettiva completa, lo Schirn è riuscito a riunire a Francoforte importanti opere dell’artista provenienti da collezioni pubbliche e private internazionali, tra cui: Museum Abteiberg, Mönchengladbach; Art Gallery of Ontario, Toronto; FRAC Bourgogne Dijon Collection; Generali Foundation Collection at the Museum der Moderne, Salzburg; Hamburger Bahnhof Nationalgalerie der Gegenwart, Berlino; LACMA, Los Angeles; Museum Ludwig, Colonia; MACBA, Barcellona; Lila and Gilbert Silverman Collection, Detroit; TATE London e Whitney Museum of American Art, New York.

Sebastian Baden, direttore della Schirn Kunsthalle di Francoforte, osserva che: “Hans Haacke è una leggenda dell’arte concettuale politica. Con questa retrospettiva presentiamo un artista il cui lavoro ha avuto una grande influenza sull’arte contemporanea. I suoi temi principali dell’ecologia, della critica istituzionale e della democrazia sono anche i temi centrali del presente. La pratica critica di Haacke deve essere resa accessibile e comunicata a un vasto pubblico internazionale. L’artista si preoccupa sempre di coinvolgere gli spettatori, invitandoli a impegnarsi in un dibattito critico e sensibilizzandoli alla diversità e alla libertà di opinione. Il potenziale democratico del suo lavoro di opposizione è particolarmente rilevante oggi, in un momento in cui le democrazie di tutto il mondo sono a rischio”.

Ingrid Pfeiffer, curatrice della mostra, osserva inoltre: “Osservare in particolare i primi lavori di Hans Haacke offre spunti di riflessione su un’opera che a prima vista può sembrare eterogenea. Egli utilizza questioni sistemiche per combinare materiali e tecniche diverse come la fotografia, gli oggetti, le azioni o le installazioni. I parallelismi strutturali percorrono come un filo d’oro la sua opera. In vari periodi, ha collegato sistemi fisici, biologici e sociali per rivelare strutture e cicli. Il lavoro di Haacke è sempre rigorosamente politico, ma anche poetico e umoristico. Questa sua schiettezza lo ha portato a essere disinvitato più volte dalle mostre. Ha sempre difeso le sue convinzioni, in particolare la difesa dei principi democratici”.

Nella sua rotonda accessibile al pubblico, la Schirn presenta l’iconico Gift Horse (2014) di Hans Haacke, che l’artista ha realizzato per Trafalgar Square a Londra nell’ambito del Fourth Plinth, una delle più prestigiose commissioni di arte pubblica al mondo. Come una sorta di “contro-monumento” alla rappresentazione imperiale del potere da parte delle statue di questa piazza, la scultura in bronzo di Haacke, alta 4,5 metri, mostra uno scheletro di cavallo basato su uno studio tratto dal libro di George Stubbs The Anatomy of the Horse. Il ticker della Borsa di Francoforte è trasmesso in diretta tramite un display elettronico su un anello nella parte anteriore dell’osso della coscia dello scheletro. Gift Horse di Haacke può essere letto come un commento su una società che per secoli è stata definita da antagonismi di classe e soggetta ai dettami dei mercati.

Il percorso espositivo inizia con importanti opere fisiche, biologiche ed ecologiche a partire dagli anni Sessanta. I primi progetti di Haacke sono stati influenzati dall’amicizia con Otto Piene e dal contatto con il gruppo ZERO di Düsseldorf. In questo periodo partecipò a numerose mostre pionieristiche sull’Arte Cinetica, l’Op Art, l’Arte Concettuale e la Land Art. Sebbene il lavoro di Haacke si sovrapponga a molti movimenti innovativi degli anni Sessanta, egli non sente di appartenere veramente a nessuno di essi. Non era interessato a materiali o stili specifici, ma alle connessioni fondamentali tra sistemi fisici, biologici e sociali. Tra le prime opere esposte allo Schirn figurano il dipinto Ce n’est pas la voie lactée (1960) e i rilievi di Haacke con lamine di specchio realizzati a partire dal 1961.

Quest’ultimo testimoniava già un interesse per le interazioni con lo spettatore, che sarebbero diventate sempre più importanti. Anche la prima opera fotografica di Haacke, Photographic Notes, documenta 2 (1959), ritrae il comportamento dei visitatori negli spazi espositivi. Altre opere, alcune delle quali di natura partecipativa, mostrano processi fisici, come Column with Two Immiscible Liquids (1965) o Large Water Level (1964-65). In mostra anche una serie in cui Haacke ha esplorato i vari stati fisici dell’acqua. Una delle opere simbolo dell’artista è il Large Condensation Cube (1963-67), un cubo di vetro acrilico che racchiude una piccola quantità d’acqua. Haacke ha anche chiamato questi cubi “scatole meteorologiche” e in seguito ha fatto analogie tra il clima meteorologico e quello politico.

Questo collegamento di sistemi diversi è caratteristico del metodo di Haacke. Il passaggio dall’oggetto (o scultura) al processo è evidente anche nella sua pratica artistica. Altri “allestimenti sperimentali” all’interno del museo mostrano il ciclo dell’acqua (Circulation, 1969) attraverso l’evaporazione, la condensazione, la cristallizzazione, la liquefazione, altri movimenti d’aria (Blue Sail, 1964-65) o processi di crescita (Grass Grows, 1969).

L’artista è tornato costantemente su questioni sistemiche ed ecologiche. La sua fotografia Monument to Beach Pollution (1970) è una delle prime opere d’arte ecologiche. Con il Trittico delle acque di scarico di Krefeld (1972) e l’Impianto di depurazione delle acque del Reno (1972), Haacke ha commentato in modo diretto e incisivo l’inquinamento del fiume Reno. Anche i suoi “sistemi in tempo reale” sono una caratteristica distintiva della sua opera. L’azione Chickens Hatching (1969) vede schiudersi pulcini in L’azione Chickens Hatching (1969) vede schiudersi pulcini in tempo reale nello spazio espositivo, dimostrando i processi di nascita e crescita in una struttura scatolare minimalista. Ant Co-op (1969) documenta la regolarità delle gallerie scavate dalle formiche come sistema biologico e sociale. Il ritratto d’artista documentario Hans Haacke: Self-Portrait of a German Artist in New York (1969) offre approfondimenti sui suoi metodi artistici e mostra anche molte delle prime opere processuali in azione.

Una delle aree di interesse della mostra è l’approccio sociologico e politico che alla fine è diventato la sua firma. A partire dal 1969, Haacke ha iniziato ad analizzare e visualizzare i sistemi sociali al fine di suscitare dibattiti sociopolitici nel contesto artistico. Questa forma di arte concettuale è fondamentalmente una presa di coscienza delle condizioni sociali, economiche e istituzionali in cui l’arte viene prodotta, esposta, venduta e ricevuta. Nel 1971, Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, a Real-Time Social System, as of May 1, 1971 ha scatenato uno scandalo politico-culturale e proteste artistiche contro la censura. Utilizzando fotografie, tabelle e planimetrie di 142 proprietà nel Lower East Side e nel quartiere di Harlem a Manhattan, Haacke ha esposto la dubbia concentrazione di proprietà immobiliari e le relative pratiche del gruppo Shapolsky.

Quest’opera portò il direttore del Guggenheim Museum, Thomas Messer, a cancellare la mostra personale di Haacke poco prima della sua inaugurazione. Anche Manet-PROJEKT ’74 (1974), presentato da Haacke per la mostra di anniversario del Wallraf Richartz Museum di Colonia, ha provocato un altro atto di censura istituzionale. Haacke propose di esporre il Grappolo di asparagi (1880) di Édouard Manet, proveniente dalla collezione del museo, insieme ai risultati delle sue ricerche sulla provenienza dell’opera. I pannelli informativi contengono dettagliate informazioni personali, biografiche, professionali e finanziarie sui precedenti proprietari, nonché informazioni sul loro coinvolgimento nel nazionalsocialismo. La Schirn presenta anche altre due opere che esaminano criticamente gli intrecci tra mecenatismo artistico e attività economica: Der Pralinenmeister (Il maestro del cioccolato) (1981), sulle connessioni tra le decisioni culturali e fiscali dell’influente collezionista e produttore di Colonia Peter Ludwig, e Buhrlesque (1985) sul collezionista d’arte, mecenate e produttore di armi svizzero Dr. Dietrich Bührle.

La mostra presenta anche opere partecipative, come l’installazione MoMA Poll (1970) in cui Haacke ha posto ai visitatori del Museum of Modern Art di New York domande sulle loro convinzioni politiche. Durante la mostra alla Schirn sarà condotto anche un nuovo sondaggio tra i visitatori. In Photoelectric Viewer-Controlled Coordinate System (1968), i movimenti dei visitatori attraverso la stanza attivano proiettori a infrarossi e sensori fotoelettrici che attivano in modo diverso ventotto lampadine.

In numerose opere Haacke ha sostenuto i processi democratici, l’attivazione dell’opinione pubblica e un approccio antifascista pluralista. Alcuni dei suoi progetti riguardano la rappresentazione dei media: News (1969) trasporta il ticker di un’agenzia di stampa nello spazio espositivo; nello Schirn vengono trasmessi i servizi di alcuni media di Francoforte, come la Frankfurter Allgemeine Zeitung, la Frankfurter Rundschau e Hessenschau.de. Photo Opportunity (After the Storm / Walker Evans) (1992) offre una prospettiva comparativa sul reportage fotografico. La Schirn presenta anche il lavoro di Haacke sulla critica del potere per Documenta 7. L’installazione Oil Painting: Homage to Marcel Broodthaers (1982) consiste in un ritratto dell’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan realizzato dallo stesso Haacke, esposto di fronte a una fotografia di grande formato di una grande manifestazione di oppositori alla sua politica e allo spiegamento di armi nucleari. Anche l’impegno di lunga data di Haacke nei confronti della politica della storia e del post-nazismo è presente nella mostra. Nel 1993 ha rappresentato il Padiglione tedesco alla Biennale di Venezia, per il quale ha ricevuto il Leone d’oro insieme a Nam June Paik.

Il suo sensazionale contributo GERMANIA presenta un campo di detriti di lastre di marmo all’interno della sala, che era stata ristrutturata nel 1939 sotto il nazionalsocialismo. Haacke ha sviluppato l’opera di grandi dimensioni DER BEVÖLKERUNG (TO THE POPULATION) (2000) come installazione permanente per uno dei due cortili interni dell’edificio del Reichstag tedesco a Berlino. La decisione di affidare l’incarico ad Haacke è stata oggetto di intensi dibattiti pubblici nel Bundestag. Le lettere illuminate installate sul pavimento si riferiscono all’iscrizione “DEM DEUTSCHEN VOLKE” (Al popolo tedesco) sul frontone dell’edificio del Reichstag. Ogni membro del Bundestag è stato invitato a contribuire con 50 chilogrammi di terra del proprio collegio elettorale; i semi inseriti nel terreno sono cresciuti in una varietà di vegetazione vivente, che oggi incornicia le lettere. Il progetto di poster di Haacke We (All) Are the People, creato per documenta 14 (2017) a Kassel e Atene e da allora esposto più volte, può essere letto come una reazione all’aumento del sentimento anti-migranti degli ultimi decenni. L’opera, basata su manifesti testuali, ripete lo slogan omonimo nelle dodici lingue diverse dei principali gruppi di migranti in ogni Paese.

(dal comunicato stampa)

Hans Haacke. Retrospective, Schirn, 08.11 – 05.02.2024
La mostra “Hans Haacke: Retrospettiva” è finanziata dalla Kulturstiftung des Bundes (Fondazione culturale federale tedesca). Finanziata dalla Beauftragte der Bundesregierung für Kultur und Medien (Commissario del governo federale per la cultura e i media). Con il sostegno aggiuntivo di fiber to the people GmbH.

immagini: (cover 1) Hans Haacke: Retrospective, exhibition view, © Schirn Kunsthalle Frankfurt 2024, Photo: Norbert Miguletz (2) Hans Haacke: Retrospective, exhibition view, © Schirn Kunsthalle Frankfurt 2024 (3) Hans Haacke, Large Condensation Cube, 1963–67, Acrylic glass, distilled water, 76.2 x 76.2 x 76.2 cm, MACBA Collection, MACBA Foundation, Gift of National Comitee and Board of Trustees Whitney Museum of American Art, © Hans Haacke / VG Bild-Kunst, Bonn 2024, Photo: Hans Haacke (4) Hans Haacke, News, 1969, Teletype machine, paper, wire service, variable dimensions, Edition 2/3, Courtesy the artist and Paula Cooper Gallery, New York, © Hans Haacke / VG Bild-Kunst, Bonn 2024, Photo: Ellen Wilson (5-6) Hans Haacke: Retrospective, exhibition view, © Schirn Kunsthalle Frankfurt 2024, Photo: Norbert Miguletz

 

 

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Artists Making Books: Pages of Refuge

La mostra Artists Making Books: Pages of Refuge all’American Academy di Roma è un vero e proprio nel mondo del libro d’artista, ambito di produzione e di sperimentazione che ha accompagnato i lavori di moltissimi artisti, dalle avanguardie del primo novecento del XX secolo in poi. Il libro d’artista ha rappresentato uno spazio di libertà, con la possibilità di utilizzare materiali, caratteri tipografici, formati fuori dai canoni tradizionali.

I lavori selezionati in mostra, molte delle opere provenienti dalle collezioni Consolandi e Aldobrandini che hanno collaborato al progetto, questo aspetto lo mettono ben in evidenza. Compresi in mostra sono lavori di artisti impegnati in ogni genere di formato e scala, da pittori, ad artisti concettuali, a film-makers. Ciascun libro è un modo diverso di conquistare uno spazio di libertà e di sperimentazione in una incredibile varietà di approcci.

“Guardando alle relazioni tra le avanguardie e la contemporaneità” leggiamo nel comunicato, “la mostra vuole evidenziare come il libro sia stato, e continui a essere, un oggetto di sperimentazione, un modo per resistere ai vincoli del mercato e creare, in definitiva, uno spazio di libertà in cui rifugiarsi. La selezione esposta traccia una possibile storia di come approcci radicali al libro abbiano portato ad adottare diverse soluzioni grafiche che sovvertono, inventano, rovesciano e celebrano le lettere, le parole, i testi e le forme di una pubblicazione”.

Libri di artisti delle prime avanguardie, come Natalia Goncharova, Tristan Tzara, Fortunato Depero, Marcel Duchamp, a quelli legati alla Pop Art Andy Warhol, Keith Haring, all’arte concettuale, come John Baldessari, avviano un percorso che arriva fino alle produzioni più recenti, alcune esposte nella bellissima cornice della libreria Barbara Goldsmith Rare Book Room, accessibile al pubblico unicamente in questa occasione.

Alcune delle produzioni in mostra appartengono infatti ad artisti che nel corso degli anni sono stati invitati in residenza, come Jenny Holzer, Kara Walker, Irma Boom, William Kentridge, Arturo Herrera. Presenti anche i lavori dei borsisti vincitori del Rome Prize come Eugene Berman (1959), Ana Mendieta (1984), Tony Cokes (2022), Rochelle Feinstein (2017), e Italian Fellows come Nico Vascellari (2008), Luca Vitone (2009), Marco Raparelli (2011) e Rä Di Martino (2018).

Il libro d’artista esce dai canoni tradizionali e diventa territorio prezioso di sperimentazione ed espressione, per le potenzialità dello spazio, della materia, della tipografia, e della possibilità di spingere tutto questo fuori dai propri confini, non in ultimo quelli che chiudono il libro in un involucro prezioso e poco accessibile. Il libro d’artista è un oggetto che i suoi autori hanno abitato, sovvertito, sperimentato, lo hanno reso accessibile. Non ha confini di genere. Basti pensare che la collezione di libri d’artista della Franklin Furnace, fondata da Martha Wilson nel 1976 a New York e poi donata al Museo MoMA nel 1993, era inclusa in una programmazione, per missione, indirizzata a lavori time-based, accanto a performance art e progetti site-specific.

La mostra ‘condensa tempi ed epoche differenti in un percorso che tiene fede al sottotitolo della mostra Pages of Refugee’ , così visualizza molto lucidamente gli obiettivi auspicati e raggiunti della mostra Asia Benedetti nel suo bellissimo e dettagliato articolo pubblicato sulla Rivista “Engramma” (Ottobre 2024). “La pagina”, prosegue Asia Benedetti, ”soprattutto nelle avanguardie storiche, diventa spazio alternativo in cui è possibile liberare la parola dall’egemonia del linguaggio verbale istituzionalizzato e invertire i significati prestabiliti. La sinergia tra testo, immagini, formato e materiale esprime una creatività a tutto tondo che si trasmette dalla copertina alla struttura interna”.

Le copertine, le pagine, le azioni (quelle depositate nel libro inteso come documento) e le collaborazioni, sono i raggruppamenti espositivi e concettuali che articolano, più che suddividere, la mostra che gode di una certa continuità anche nel percorso delle varie stanze che la ospitano.

Il viaggio nel mondo dei libri d’artista si apre con Twentysix Gasoline Stations di Ed Rusha, dono dell’artista all’American Academy nel 2001. Raccolta di immagini di stazioni di servizio appartenenti al paesaggio della Route 66 in California e un formato tutto sommato non troppo anti-convenzionale, questo modello di libro d’artista ha rappresentato un nuovo paradigma del libro: “visivo economico e portatile”, come ben spiega uno dei testi che accompagnano il visitatore in mostra e che ne curano un aspetto non così marginale, quello di accompagnare il visitatore per mano in questo viaggio. D’altro canto, per quanto la produzione di libri d’artista sia stata incredibilmente prolifica durante le prime avanguardie, ha preso piede ed è stata riconosciuta come genere a sé stante alla fine degli anni sessanta, inizio settanta.

Il libro, questo oggetto così piccolo agile e soprattutto accessibile, racconta momenti salienti dei suoi autori, del loro ruolo all’interno del contesto storico-artistico delle loro rispettive epoche.

La mostra ha il dichiarato intento di mettere a fuoco la contaminazione culturale tra Italia e Stati Uniti, in particolare di quella favorita attraverso l’American Academy a Roma. La accuratissima selezione dei lavori, tuttavia, non manca di offrire un panorama d’insieme piuttosto esaustivo attraverso artisti significativi e lavori rappresentativi di momenti chiave nell’ambito di ciascun percorso e del suo posizionamento nelle geografie creative del momento da dove si diramano le direzioni future, forti del privilegio di uno sguardo retrospettivo.

Artists Making Books: Pages of Refuge, a cura di Ilaria Puri Purini, Andrew Heiskell Arts Director e Sebastian Hierl, Drue Heinz Librarian, con Lexi Eberspacher, Programs Associate for the Arts e Johanne Affricot, Curator-at-Large dell’American Academy in Rome, fino al 07.12.2024 (apertura Venerdi – Sabato. 16.00 – 19.00). L’exhibition design è affidato allo studio di architettura Supervoid (Benjamin Gallegos Gabilondo, Marco Provinciali e Anna Livia Friel).
Artisti: Vincenzo Agnetti, Micol Assaël, Josef Albers, Giovanni Anselmo, Stefano Arienti, Fabio Barile, Balthus, Elisabetta Benassi, Eugene Berman (Resident 1957), Irma Blank, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi, Irma Boom (2018), André Breton, Alberto Burri, Alexander Calder, Canemorto, Chiara Camoni, Giuseppe Capogrossi, Maurizio Catellan, Alessandro Cicoria, Francesco Clemente, Tony Cokes (Fellow 2023), Gianluca Concialdi, Matthew Connors (Fellow 2025), Enzo Cucchi, Hanne Darboven, Giorgio de Chirico, Willem De Kooning, Michela De Mattei, Kimmah Dennis (Fellow 2025), Fortunato Depero, Rä Di Martino (Italian Fellow 2018), Marcel Duchamp, Nona Faustine (Fellow 2025), Rochelle Feinstein (Fellow 2018), Leonor Fini, Lucio Fontana, Allen Frame (Fellow 2018), Mario Gooden (Resident 2024), Natalia Goncharova, Keith Haring, Ann Hamilton (Resident 2017), Arturo Herrera (Resident 2024), Jenny Holzer (Resident 2004), ILIAZD, Emilio Isgrò, Isaac Julien (Resident 2016), Vassily Kandinsky, Alex Katz (Resident 1984), On Kawara, Ellsworth Kelly, William Kentridge (Resident 2011, 2016), Kiki Kogelnik, Jannis Kounellis, Maria Lai, Fernand Léger, Sol LeWitt, El Lissitzky, George Maciunas, Jackson Mac Low, Kazimir Malevich, Piero Manzoni, Franz Marc, Filippo Tommaso Marinetti, Henri Matisse, Mel Chin (Resident 2024), Julie Mehretu (Resident 2020), Ana Mendieta (Fellow 1984), Mario Merz, Sabrina Mezzaqui, Joan Mirò, Nelson Morpugo, Bruno Munari, Wangechi Mutu (Resident 2019), Francis Offman, Luigi Ontani, Giuseppe Penone, Gordon Powell (Fellow 1988), Pablo Picasso, Man Ray, Marco Raparelli (Italian Fellow 2011), Aleksandr Rodchenko, Olga Rozanova, Ed Ruscha, Kay Sage, Alberto Savinio, Kurt Schwitters, Dread Scott (Fellow 2024), Dorothea Tanning, Tricia Treacy (Fellow 2018), Richard Tuttle, Cy Twombly, Tristan Tzara, Grazia Varisco, Nico Vascellari (Italian Fellow 2008), Elihu Vedder, Luca Vitone (Italian Fellow 2009), Kara Walker (Resident 2016), Andy Warhol, Laurence Weiner, Francesca Woodman, Xu Bing (Resident 2024), La Monte Young.

Immagini: Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra (2) Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra, Barbara Goldsmith Rare Book Room (3) William Kentridge  , Portage, 2000 , Courtesy Collezione Privata, Ph. Alessandro Lui (4-5)  Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra (6) Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra, Barbara Goldsmith Rare Book Room, dettaglio

 

 

 

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SHELTER ISLAND

SHELTER ISLAND è la mostra che si snoda tra gli spazi della Marina Bastianello Gallery di Mestre e Venezia e quelli istituzionali di M9 – Museo del’900 e del Distretto M9. Il progetto, che prevede la collaborazione intergenerazionale di due artisti – Fernando Garbellotto (Portogruaro, 1955) e Luca Pozzi (Milano, 1983), nasce dall’urgenza di viaggiare nello spazio e nel tempo dei linguaggi ibridando ricerca artistica e scientifica attraverso il format inedito della Meta-Conferenza in un periodo storico particolarmente sensibile ai temi della pace. La Mostra riconnette idealmente il pubblico ad un evento accaduto nel 1947 sull’omonima isola nei pressi di New York che vide riuniti tra i più celebri e visionari fisici teorici dell’epoca – nomi del calibro di Richard Feynman, John Archibald Wheeler, Edward Teller, David Bohm, John von Neumann, Hans Bethe, J. Robert Oppenheimer e Freeman Dyson – per discutere i problemi fondamentali della meccanica quantistica agli albori dell’invenzione della bomba atomica. Il Summit, ricordato dalla storia come il leggendario vertice di Shelter Island per l’appunto, fu il primo dopo la risoluzione della seconda guerra mondiale e diede il via a quell’atteggiamento di condivisione della conoscenza scientifica su cui poggiano ancora i delicati equilibri globali odierni.

In un presente post-pandemico caratterizzato da tensioni geopolitiche di carattere energetico, ideologico, economico e religioso, il progetto prende vita dalla rigenerazione di una rete relazionale incentrata sull’importanza della collaborazione e del dialogo come modus operandi e condizione Sine Qua Non.

Attraverso le opere di Garbellotto e Pozzi si è chiamati a prendere parte attiva al Summit del ‘47 che, tele-trasportato nel 2024 e convertito nella forma e nella sostanza, diventa installazione cross-disciplinare a più voci, tra cui spiccano quelle di Carlo Rovelli, Roger Penrose, Shoini Ghose, Raymond Laflamme, Katie Mack, Hildign Neilson, Savas Dimopoulos, Pedro Vieira e Neil Turok, che, con il loro contributo, ne ri-attualizzano i presupposti in chiave eco-sistemica.

Partendo da queste premesse la Meta-Conferenza avviene su una cometa digitale di 4 Km di diametro, all’interno di una GAME ENGINE in Virtual Reality chiamata “Rosetta Mission 2024”, opera di Luca Pozzi, la quale, accogliendo una PLAYLIST di PODCAST realizzata dal Perimeter Institute di Waterloo in Ontario, la ripropone simultaneamente non solo al pubblico in presenza al Museo del Novecento sotto forma di installazione visiva, ma anche sul Megaschermo digitale della Hybrid Tower di Mestre e sui monitor satellite del Distretto dell’M9, andando a costruire una rete delocalizzata di piattaforme di accesso ai contenuti prodotti per un pubblico più vasto e non specialistico.

Rete che include, nelle sue maglie, le due sedi della Galleria Marina Bastianello dove troviamo invece rispettivamente a Venezia una grande installazione a parete di Fernando Garbellotto, ispirata alle teorie di Benoit Mandelbrot ed incentrata proprio sul concetto di Frattale “La Rete come idea del mondo”, mentre Luca Pozzi occupa la galleria di Mestre con un ambiente interattivo composto da dispositivi magnetici a parete, sculture ingegnerizzate con rivelatori di particelle dell’INFN e una postazione di Realtà Virtuale per accedere ai contenuti della “Rosetta Mission 2024” da remoto.

(dal comunicato stampa)

Shelter Island, Marina Bastianello Gallery (e altre sedi), Venezia Mestre, 22.05.2022 – 24.08.2024

immagini: (cover 1) Luca Pozzi, «Rosetta Mission», 2024, fermo immagine da VR Game Engine in 4K, 2024. Neil Turok / Sulla semplicità della natura, estratto da Conversazioni sul perimetro  (2) Fernando Garbellotto, «Rete Frattale», 2024. (3) Luca Pozzi, «Rosetta Mission 2024» , VR station, tappeto stampato da collage digitale, Oculus Quest, motore di gioco unity. Photo credits: lucapozzi & marinabastianellogallery  (4) Fernando Garbellotto, «Rete Frattale», 2024 (detail).

 

 

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FRAME > Light line

FRAME cattura Light line di Jenny Holzer per il Guggenheim Museum di New York, installazione che trasforma l’edificio in una serie di scrolling texts dalle sue serie iconiche, come “Truisms” e “Inflammatory Essays”. Il lavoro monumentale è anticamera della retrospettiva che nel museo newyorkese presenta una retrospettiva di suoi lavori dagli anni ’70 ad oggi.

Jenny Holzer: Light Line, Guggenheim Museum, New York,
La mostra è organizzata da Lauren Hinkson, Associate Curator for Collections. Conservazione  dell’installazione realizzata per il Solomon R. Guggenheim Museum è condotta da Lena Stringari, Deputy Director, da Andrew W. Mellon, Chief Conservator, e Agathe Jarczyk, Associate Time-Based Media Conservator.

Jenny Holzer: Light Line

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Spleen alla Fondazione Filiberto e Bianca Menna

«La verità è che non possiamo non vivere il nostro tempo. Ma questo non può significare rinuncia a un progetto critico; al contrario, vuol dire prendere posizione dalla parte di chi oggi lavora nella direzione di un approfondimento e di un rinnovamento, di un uso nuovo delle nozioni, appunto, di progetto e di razionalità»[1], con queste parole Filiberto Menna conclude la prefazione della seconda edizione di Profezia di una società estetica (1983). Il volume, edito per la prima volta nel 1968, propone una riflessione fondamentale intorno al rapporto tra arte e società: attraverso un’analisi della società dal Settecento all’epoca contemporanea, Menna afferma la necessità per l’arte di entrare nella realtà quotidiana, di essere dunque uno strumento in grado di «agire dentro (e sulla realtà) e non più come un contemplare un oggetto che sta fuori di noi»[2]. È con queste premesse che l’autore auspica la nascita – «l’immaginazione utopica»[3] – di una “nuova società estetica” contemporanea, capace, attraverso il lavoro dell’artista, di attuare quell’integrazione tra arte e vita che non si è potuta verificare nelle epoche passate. Per Menna un ulteriore motivo di riflessione sul rapporto tra l’artista e la città moderna è dato da Baudelaire e dai suoi Petits poèmes en proseLe spleen de Paris, cui dedica un intero capitolo del libro: «vivere nel presente significava per Baudelaire […] entrar dentro la nuova realtà, prendere atto di una situazione profondamente mutata in cui l’orizzonte dell’esistenza quotidiana non è più dato dalla natura ma dalla città. E allora, se si vive nella città, in mezzo alla folla, non è più possibile conservare un atteggiamento di distacco contemplativo, prendersi una distanza privilegiata nei confronti dell’oggetto della rappresentazione, metterlo in posa, girargli intorno per restituirlo a tutto tondo»[4]. Quello che l’autore francese aveva compreso era appunto la necessità per l’artista moderno di vivere la realtà all’interno di essa, rappresentandone il presente con tutte le sue contraddizioni, in un gioco combinatorio che lo colloca tra l’esperienza della folla e una struttura urbana programmata.

È a partire da questa necessità che si inserisce il progetto Spleen. Tre opere per la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, presentato il 4 maggio negli spazi dell’Ex Casa del Combattente di Salerno, sede della Fondazione. Partendo dalla volontà di riflettere sul ruolo che un’istituzione storica dell’arte contemporanea ha all’interno della città di Salerno[5], i due curatori, Gianpaolo Cacciottolo e Massimo Maiorino, affidano agli artisti invitati il compito di attuare quel rapporto arte-vita auspicato da Menna. Nella volontà di inserire silenziosamente l’opera d’arte nella “struttura programmata” della città, puntando nuovamente l’attenzione su un luogo, la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, troppo spesso trascurato, il progetto si articola in tre installazioni site specific pensate o adattate per gli spazi della Fondazione. La prima, inaugurata il 4 maggio, è di Davide Sgambaro, artista padovano di base a Torino, dal titolo Hey there you, looking for a brighter season (W). Ripensata per lo spazio della torretta della Fondazione, si tratta di un’installazione ambientale luminosa, la seconda della serie, creata per dialogare con l’osservatore attraverso l’immaginario di appartenenza della luce strobo; queste ultime, allacciate a un recorder dmx, sono proiettate a intermittenza e riproducono in loop una traccia luminosa basata sul sistema binario del codice morse. Dedicata alla città di Salerno, simbolo come altre città del Sud Italia dell’inizio della liberazione dal Nazi-Fascismo, il messaggio proiettato recita V V V V (…- / …-  / …- / …-), codice utilizzato da Radio Londra per trasmettere messaggi alla resistenza italiana, mentre la successione delle quattro V segue la metrica delle prime due battute della Sinfonia n. 5 di Beethoven; in seguito all’utilizzo del codice da parte della resistenza, il simbolo W fu utilizzato come simbolo della vittoria. Attraverso quest’intervento, visibile la sera, l’opera entra all’interno della piazza e della città, al cospetto dei passanti che inevitabilmente ne diventano parte integrante, diventando al tempo stesso un faro la cui luce, rivolta verso il mare, rappresenta simbolicamente un punto di riferimento a cui aggrapparsi in un momento storico contrassegnato da grandi derive. La stessa necessità per l’artista, e l’arte, di vivere nel presente e di raccontare la realtà quotidiana, ripensando al tempo stesso il ruolo della Fondazione Menna, è data dagli altri due progetti, Qui mi sento a casa di Marco Strappato e Hikikomori del collettivo damp, che si inaugureranno rispettivamente il 24 maggio e il 14 giugno.

Note
[1] F. Menna, Profezia di una società estetica, Officina Edizioni, Roma 1983, p. 27.
[2] Ibidem, p. 33.
[3] Ibidem, p. 132.
[4] Ibidem, p. 65.
[5] La Fondazione Filiberto e Bianca Menna nasce nel 1989 per volontà della famiglia Menna e dal 1994 è ospitata negli spazi attuali dell’Ex Casa del Combattente.
Spleen. Tre opere per la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, a cura di Gianpaolo Cacciottolo e Massimo Maiorino
Fondazione Filiberto e Bianca Menna, Salerno, 04.05-30.06.2024
04.05: Inaugurazione Hey there you,  looking for a brighter season (W) di Davide Sgambaro
24.05: Inaugurazione Here I Feel at Home di Marco Strappato
14.06: Inaugurazione Hikikomori del collettivo damp

 

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Harold Cohen: AARON

Con una mostra a cura di Christiane Paul, il Whitney Museum of American Art ripercorre l’evoluzione di AARON, il primo programma di intelligenza artificiale sviluppato nei tardi anni ’60 da Harold Cohen per accompagnarlo creativamente nella sua pratica pittorica, adottato a collaboratore per stimolare conoscenza sperimentazione. I lavori sono attentamente selezionati e tracciano in maniera scientifica i momenti chiave di questo dialogo uomo-macchina. L’approccio curatoriale è cronologico e permette di attraversare il passaggio da analogico a digitale, la transizione da astrazione a figurazione, a metà degli anni ’80, e tutto ciò che questi passaggi ha comportato in termini tecnici e concettuali.

Il Whitney Museum è l’unico museo a possedere nella sua collezione versioni del software AARON che tracciano i diversi periodi di sviluppo di questo progetto e permettono quindi di ritracciare le diverse fasi di evoluzione del software e di questo dialogo cresciuto con una certa gradualità.

Harold Cohen ha stabilito con il software un vero e proprio dialogo. Ha iniziato con il fornirgli regole e conoscenze per quello che riguarda i principi base di colore, forma, composizione e dimensione, fondamenti che appartengono alla sua formazione di pittore. Il loro dialogo è cresciuto, con una certa gradualità. Da un primo ragionamento su disegno e colore attraverso delle regole formulate per vie analogiche avviato negli anni ’60 si è arrivati ai primi anni ’70, quando si presenta l’occasione e il giusto contesto per sviluppare il software AARON alla Stanford University’s Artificial Intelligence Lab.

Da questo momento in poi, percorso è proseguito per fasi, ciascuna un tentativo (sempre riuscito, a volte anche troppo) di spingere oltre i limiti dell’intelligenza artificiale. Ad un certo punto, Cohen si rende conto che la macchina è in grado di fare cose che prima non immaginava possibili. Quando impara a colorare i disegni, prima completati a mano dall’artista, arriva ad un momento di crisi. Non è la mancanza di cose da fare, piuttosto l’arenarsi della collaborazione tra uomo e macchina.  “I felt that my dialogue with the program, the very root of our creativity, had been abruptly terminated”, racconta in una conferenza del 2010 all’ Orcas Center.

Ecco perché centrale nella mostra al Whitney è la macchina riportata in vita per fare entrare i visitatori, anche online in streaming sul sito in alcune ore del giorno, nel processo di esecuzione delle opere. Il software “as a central creative force behind the artwork”. Non solo. In mostra anche tutta una serie di ephemera, come quaderni di appunti e disegni personali che fanno parte del momento di progettazione e di riflessione.

Oltre a celebrare un artista riconosciuto come pioniere dell’arte digitale, la mostra entra nel vivo di questo dialogo uomo-macchina, penetra i meccanismi del processo scandendo le tappe, aiuta a riflettere sul nostro rapporto con le moderne tecnologie di intelligenza artificiale con i programmi più recenti come DALL-E, Midjourney e Stable Diffusion.

“Harold Cohen’s AARON has iconic status in digital art history, but the recent rise of AI artmaking tools has made it even more relevant. Cohen’s software provides us with a different perspective on image making with AI,” dice Christiane Paul, Curator of Digital Art at the Whitney. “What makes AARON so remarkable is that Cohen tried to encode the artistic process and sensibility itself, creating an AI with knowledge of the world that tries to represent it in ever-new freehand line drawings and paintings. Watching AARON’s creations drawn live as they were half a century ago will be a unique experience for viewers.”

In questi ultimi anni, in particolare in coincidenza con la crisi pandemica e lo spostamento di interessi economici e culturali online, alcuni termini come arte digitale sono stati particolarmente inflazionati, confusi con strumenti digitali come i certificati NFts, o con progetti di grafica e design. Questo ha significato oscurare buona parte di quelle sperimentazioni che hanno scritto la storia della ricerca in questi ambiti per più di vent’anni.

Queste operazioni che attraverso le mostre facilitano conoscenza e consapevolezza sono particolarmente importanti. In parallelo al Whitney, si è mossa anche la Galleria londinese Gazelli Art House, proponendo, con la mostra “Refractoring (1966-74)”, una selezione molto accurata di lavori di Cohen che hanno tracciato momenti chiave della transizione tra il 1966 e il 1974, momento nodale del suo lavoro ma anche inizio di diffusione delle tecnologie nella società. Tra i lavori, anche Sentinel esposto alla Biennale di Venezia nel 1966, quando è stato invitato a rappresentare il Padiglione Inglese, momento di grande riconoscimento internazionale che non arresta la sua spinta creativa “that arises when the individual starts to question the unquestioned assumptions of his field and to act out of the scenarios that present themselves as a result”.

Alla riflessione pura sul rapporto uomo-macchina le mostre restituiscono parte di questa storia, la rendono comprensibile avvicinando i visitatori al processo nella sua vitalità. Gli incontri, alcuni disponibili online sul sito del Whitney, i documenti prodotti e il catalogo con contributi dei più importanti studiosi che il 9 maggio è stato presentato alla Gazelli Art House, seguiranno la fine delle mostre. Tutto questo ci fa riflettere anche sulla curatela delle mostre, quando tra gli obiettivi c’è anche  quello di garantire che i contenuti siano resi disponibili e accessibili ai visitatori, rispettivamente nella misura di un museo e di una galleria.

Harold Cohen, AARON, a cura di Christiane Paul, Whitney Museum of American Art, fino al 19 maggio 2024

Immagini: (cover 1-2) panoramica d’installazione di Harold Cohen: AARON, Whitney Museum of American Art, New York, 3 febbraio –19 maggio, 2024 (3) Harold Cohen, AARON KCAT, 2001 (4) panoramica d’installazione di Harold Cohen: AARON, Whitney Museum of American Art, New York, 3 febbraio –19 maggio, 2024 (5) Harold Cohen, AARON Gijon, 2001 (6) Panoramica di installazione di Harold Cohen, Refactoring (1966-74), Gazelli Art House, Londra (8 marzo–11 maggio 2024).  Courtesy Gazelli Art House, Londra.

 

 

 

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Adrian Piper al PAC di Milano

Che il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano sia da alcuni anni una delle istituzioni pubbliche italiane più ricettive alle ricerche di artisti attenti ai contesti sociali, nonché alla performance è abbastanza noto tra gli addetti ai lavori: a definire tale identità ha contribuito in maniera cospicua la direzione artistica di Diego Sileo che, con competenza, curiosità e senza disdegnare la provocazione, dedica parte della programmazione a tale medium, attraverso mostre tanto di italiani quanto di figure internazionali, riannodando tragitti che segnano la storia dell’istituzione milanese. Quello che forse è meno evidente a chi non frequenta sistematicamente il PAC è che l’edificio stesso sembra favorire andamenti laterali rispetto alla tradizione delle arti visive, “naturalmente” aperto a esplorazioni che eludono “l’armadio chiuso” del modernismo: la grande vetrata affacciata sui giardini di Villa Reale è membrana osmotica con l’area verde retrostante, la sua continua mutevolezza cromatica e luminosa, la sua piacevole ma invadente presenza. E ugualmente il ballatoio che corre parallelo al vano centrale del piano terra si trasforma agevolmente nel balcone da cui assistere a quanto si svolge in basso. Un ideale loggione, tropo di una dimensione teatrale celata appena sotto la pelle dello spazio museale.

Dal 19 marzo e fino al 9 giugno, il PAC ospita la prima retrospettiva italiana di Adrian Piper (New York 1948), figura di spicco dell’arte post-concettuale statunitense, particolarmente rappresentativa per il costante impegno su aspetti e questioni legate al razzismo, ma con rare apparizioni italiane, tra cui il tempestivo Parlando a me stessa. L’autobiografia progressiva di un oggetto d’arte, edito in italiano da Marilena Bonomo nel 1975, con la presumibile mediazione di Sol Lewitt; il prestigioso Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2015, quella diretta da Owki Enwezor; la traduzione di Meta-art (1973) per Castelvecchi nel 2017 a cui aggiungere qualche inclusione di lavori in rassegne collettive. Sebbene la dimensione performativa a cui si è accennato in apertura, questa volta sia affidata solo alla documentazione fotografica e audiovisiva con cui si da conto di numerosi interventi di Piper, in particolare della splendida Funk Lessons (1983-85) tramite il film di Sam Samore, lo stile del curatore è ben riconoscibile. Infatti, tranne pochi lavori giovanili, tutto guarda al mondo, oltre i convenzionali problemi del visuale.

Il visitatore è accolto da un brusio di voci che provengono da installazioni sonore e video che punteggiano il percorso espositivo: una dimensione corale messa in evidenza sin dalle prime opere, con Negative Self-Portrait (1966), lavoro figurativo su carta, firmato “Adrienne”, subito prima quindi dell’adozione del più neutro – ma con sfumature maschili – Adrian. L’artista si presenta quindi con una identità multipla e sfaccettata: sebbene ricorra sovente alla propria immagine disegnata, fotografata, ripresa in video, i suoi connotati restano volutamente sfocati tanto rispetto all’appartenenza a un gruppo etnico definito – come avverte la definizione che campeggia su materiali promozionali dell’esposizione, Race Traitor – quanto dal punto di vista del genere. Se questo secondo aspetto è mobilitato solo indirettamente in The Mythic Being (1973-1980), Race Traitor è il titolo di un lavoro del 2018  in cui l’artista rielabora la riflessione sulla propria identità formulata quarant’anni prima, con i Political Self-Portraits (1978-1980), giocati sull’associazione tra la riproduzione della fotografia del passaporto – per antonomasia lo strumento di identificazione burocratica del cittadino – e una serie di eventi biografici in cui Piper ha preso coscienza del gruppo razziale a cui apparteneva o al quale gli altri ritenevano appartenesse. Il titolo della mostra, quindi, allude anche all’esperienza del passing, tematizzata dall’artista in questi e altri interventi, rievocandone le ambiguità sulla scorta sia della tradizione letteraria, sia delle pressioni sociali.

Attraverso approcci spiazzanti, Piper lavora per erodere le linee delle costruzioni sociali che dividono le persone in gruppi razziali: dalla riproposizione dei cliché al loro ribaltamento, fino all’esplorazione di situazioni in cui i presenti – visitatori inclusi – sono disorientati. In tal senso si muove la celebre installazione Cornered (1988) in cui il pubblico del museo diventa anche il destinatario del monologo della professoressa Adrian Piper[1], trasmesso da un televisore installato tra due certificati di nascita in cui un medesimo individuo viene definito “octoroon” nel 1953 e “white” nel 1965.

Nel video, infatti, Piper spiega – rivolgendosi direttamente al visitatore in sala – proprio l’impossibilità teorica di definirsi bianco o nero nella società statunitense, dove i contatti tra i due gruppi sono antichi e ramificati. La sensazione di essere parte in causa, parte del problema, di essere tra gli interlocutori dell’artista non ci abbandona mai: dal reiterato impiego del pronome “you” nei titoli, fino all’adozione dell’indagine sociologica che nella serie Close to Home (1987) fa emergere – potenzialmente nelle biografie di ciascuno – omissioni circa il proprio inconfessato razzismo; dalle luci che alternativamente si accendono e si spengono in Black Box /White Box (1992) trasformando l’osservatore in osservato al ricorso agli specchi in Das Ding-an-sich bin ich (2018).

Pur rinunciando alla narrazione lineare con l’intento di calare il pubblico nel bel mezzo delle prove di un coro, in cui le voci si alternano e si sovrappongono, la mostra dipana una conversazione che copre una carriera lunga quasi sei decadi, puntellata da prestigiosi riconoscimenti, come si deduce dalle collezioni da cui provengono i pezzi in mostra, coerente nel nucleo semantico ma diversificata per medium e stili, dai lavori d’esordio debitori dell’arte concettuale, fino alle recenti animazioni digitali, passando per installazioni, video e variazioni attorno all’impiego della fotografia e della scrittura.

Tra le opere stilisticamente più sorprendenti i Vanilla Nightmares (1986-1989, fig. 6) disegni a carboncino eseguiti sulle pagine del New York Times. Resi celebri dalle riflessioni di Hal Foster in Il ritorno del reale, le opere insistono sulle paure che alimentano il razzismo: con fisionomie esagerate e corpi vistosamente erotizzati, l’artista tratteggia donne e uomini bianchi e neri che visivamente interagiscono con le figure riprodotte nelle pubblicità o fotografate per la cronaca, e in generale entrano in risonanza con le notizie relative al Sudafrica pubblicate dal quotidiano. Ma dal vero si apprezza quanto il tratto, volutamente caricaturale e semplificato, non si sottragga alle atmosfere neoespressioniste di quegli anni, mettendo ancora una volta in comunicazione personale e collettivo, pubblico e privato, e con un approccio intersezionale ante litteram.

[1] Oltre che artista visiva, Piper ha insegnato filosofia teoretica in numerosi atenei statunitensi; dal 2005 vive a Berlino.
Adrian Piper, RACE TRAITOR, PAC- Padiglione Arte Contemporanea, Milano, 19.03 – 09.06.2024

images: (cover1) Adrian Piper, «Das Ding-an-sich bin ich», 2018, photo Nico Covre (2) Adrian Piper, «Race Traitor», 2018, stampa digitale (3) Adrian Piper, «Cornered», 1988 (4) Adrian Piper, «Close to Home», 1987, fotografie, testo, audiotape  (5) ) Adrian Piper, RACE TRAITOR», PAC, Milano, ph Nico Covre – Vulcano Agency (6) Adrian Piper, «Vanilla Nightmares #11», 1986, carboncino su pagina di giornale.

 

 

 

 

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Travellers Mirror Cities a Venezia

Il 17 aprile il MoCA di Shanghai, in collaborazione con Venice International University in Italia, presenta una grande mostra collettiva: “TRAVELLERS MIRROR CITIES”, titolo che richiama le tematiche della 60° Biennale di Venezia “Stranieri ovunque”. La mostra è visitabile fino al 18 maggio nelle sale espositive de La Venice International University, centro internazionale di formazione avanzata e ricerca, spazio dedicato agli scambi internazionali di saperi presso l’isola di San Servolo a Venezia.

La mostra, curata da Miriam Sun, direttrice esecutiva del MoCA di Shanghai, e da Giuliana Benassi, curatrice italiana, presenta alcune delle voci più interessanti del panorama dell’arte contemporanea cinese e italiana, tra cui Qiu Anxiong, Josè Angelino, Shi Chengdong, Rä di Martino, Guo Fei, H.H. Lim, Matteo Nasini, Oliviero Rainaldi, Gabriele Silli, Fu Tong, Jin Wang, Yang Yongliang.

Le città, in quanto spazi geografici, sociali e culturali, racchiudono numerose stratificazioni di valori che non sono immediatamente visibili. “TRAVELLERS MIRROR CITIES” si propone di costruire in modo ingegnoso un percorso artistico concettuale su “La città del viaggiatore – un’immagine spirituale speculare di sé e dello straniero”, tessendo una narrazione dinamica su due piani, uno evidente e l’altro nascosto. Da un punto di vista formale, scegliendo di presentare in maniera non lineare opere d’arte di artisti cinesi e italiani che lavorano con diversi linguaggi artistici, la mostra invita “chi la percorre” a continuare a porre domande alla città, ridestando la loro attenzione attraverso i singoli elementi del percorso espositivo e guidandoli a cercare il riflesso di se stessi nello specchio delle varie soluzioni fornite dalla città. Lo scopo della mostra, quindi, non è solo quello di far trovare ai viaggiatori le risposte agli enigmi visivi della città, ma anche di delineare la loro capacità di autorispecchiamento e di incoraggiare una più profonda contemplazione delle relazioni interpersonali. L’intera mostra vuole restituire quella “rete simbiotica” dell’oggi, tessuta dagli artisti contemporanei che, seppur provenienti da Cina e Italia, sembrano uniti da un unico filo: quello dell’essere umano al cospetto del mondo.I differenti e multidisciplinari linguaggi degli artisti in mostra testimoniano, tra l’altro, le nuove scoperte della scienza e della tecnologia nell’era dei contenuti generati Intelligenza Artificiale (IA), i nuovi concetti di sostenibilità le strutture filosofiche alla base delle pratiche di installazione e l’estetica tradizionale orientale. Attraverso molteplici mezzi di comunicazione e narrazioni uniche, la mostra cerca di collegare la Cina con il mondo, la tradizione con la contemporaneità, rimodellando lo sfondo mutevole della storia, riempiendo l’ultimo frammento dell’immagine intellettuale della città e cercando la chiave per collegare le relazioni umane in base alle loro identità.

L’anno 2024 ha un significato particolare per la Cina e l’Italia, in quanto segna il 700° anniversario della scomparsa di Marco Polo. Con la mostra “TRAVELLERS MIRROR CITIES”, l’intento del MoCA di Shanghai non è solo di riecheggiare lo spirito del tema della 60a Biennale di Venezia “Stranieri ovunque”, ma anche di introdurre una nuova prospettiva per approfondire la comprensione reciproca dell’arte, della cultura e dell’estetica tra i popoli di Cina e Italia, promuovendo ulteriormente l’amicizia e la conoscenza tra le due nazioni. La mostra all’Università Internazionale di Venezia è il debutto del progetto espositivo itinerante “TRAVELLERS MIRROR CITIES”, che nel prossimo futuro si sposterà a New York, negli Stati Uniti.

(dal comunicato stampa)

TRAVELLERS MIRROR CITIES, curated by Miriam Sun, executive director of MoCA Shanghai, and Italian art curator Giuliana Benassi,  Venice International University (VIU), Isola di San Servolo, 19.04 – 18.05.2024
Artisti: Qiu Anxiong, Josè Angelino, Shi Chengdong, Rä di Martino, Guo Fei, H.H. Lim, Matteo Nasini, Oliviero Rainaldi, Gabriele Silli, Fu Tong, Jin Wang, Yang Yongliang.
17-20 aprile, 2024 (19.30 – 11-30) Guo Fei e il compositore Jin Wang saranno impegnati in una performance audio-visiva live nella cornice della chiesa adiacente all’Università Internazionale di Venezia. 

immagini: (1) Fu Tong, «Flowing Bodies», 2023. Audio-Video Installation (2) Guo Fei, «endlessREDDAL» (3) Josè Angelino, «Mosquitos», 2017, Campi elettromagnetici, micro magneti, bicchieri, frequenze di risonanza di Schumann, riproduttore/amplificatore audio, dimensioni variabili, Courtesy l’Artista e Galleria Alessandra Bonomo Roma, ph Adriano Mura

 

 

 

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MUSAE. Future Foodscapes

MUSAE, un progetto volto a definire un modello innovativo per l’integrazione della collaborazione artistica nei Digital Innovation Hubs europei attraverso una metodologia Design Futures Art-driven (DFA), annuncia una mostra di due giorni “Future Foodscapes” che si terrà il 9-10 aprile presso l’edificio storico dell’Università di Barcellona per presentare opere d’arte basate sugli scenari futuri sul tema del “cibo come medicina” sviluppati dagli artisti del progetto MUSAE.

Le opere d’arte sono nate dal progetto MUSAE, sostenuto da Horizon Europe attraverso S+T+ARTS e portato avanti da una rete di università, centri di ricerca tecnologica e aziende tecnologiche con l’obiettivo di definire un modello innovativo di Design Futures Art-driven (DFA) per integrare la collaborazione artistica negli European Digital Innovation Hubs (E-DIHs). L’obiettivo di MUSAE è quello di sperimentare un nuovo modello di collaborazione, chiamato MUSAE Factory, basato sull’innovazione guidata dall’arte e sui futuri del design per guidare le imprese tecnologiche nell’immaginare nuove soluzioni per migliorare la sostenibilità della catena del valore alimentare a diversi livelli.

La mostra prenderà il via martedì 9 aprile alle 18.00 nella splendida sala dell’edificio storico dell’Università di Barcellona. Ogni artista presenterà il proprio lavoro, offrendo approfondimenti sui propri processi creativi e sulle proprie ispirazioni. Seguirà un cocktail per favorire il networking e la discussione tra i partecipanti.

Il 14 marzo MUSAE ha lanciato il secondo bando aperto per la selezione di undici teams, composti da un artista e una PMI, che parteciperanno a un programma di residenza della durata di dieci mesi e creeranno concetti e prototipi orientati al futuro di TRL 5. Almeno un team (artista e PMI) sarà selezionato in modo specifico da uno dei Paesi in via di sviluppo.

I candidati dovranno scegliere uno dei dodici scenari futuri creati nell’ambito del primo programma di residenza MUSAE S+T+ARTS. Gli scenari futuri fungono da contesto di esplorazione per i team che desiderano lavorare e sviluppare concetti e prototipi. Gli scenari futuri coprono un’ampia gamma di argomenti nell’area del “cibo come medicina”. Tutti gli scenari possono essere esplorati in modo più dettagliato sul sito web di MUSAE. I team di artisti e PMI devono candidarsi con una proposta che descriva l’opportunità dello scenario indicato nel brief, su cui vorrebbero lavorare e sviluppare durante il programma di residenza adottando il metodo Design Futures Art-driven.

La residenza durerà dieci mesi in modalità ibrida, con viaggi programmati nelle sedi dei diversi partner in Europa. Nella prima fase i team lavoreranno alla generazione di concetti e nella seconda alla costruzione di prototipi. I team saranno supportati dalle competenze del consorzio in materia di arte e design (Politecnico di Milano, Gluon, Università di Barcellona), nutrizione (University College di Dublino) e tecnologie di robotica, IA e wearables (Ab.Acus, PAL Robotics, Università di Barcellona, Università di Manchester, Università di Belgrado). Al termine del programma di residenza, sarà organizzata una mostra pubblica a Bruxelles, in Belgio, per esporre i prototipi sviluppati a un vasto pubblico. Ogni team può richiedere un contributo di 80.000 euro, che deve includere tutti i costi correlati.

Future Foodscapes, Università di  Barcelona, 09-10.04.2024
Artisti: Baum & Leahy | Chloe Rutzerveld | Eleonora Ortolani | Frederik De Wilde | Irena Djukanovic | Katarina Andjelkovic | Lisa Mandemaker | Maciej Chmara | Nonhuman Nonsense | Peter Andersen | Sanja Sikoparija | The Center for Genomic Gastronomy
Open Call: Applicare qui for (fino al 14 maggio, 2024): Per informazioni scrivere: progettieuropei@made-cc.eu (soggetto dell’email:  [MUSAE2OC]. 
MUSAE è un progetto del Politecnico di Milano, Ab.Acus (Italia), Universitat de Barcelona (Spagna), MADE Competence Center 4.0 (Italia), PAL Robotics (Spagna), Gluon (Belgio), University College Dublin (Irlanda), The University of Manchester (Inghilterra), University of Belgrade – School of Electrical Engineering (ETF) (Serbia).

 

 

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