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Heat and Solitude. In dialogo con Federica Di Carlo

Nell’ambito di Volcanic Attitude, festival di cultura contemporanea tra Napoli e le Isole Eolie, alla sua quarta edizione, tenutasi tra il 24 e il 28 giugno 2025, Federica Di Carlo ha presentato, sul bordo del cratere di Vulcano, l’istallazione ambientale Heat and Solitude, progetto realizzato in collaborazione con INGV. In questo “ambiente estremo”, poco adatto all’arte così come poco adatto alle persone, si ergono le sculture di due piedi con la pianta rivolta verso il cielo, sorretti da due tubi che sprofondano nella fumarola sottostante, i quali fumi hanno contribuito all’aspetto finale dell’opera, producendo reazioni chimiche con il materiale scultoreo. I piedi, simbolo del dio Vulcano, nato storpio, hanno matericità differenti, se uno, infatti, è in bronzo bianco, che le sostanze vulcaniche hanno scurito e cangiato, l’altro è in un incredibile zolfo fuso, giallo e lucido, inerte attraverso la fusione.
Di Carlo, nella sintesi dell’opera, collabora con il vulcano stesso, così come con Francesco Sortino, vulcanologo dell’INGV, producendo un’opera “a sei mani” quasi totemica, stagliata verso il cielo ma profondamente terrena, in equilibrio tra scienza e mito, magnete tra il kairos degli eventi, il festival, l’incontro con Sortino, l’incedere della genesi dell’opera, l’aion di Vulcano e della mistica da cui prende il nome, immutabile ed inesauribile e il kronos della nostra vita terrena, di cui ne coglie un elemento imprescindibile che accomuna tutti i protagonisti di quest’opera, quindi tutti noi: la solitudine.
Se il “calore” del titolo è facilmente riconducibile all’hic et nunc dell’istallazione, la “solitudine” ne è evocata, ma proprio da quest’evocazione si diramano i fili invisibili che trasformano quei piedi in uno specchio. La solitudine del dio Vulcano, vero e proprio artista divino, forgiatore di armi e gioielli ma anche scultore, riecheggia in quella degli altri due ruoli che hanno preso parte all’opera: quella, per l’appunto, degli artisti, intenti, nel loro studio, a costruire trappole e grimaldelli percettivi, e quella dei vulcanologi, a studiare, in territori impervi e pericolosi, l’anima della terra. Ma la solitudine diventa specchio del mondo, un elemento sempre più presente nella quotidianità di ognuno di noi, in una realtà sempre più tecnologica, sempre più automatica, sempre più comoda, che come contrappeso produce un perturbante isolamento, malessere ontologico autoinflitto.
In conclusione, un’opera sfaccettata e affascinante che trova la quadratura del cerchio tra personale e sociale, arte e scienza, ontologia ed epistemologia. Quei piedi rivolti al cielo, raggiungibili con fatica, alpha di pensieri e sensazioni, dimostrano le qualità del prodotto artistico, chiarificano il senso dell’opera in un tempo in cui appare sempre più evidente il suo ammassamento sull’omega.

Pensieri e sensazioni riguardanti il senso dell’arte, della solitudine e della realtà ai giorni nostri. Questioni complesse che chiediamo direttamente all’artista:

Fabio Giagnacovo: HEAT & SOLITUDE è un lavoro “a sei mani”, le tue, quelle del vulcanologo Francesco Sortino e quelle del vulcano, e quindi del dio Vulcano (Efesto nella mitologia greca), dio del fuoco che scaccia gli spiriti maligni ma anche di quello distruttivo, della metallurgia, dell’ingegneria e della scultura. Vero e proprio artista che sembra in qualche modo ricalcare molto più di Apollo e delle Muse, simboli greci dell’ideale artistico assoluto, l’idea di arte contemporanea, eterogenea, più “reale” e meno propriamente lirica. Inoltre foggia creature pensanti da materiali inanimati, veri e propri cyborg, aprendosi al digitale al pari di Pigmalione. Credi che, pian piano, quel cosmo che possiamo definire con il termine “Arte” da essere Apollo si sia ritrovato ad essere Vulcano, geniale e isolato, disprezzato dagli dei e giustificatamente rancoroso (d’altronde fu gettato appena nato dalla cima del Monte Olimpo dalla sua stessa madre)? 

Federica Di Carlo: Quando sono stata invitata a creare un lavoro site-specific per il “Volcanic Attitude” sull’isola di Vulcano la prima cosa che mi sono domandata è stata come mai questo vulcano non avesse un vero e proprio nome rispetto agli altri vulcani come Stromboli, l’Etna ecc.. Ho scoperto che il Vulcano dell’isola di Vulcano da il nome a tutti i vulcani del mondo, e questo proprio grazie alla figura del Dio Vulcano. Il sentimento della solitudine sembra nascere nel racconto mitologico da questo Dio nato storpio, unico non bello tra gli dei e per questo gettato in mare dalla superficialità della madre Era. In un olimpo fatto di sfarzi, vizi, capricci, narcisismo, bellezza esasperata e ostentata, dove quello che appare é quasi sempre ingannevole e con conseguenze anche per gli dei stessi che vogliono tutto e subito…molto simile alla società di oggi; un antieroe di questo tipo trovo che sia necessario più di un Apollo. La sua solitudine diviene lo stato della creazione ma anche memento di uno stato della società apparentemente nascosto dietro agli schermi..nel costante timore di mostrarla; Invece è necessario accoglierla e attraversarla per usarla come strumento di rinascita e comprensione di quello che sta accadendo attorno a noi. Mi sento molto più simile a un Efesto che ad Apollo, ci serve più questo stato di onestà nell’arte piuttosto che la mera forma e l’ingannevole e superficiale di molta arte che oggi, compare e scompare con le mode.

 HEAT & SOLITUDE, come si evince già dal titolo, parla anche di solitudine. Indubbiamente essa ha la doppia valenza di essere forza distruttiva e creatrice contemporaneamente. Catalizzatrice del processo creativo, quando sborda in quel “deserto del reale”, come direbbe Mark Fisher, che è il sistema in cui esistiamo, diviene l’assoluto cul de sac, d’altronde ci si riconosce solo nell’altro, mettendosi in relazione all’altro per similitudine e differenza. Inquietante come, soprattutto dopo la saga pandemica, sempre più persone tendano naturalmente a isolarsi (tralasciando il simulacro dell’iperconnessione tecnologica) costruendosi un sistema complesso auto-riferito. Sei d’accordo? Come ti relazioni alla solitudine e come credi impattino sul mondo le varianze consuetudinarie al riguardo? 

La solitudine è un sentimento complesso e semplice al tempo stesso, ma che oggi mette molte persone a disagio perché non nasciamo come specie solitaria. Ci siamo auto-isolati nelle vite parallele che creiamo in finto racconto della nostra vita sui social, dove questo lato non può mai essere mostrato. E’ proprio questo esilio del sentimento della solitudine che la fa riemergere ed essere più contemporanea che mai; tutto ciò che viene soffocato, seppellito in profondità come magma riemerge senza preavviso ed in modo devastante. Abbiamo scordato l’altro lato della solitudine quella da assaporare, quella che ha a che fare con le nostre antenne connesse al sistema Natura-Mondo; che è poi lo stato dell’artista, l’unico stato possibile di creazione perché è in quei momento che possiamo fare da filtro e forgiare solo quel che resta di essenziale in quel momento. E’ una condizione che personalmente cerco e senza la quale non riesco a immaginare le mie opere. 

Nella creazione di quest’opera hai collaborato per la prima volta con un vulcanologo, ma sei solita collaborare con scienziati di vario genere nella concretizzazione delle tue opere, spesso sfaccettate, che fondono natura e cultura (entrambe a loro volta riconoscibili in termini sia scientifici che umanistici). Assistiamo, negli ultimi tempi, al proliferare di collaborazioni tra artisti e ingegneri informatici in cui la figura della “persona di scienza” è puramente tecnica e subordinata. In operazioni come HEAT & SOLITUDE, invece, c’è chiaramente un lavoro di squadra. Cosmi all’apparenza lontani, nelle tue opere, coesistono con naturalezza grazie anche a questo tipo di collaborazione. Viene da pensare che la genesi del pensiero visualizzato che dà vita all’opera attraversa un percorso tortuoso in quanto fondato su una serie di incognite e di elementi cangianti, si scontra con fatti e ipotesi al pari del metodo scientifico, in qualche modo cresce con una concretezza aliena a quel fare saturnino e dionisiaco che un certo tipo di arte coesistente alla tua ha. È così? Ed è così importante radicarsi alla realtà?

HEAT & SOLITUDE nasce prima di tutto da uno scambio tra due esseri umani sulla cima del cratere del vulcano e questo credo sia la base e il presupposto di quasi tutti i miei lavori. Poi subentra l’elemento della conoscenza che può essere artistica, scientifica o naturale, che proprio come gli elementi chimici del vulcano a seconda di come vengono combinati, come si incontrano, come si fondono tra di loro, generano nuove possibilità che prima nessuno vedeva. Collaborare con il vulcanologo Francesco Sortino del INGV è stato per me fondamentale per poter immaginare una scultura in dialogo aperto con il vulcano. Questo significava anche sacrificare una parte del controllo del lavoro, che però è per me un’abitudine che porto avanti nella mia ricerca da molto tempo; tendere le mani verso le leggi che ci governano e usarle in forma poetica (e attenzione non scientifica), è qualcosa che mi attira e che mi dà, come i vapori che fuoriescono dalle viscere della terra, quel senso verso il cielo del fare arte per capire e sentirci al mondo. Come lo stesso magma che crea la terra sulla quale noi camminiamo oggi. C’è stato un tempo di gestazione insieme a Francesco, e anche una parte sperimentale nella quale abbiamo testato dei materiali sulle fumarole del vulcano per capire fin dove mi potevo spingere con la mia idea di sculture. Con il suo aiuto e la sua apertura mentale, abbiamo fatto una cosa unica nel suo genere sia dal punto di vista materico che dal punto di vista artistico, perché ho potuto forgiare un piede in zolfo, cosa che non è per niente semplice e non credo mai fatta prima in ambito di arte contemporanea. E forgiarne un altro di bronzo bianco che a contatto con gli agenti chimici provenienti dal sottosuolo e portati da Francesco insieme alla Performer alla scultura stessa, ne ha modificato e trasformato il colore finale. Il risultato, che dal punto di vista chimico ci aspettavamo diverso ha assunto un colore imprevisto creando un nuovo stupore scientifico, artistico e poetico. E’ stato un vero e proprio lavoro a sei mani con il dio Vulcano.

Federica Di Carlo, “Heat & Solitude”, realizzato in collaborazione con INGV, nell’ambito del Volcanic Attitude, Napoli, Isole Eolie, 24 – 28.06. 2025

immagini: (All) Federica Di Carlo, “Heat & Solitude”, As part of Volcanic Attitude, 24 e 28 June 2025, @emiliomessina e @davive jay pompejano

 

 

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Intervista | Giovanni Gaggia

L’intervista a Giovanni Gaggia, artista marchigiano multiforme di un’estrema sensibilità tanto ai temi interiori quanto a quelli sociali e politici, è un’intervista peculiare, in cui non c’è spazio per alcuna polemica. Con un artista così chiaramente posizionato nei confronti della realtà, così profondamente impegnato nella costruzione di riflessioni, materiali o immateriali che siano, che trovano senso in qualcosa di molto vicino ai termini di “giustizia” e di “benessere”, non si può perdere l’occasione di capire al meglio il suo agire, così come il suo sentire. Ascoltare Gaggia significa mettere in discussione, spesso, le proprie convinzioni, significa impegnarsi ad aprire se stessi agli altri, vuol dire avere la possibilità di migliorarsi.

Fabio Giagnacovo: Sei un artista estremamente multiforme: nelle tue opere troviamo il disegno, la pittura, la scultura, la fotografia, il video, la performance, ma come possiamo leggere sul tuo statement (in realtà lo si nota facilmente anche solo guardando la serie di lavori che hai prodotto nell’ultimo decennio) prediligi soprattutto il disegno, la performance e il ricamo. C’è un collegamento tra questi 3 media? Qual è il processo che ti porta a scegliere il medium più adatto, nelle tue opere? E infine, siamo sempre portati a pensare, superficialmente, che nel mondo dell’arte il ricamo sia una pratica femminista, nel tuo caso evidentemente non lo è ma spesso si lega similmente, in maniera forte e chiara, ad un senso sociale e politico, cosa significa per te ricamare?

Giovanni Gaggia: Il filo che unisce i 3 linguaggi da te citati, valido per ogni media che decido di usare è il tempo. “Sul filo del tempo” trovo che sia un titolo meraviglioso. Aggiungerei, forse, un sottotitolo: “un viaggio politico”.

Il mio disegno si realizza tramite segni sovrapposti, quasi a ricalcare la tecnica classica della punta secca nell’incisione che fa parte della mia formazione di adolescente. Ora sta lì in un angolo del mio fare: mi attende dal 2011. Il ricamo è per sua natura un processo dilatato nel tempo, la più intima, a volte la più profonda, pratica che consente di avvicinarsi alla meditazione: un mantra. Infine la performance: ha un momento d’azione a volte indefinito e in questo spazio temporale accade qualcosa di unico e irripetibile. La mia intenzione è sempre lasciare allo spettatore un attimo che possa cambiarlo e che si possa portare via. Per questa ragione, negli ultimi anni, ho deciso di posare lo sguardo sulla danza contemporanea. Per me è la più grande forma d’arte, dove la profonda conoscenza del corpo si sposa con un concetto forte per far accadere qualcosa di straordinario.

Ora possiamo passare all’analisi del sottotitolo. Il mio lavoro è sempre profondamente e consapevolmente politico, la pratica ha definito l’uomo che sono e ha tracciato un chiaro ruolo sociale.

La mia ultima personale al Museo Riso di Palermo a cura di Dasirè Maida ha messo il punto sul mio lavoro al fianco dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica e della famiglia di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA scomparso nel 2006. Il titolo Quello che doveva accadere, che portavo con me dal 2015, è mutato in PRATICA POETICA POLITICA. In queste tre parole che iniziano tutte con la medesima lettera, con un rimando chiaro a Pier Paolo Pasolini, si racconta tutto il mio agire di artista e di uomo fino al ricamo, il quale diviene per me un mezzo per raccontare storie, che sia un uomo a farlo è l’ennesimo gesto politico.

Il disegno, le performance cariche di pathos, l’atto personale che diviene metafora e senso di qualcosa che travalica il sé, la tendenza poetica-politica, l’impegno sociale, il ruolo della memoria. Diciamo che se aggiungessimo il miele e il feltro verrebbe facilmente alla mente Joseph Beuys. C’è qualcosa che, in particolare, ti ha colpito e/o ti colpisce dell’artista-sciamano? È corretto, secondo te, pensare che “La rivoluzione siamo noi” o è utopico?

Colpito e affondato.

Oramai è nella mia quotidianità, fa parte in maniera importante della mia formazione, lo sguardo si è rivolto spesso a lui aspirando al suo oro, tentando di raggiungere una qualche consapevolezza spirituale.

Ripeto anche in questa occasione: la mia performance più grande è Casa Sponge. Il mio metaprogetto che vive di una esistenza propria e che grazie ai tanti passaggi, di artisti e non, si è caricato di una energia sua. Tra questi c’è ne è uno che ha reso visibile il concetto politico insito nel gesto di aprire le porte di casa: è Mario Consiglio il quale ha riaperto le finestre cieche del casale con due grandi specchi, in quello superiore dove si riflettono le nuvole c’è scritto YOU ARE A LEGEND. In basso ci siamo NOI. L’installazione è un omaggio a Joseph Beuys, rompe la barriera tra interno ed esterno e cerca l’equilibrio tra uomo, arte e natura. In questo modo si rende definitivamente palese la filosofia progettuale, ispirata al maestro-sciamano.

E’ utopico ma è corretto pensarlo. Quotidianamente penso a questa frase, è una sorta di faro guida che delinea il mio modo di comportarmi, fin dalle più piccole cose, al di là dell’opera d’arte.

Hai lavorato per anni alla serie di opere Quello che doveva accadere, dedicate alla strage di Ustica, progetto che riflette sul legame tra arte e memoria e sull’importanza della memoria come impegno civico. Indubbiamente, però, un progetto su un fatto in qualche modo irrisolto, ancora fumoso e per niente chiaro, pone anche l’attenzione su quel fatto, lo porta allo scoperto con tutte le sue contraddizioni. In altre parole è l’altra faccia della medaglia del reportage. Cosa può l’arte davanti a questo muro di gomma, come lo definiva Andrea Purgatori? E come nasce un progetto così pesante emotivamente, che riflette in qualche modo la morte di 81 persone, il dolore di 81 famiglie, il silenzio assordante che dura da più di 40 anni, il fatto che non si sia mai fatta giustizia?

82 famiglie, si aggiunge quella di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA che a tutti gli effetti viene considerato l’ottantaduesima vittima. Cito tre passaggi giudiziari dove emerge in maniera chiara la verità. E’ del 1999 l’ordinanza del giudice istruttore Rosario Priore quale scrive che il DC-9 è stato abbattuto: «è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto». Nel 2012 invece, la corte d’appello di Roma condanna, per omessa attività di controllo e sorveglianza, i Ministeri della difesa e dei trasporti. Secondo i giudici civili lo Stato è responsabile di «omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica». Infine il 2020, quando un’ennesima sentenza conferma le conclusioni di Priore: l’aereo è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra e condanna in via definitiva i due dicasteri al risarcimento di ITAVIA per 330 milioni di euro.

L’arte è l’elemento scelto dall’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, per fare sì che le luci su questa storia non si spengano mai. Si affianca alla giustizia, pungola la politica, sensibilizza il civile, la storia si mantiene viva. E’ la medesima azione compiuta dalle 81 luci sospese sopra la carcassa dell’aereo nella straordinaria installazione di Christian Boltanski per il Museo per la memoria di Ustica a Bologna. La vidi nel 2010 e quell’accadimento mi entrò dentro, iniziai a disegnare, lo feci per mesi. Riprodussi a matita alcuni oggetti che emersero dal mare di Ustica, la linea si muoveva intorno a tracce ematiche. Nacquero prima 7 tavole, le mostrai a Daria Bonfietti, Presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica. Tra le sue prime parole “Quello che doveva accadere”, questa frase mi spinse a continuare a raccontare questa tragica vicenda ed iniziare a studiare l’importanza dell’arte nella memoria. Talk, tre personali sul tema, due opere musealizzate, una pubblicazione edita da NFC edizioni, un libro d’artista pensato per una larga diffusione con circa 60 contributi, un’inchiesta nata sulle pagine di Artribune quarant’anni dopo l’accadimento. “[…] Analizziamo i termini Tempo e Giustizia in relazione a questa tragica vicenda, inoltre, se lo è stato, che valore ha l’aver affidato la memoria all’arte?”. Quel silenzio che descrivi ha generato voci forti e alcune costanti, come la mia.

Nel 2008 fondi Casa Sponge, nei pressi di Pergola, “prima di tutto artist-run space e residenza d’artista” si legge sul sito, ma anche molto altro: è laboratorio, è casa, tua e di chi ci vive per qualche giorno, prendendo qualcosa da essa e lasciando qualcos’altro, in termini sia materiali che immateriali, è cascina ottocentesca nella natura marchigiana pervasa dall’arte, è spazio meditativo ed interiore ma anche luogo comunitario scevro da sovrastrutture, è spazio artistico e culturale ai margini del circuito artistico e culturale eppure così vivo e rilevante, è una scelta coraggiosa. Cosa significa Casa Sponge per te, in termini interiori, da artista che l’hai fondata? E come, questo spazio fisico e sensoriale, si relazione al sempre più imperante spazio digitale della società contemporanea, (che certamente tu non neghi)? In qualche modo queste due realtà simultanee vanno in contrasto o in esse c’è una comunione d’intenti?

La mia vita si caratterizza per scelte nette. Facile è ricostruirla attraverso scelte folli, non convenzionali, sempre con una visione, inizialmente più sfumata, ora definita nei minimi dettagli.

Casa Sponge non è altro che il luogo dove i miei bisnonni si sono riscattati da mezzadri a contadini possidenti. E’ una terra che mi ha visto crescere, è un fazzoletto della collina di Mezzanotte. Il minuscolo borgo dà il nome alla zona, due castagne dalle fronde grandissime non fanno filtrare la luce. La mia casa sta nella parte più alta del poggio, qui la luce passa, e come se passa. E’ un luogo che non mi ha mai lasciato andare, pur tentando di scappare. Qui c’era qualcosa da trasformare e qualcosa da risolvere. Non era possibile farlo da solo, così la porta si è aperta in un gesto nel contempo dalla duplice lettura, una richiesta di aiuto e politica. Da solo non ce la potevo fare e accogliere si fa filosofia. Ad oggi ritengo che sia la mia opera d’arte più riuscita, segue il filo della mia esistenza. Ora ci attende, per me e la casa, un’altra tappa. La vedo in lontananza, ma non posso ancora rivelare ciò che ci attende.

Se non ci fosse il digitale Casa Sponge sarebbe un eremo, le “nuove” tecnologie sono fondamentali, mi concedono il lusso di lavorare da qui, mi permettono di mettere in atto la “restanza”. I social ad esempio sono stati fondamentali per far conoscere maggiormente Casa Sponge. Ricordo l’intervento di un influencer che decise di aiutarci a promuovere il progetto durante il lockdown, il ritorno è stato importante. C’è una comunione di intenti, il digitale è stato un facilitatore, mi ha aiutato a seguire la mia vocazione permettendomi di poterlo fare da un luogo decisamente decentrato. Il contrasto appare evidente, bisogna fare attenzione a non guardare le stelle ascoltando i messaggi vocali di WhatsApp.

Ti dedichi di frequente a laboratori didattici, spesso con bambini e ragazzi in un ambito scolastico. Non è frequente trovare un artista che dedica così tanto tempo alla formazione dei più giovani. In che modo credi che l’arte contemporanea possa arricchire queste giovani menti? E, più in generale, perché lo fai? Credi “semplicemente” che sia giusto farlo o c’è una pulsione più profonda nel veicolare certi temi poetico-sociali?

E’ un po’ come nella casa, si tratta di trasformare la vita in una performance che non termina mai. In questo tempo ci stanno gli altri, mi piace lavorare con tutte le fasce d’età dall’infanzia alla terza. Per me è doveroso farlo, altrimenti mi sembra di mentire, ho la necessità fisica di sapere che posso fare qualche cosa, se è assodato che l’arte non può cambiare il mondo, ma le singole persone si. Daria Bonfietti mi descrive come il cittadino artista.

Immagini (cover – 1) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica», Museo Riso Palermo, ph Michele Alberto Sereni (3) Realizzazione dell’opera di Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica» con la IV H del Liceo Classico Vittorio Emanuele, ph Michele Alberto Sereni (4) Giovanni Gaggia, «Quello che Doveva  Accadere. Pratica Poetica Politica», panoramica di installazione, in primo piano l’opera «Sanguinis Suavitas», Palermo Museo Riso, ph Michele Alberto Sereni (5) Giovanni Gaggia, «Il tempo se ne va», 2021, fermo immagine  da video, MUSMA, Matera (6) Giovanni Gaggia, «Eva Hide, My dad loves me», 2017, maiolica dipinta e mutandina per bambini, dimensioni ambientali (7) Casa Sponge foto Antonio Oleari (8) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra

Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista a Milica Jancovic, Arshake, 04.22.2024
Intervista a Giulio Bensasson, Arshake, 18.02.2024
Intervista a Eva Hide, Arshake, 28.12.2023
Intervista a Federica Di Carlo, Arshake, 16.12.2023
Intervista Giuseppe Pietroniro, Arshake, 07.12.2023
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023

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Premio Driving Energy 2024 – Fotografia Contemporanea

Terna, società operatrice delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, il 7 marzo 2024, a Palazzo delle Esposizioni, ha inaugurato la nuova edizione del “Premio Driving Energy 2024 – Fotografia Contemporanea”, concorso fotografico gratuito aperto sia ai fotografi professionisti che a quelli amatoriali, finalizzato alla promozione e allo sviluppo culturale del Paese e dei nuovi talenti del settore.

Ci sarà tempo fino al 30 giugno per iscriversi al concorso, che quest’anno parte dal tema declinato poeticamente nel titolo La via dell’invisibile. Anche quest’anno tema caro all’azienda di trasmissione elettrica che, se l’anno scorso con Elogio dell’equilibrio, poneva l’attenzione sulla delicata operazione dell’azienda sull’importante ricerca dell’equilibrio tra energia elettrica prodotta ed energia elettrica consumata, quest’anno mette al centro della riflessione, da un lato la natura ontologica dell’energia elettrica, elemento quotidiano invisibile che riconosciamo solo dai suoi effetti, e dall’altro la ricerca di invisibilità delle infrastrutture che permettono la trasmissione di elettricità, dai cavi sotterranei e subacquei alla verniciatura mimetica all’ambiente dei pali elettrici.

Come gli scorsi anni il tema funge da doppio pretesto: quello di raccontarsi e puntare i riflettori sui diversi aspetti dell’azienda che sponsorizza il Premio e come ispirazione per la produzione fotografica del concorso, quest’anno aperta, dunque, all’invisibile, a ciò che è senza vedersi, fenomenologia della presenza/assenza.

I premi saranno anche quest’anno 5: Premio Senior (dal valore di 15.000 euro), Premio Giovani (fino a 30 anni) e Premio Amatori (entrambi dal valore di 5.000 euro) e Menzione Accademia e Menzione Opera più votata da Terna (entrambi da 2.000 euro), che oltre alla ricompensa in denaro riceveranno una non indifferente notorietà, così come in parte la riceveranno tutti i finalisti del premio, grazie alla mostra (che sarà gratuita) curata da Marco Delogu, presidente di Palaexpo, proprio negli spazi di Palazzo delle Esposizioni, nel prossimo autunno, e alla successiva produzione del catalogo.

A scegliere i lavori in mostra e i vincitori dei diversi premi ci sarà una giuria di personalità di alto profilo nel settore fotografico e artistico in generale: il già citato Marco Delogu, Lorenza Bravetta, curatrice Fotografia, Cinema, New media per la Triennale di Milano e Direttrice del Museo dell’automobile di Torino, Francesca Barbi Marinetti, critica d’arte, curatrice, imprenditrice culturale e ideatrice di eventi culturali, Micol Forti, curatrice della Collezione d’Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, Rosa Alba Impronta, imprenditrice e creatrice della Fondazione Made In Cloister a Napoli, i fratelli D’Innocenzo, registi, sceneggiatori, poeti e fotografi e David Massey, Direttore Relazioni Esterne e Affari Istituzionali del Gruppo Terna. Inoltre il Premio Accademia verrà scelto da un Comitato d’onore di cui fanno parte tutti i vincitori del Premio dell’anno scorso.

“Il 2024, per il Premio Driving Energy, è con ogni probabilità l’anno della consacrazione, un risultato straordinario per un progetto nato solo due anni fa. La terza edizione del concorso prende il via beneficiando dell’intenso lavoro svolto finora con Terna: il Premio è diventato oggi un appuntamento molto atteso dagli addetti ai lavori ed è riconosciuto come tappa fondamentale della fotografia contemporanea in Italia.” ha dichiarato Marco Delogu, delineando, dunque, un sempre più importante peso dell’evento, sia per quanto riguarda la sua funzione di vetrina, sia di ricerca, di un Premio, in fondo, neonato e già ritagliatosi uno spazio di rilievo nel panorama della fotografia contemporanea.

Premio Driving Energy 2024 – Fotografia Contemporanea, a cura di Marco Delogu.
Bando aperto fino al 30 giugno  

 Immagini (cover) Card Premio Terna 2024, (1-2) Conferenza stampa, a Palazzo delle Esposizioni, di presentazione dell’edizion 2024 del Premio, con Marco Delogu, presidente di Palaexpo e curatore del Premio, Igor De Biasio, presidente di Terna e David Massey, Direttore Relazioni Esterne e Affari Istituzionali di Terna.

 

 

 

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