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Mise en Place. Nordine Sajot

La showroom dello studio di architettura Substratum, un piccolo gioiello che si apre su strada nel quartiere romano Monti, ospita i lavori di Nordine Sajot, artista che, nelle forme più diverse, come video, scultura, disegno, depone tutto il suo interesse antropologico.

“Mise en Place” è il quarto progetto quadrimestrale tra arte contemporanea e design ideato dai fondatori dello studio, Giorgia Castellani e Giovanni Tamburro, in collaborazione con Amalia Di Lanno, comunicatrice e consulente artistica. Nello spazio della Galleria il disegno allestitivo ricrea una stanza della casa che entra in dialogo con gli artisti invitati, attraverso il loro lavoro e la serie di incontri ed eventi dedicati al tema concepiti come processo relazionale e di condivisione.

Questa volta protagonista è la cucina, spazio di aggregazione per eccellenza, teatro di gestualità e rituali che sono stati al centro di molti lavori di Sajot e che quindi ben si sono prestati a questa sinergia. Gestualità della tavola come fattore distintivo di uno status, specchio di socialità che oggi prende forma nella ritualità accelerata di informazioni ingerite, ingurgitate, mai metabolizzate.

L’interesse antropologico è messo a fuoco attraverso l’adozione di forme diverse ma anche di diversi approcci creativi che sottendono un lavoro molto profondo sulla percezione. La sottrazione di alcuni particolari da una serie di fotografie che ritraggono gestualità tipiche della tavola (i.e. braccia con in mano posate o bicchieri) non toglie, anzi rafforza, quella stessa gestualità. La ri-materializzazione di queste parti in sculture ex-voto allestite sul muro, le riporta in vita per costruire un dialogo a sé stante.

Così con questo spazio di architettura di interni così elegante e minimale, le opere-operazioni scultura di Nordine Sajot, fotografie, sculture in ceramica e porcellana smaltata, lasciano tracce dell’uomo e della sua socialità in tutta la sua vitalità.

La ricerca dei materiali è centrale nel design. E l’allestimento della showroom ruota infatti attorno al modello GOLD di Situazione Architettura, monolite nero centrale rivestito di materiale fenix nero ingo, materiale particolarmente innovativo, opaco, morbido al tatto e anti-impronta.

La materia, come il vetro resistente della Duralex, ritratta in una serie di fotografie con un sottile gioco di pieno e vuoto, ha uno spazio di primo piano anche nel lavoro dell’artista. Questo vetro resistente inventato in Francia nel 1945 è associato ad un design di stoviglie e posate che sono parte della memoria collettiva, particolarmente diffuse nelle mense delle scuole.Il rapporto di forma e funzione alla base del design, nei lavori di Sajot è come rovesciato nel tempo, proiettato al passato, piuttosto che al futuro, in un lavoro di ricostruzione, dal gesto al rituale e dal rituale allo stato sociale. Il quadro si ricostituisce attorno al design nel suo momento di stasi, prima di entrare nella vitalità sociale delle case.

“L’artista– come leggiamo nel comunicato, “compone un tableau vivant che aziona differenti appetiti per entrare, riflettere e metabolizzare la profondità sensibile del corpo gestuale. Quella dell’artista è una pratica rituale e performativa di consapevolezza esistenziale della propria presenza, di acquisizione di ‘sapore’ e sapere cosa si è e si vuole”.

MISE EN PLACE. Nordine Sajot, SUBSTRATUM Galleria, Roma, finissage giovedi 27 giugno (dalle 18.30)

immagini (tutte) Nordine Sajot, MISE EN PLACE, SUBSTRATUM, installation view, 2024

 

 

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Harold Cohen: AARON

Con una mostra a cura di Christiane Paul, il Whitney Museum of American Art ripercorre l’evoluzione di AARON, il primo programma di intelligenza artificiale sviluppato nei tardi anni ’60 da Harold Cohen per accompagnarlo creativamente nella sua pratica pittorica, adottato a collaboratore per stimolare conoscenza sperimentazione. I lavori sono attentamente selezionati e tracciano in maniera scientifica i momenti chiave di questo dialogo uomo-macchina. L’approccio curatoriale è cronologico e permette di attraversare il passaggio da analogico a digitale, la transizione da astrazione a figurazione, a metà degli anni ’80, e tutto ciò che questi passaggi ha comportato in termini tecnici e concettuali.

Il Whitney Museum è l’unico museo a possedere nella sua collezione versioni del software AARON che tracciano i diversi periodi di sviluppo di questo progetto e permettono quindi di ritracciare le diverse fasi di evoluzione del software e di questo dialogo cresciuto con una certa gradualità.

Harold Cohen ha stabilito con il software un vero e proprio dialogo. Ha iniziato con il fornirgli regole e conoscenze per quello che riguarda i principi base di colore, forma, composizione e dimensione, fondamenti che appartengono alla sua formazione di pittore. Il loro dialogo è cresciuto, con una certa gradualità. Da un primo ragionamento su disegno e colore attraverso delle regole formulate per vie analogiche avviato negli anni ’60 si è arrivati ai primi anni ’70, quando si presenta l’occasione e il giusto contesto per sviluppare il software AARON alla Stanford University’s Artificial Intelligence Lab.

Da questo momento in poi, percorso è proseguito per fasi, ciascuna un tentativo (sempre riuscito, a volte anche troppo) di spingere oltre i limiti dell’intelligenza artificiale. Ad un certo punto, Cohen si rende conto che la macchina è in grado di fare cose che prima non immaginava possibili. Quando impara a colorare i disegni, prima completati a mano dall’artista, arriva ad un momento di crisi. Non è la mancanza di cose da fare, piuttosto l’arenarsi della collaborazione tra uomo e macchina.  “I felt that my dialogue with the program, the very root of our creativity, had been abruptly terminated”, racconta in una conferenza del 2010 all’ Orcas Center.

Ecco perché centrale nella mostra al Whitney è la macchina riportata in vita per fare entrare i visitatori, anche online in streaming sul sito in alcune ore del giorno, nel processo di esecuzione delle opere. Il software “as a central creative force behind the artwork”. Non solo. In mostra anche tutta una serie di ephemera, come quaderni di appunti e disegni personali che fanno parte del momento di progettazione e di riflessione.

Oltre a celebrare un artista riconosciuto come pioniere dell’arte digitale, la mostra entra nel vivo di questo dialogo uomo-macchina, penetra i meccanismi del processo scandendo le tappe, aiuta a riflettere sul nostro rapporto con le moderne tecnologie di intelligenza artificiale con i programmi più recenti come DALL-E, Midjourney e Stable Diffusion.

“Harold Cohen’s AARON has iconic status in digital art history, but the recent rise of AI artmaking tools has made it even more relevant. Cohen’s software provides us with a different perspective on image making with AI,” dice Christiane Paul, Curator of Digital Art at the Whitney. “What makes AARON so remarkable is that Cohen tried to encode the artistic process and sensibility itself, creating an AI with knowledge of the world that tries to represent it in ever-new freehand line drawings and paintings. Watching AARON’s creations drawn live as they were half a century ago will be a unique experience for viewers.”

In questi ultimi anni, in particolare in coincidenza con la crisi pandemica e lo spostamento di interessi economici e culturali online, alcuni termini come arte digitale sono stati particolarmente inflazionati, confusi con strumenti digitali come i certificati NFts, o con progetti di grafica e design. Questo ha significato oscurare buona parte di quelle sperimentazioni che hanno scritto la storia della ricerca in questi ambiti per più di vent’anni.

Queste operazioni che attraverso le mostre facilitano conoscenza e consapevolezza sono particolarmente importanti. In parallelo al Whitney, si è mossa anche la Galleria londinese Gazelli Art House, proponendo, con la mostra “Refractoring (1966-74)”, una selezione molto accurata di lavori di Cohen che hanno tracciato momenti chiave della transizione tra il 1966 e il 1974, momento nodale del suo lavoro ma anche inizio di diffusione delle tecnologie nella società. Tra i lavori, anche Sentinel esposto alla Biennale di Venezia nel 1966, quando è stato invitato a rappresentare il Padiglione Inglese, momento di grande riconoscimento internazionale che non arresta la sua spinta creativa “that arises when the individual starts to question the unquestioned assumptions of his field and to act out of the scenarios that present themselves as a result”.

Alla riflessione pura sul rapporto uomo-macchina le mostre restituiscono parte di questa storia, la rendono comprensibile avvicinando i visitatori al processo nella sua vitalità. Gli incontri, alcuni disponibili online sul sito del Whitney, i documenti prodotti e il catalogo con contributi dei più importanti studiosi che il 9 maggio è stato presentato alla Gazelli Art House, seguiranno la fine delle mostre. Tutto questo ci fa riflettere anche sulla curatela delle mostre, quando tra gli obiettivi c’è anche  quello di garantire che i contenuti siano resi disponibili e accessibili ai visitatori, rispettivamente nella misura di un museo e di una galleria.

Harold Cohen, AARON, a cura di Christiane Paul, Whitney Museum of American Art, fino al 19 maggio 2024

Immagini: (cover 1-2) panoramica d’installazione di Harold Cohen: AARON, Whitney Museum of American Art, New York, 3 febbraio –19 maggio, 2024 (3) Harold Cohen, AARON KCAT, 2001 (4) panoramica d’installazione di Harold Cohen: AARON, Whitney Museum of American Art, New York, 3 febbraio –19 maggio, 2024 (5) Harold Cohen, AARON Gijon, 2001 (6) Panoramica di installazione di Harold Cohen, Refactoring (1966-74), Gazelli Art House, Londra (8 marzo–11 maggio 2024).  Courtesy Gazelli Art House, Londra.

 

 

 

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“Travellers” a Venezia

Gli spazi dell’Università Internazionale di Venezia all’isola di San Servolo ospitano, fino al 18 maggio e in concomitanza con la 60a Biennale di Venezia, “Travellers” mostra presentata dal MoCA di Shanghai con la direzione di Miriam Sun, in dialogo e in collaborazione con la curatrice italiana Giuliana Benassi. Artisti e opere sono portati assieme come risultato di un confronto tra cultura cinese e italiana. Lo spazio che li ospita è tutt’altro che pura cornice. È, piuttosto, il cuore pulsante di un progetto fortemente voluto da Miriam Sun che questo dialogo lo ha coltivato per anni, gradualmente e in continuo ascolto dell’altro. L’ Università Internazionale di Venezia è infatti un consorzio di 20 università di tutto il mondo, voluta trent’anni fa da Carlo Azeglio Ciampi come centro dedicato allo studio interdisciplinare, taglio di ricerca soprattutto all’epoca particolarmente all’avanguardia.

“L’intera mostra vuole restituire quella “rete simbiotica” dell’oggi, tessuta dagli artisti contemporanei che, seppur provenienti da Cina e Italia, sembrano uniti da un unico filo: quello dell’essere umano al cospetto del mondo”. Questo l’intento dichiarato nel comunicato stampa. In effetti, attraversando la mostra e parlando con la curatrice, la sensazione è che ogni lavoro si costituisca in un tutt’uno organico, in simbiosi anche con lo spazio. Nella costruzione di questo dialogo inter-culturale, le curatrici hanno incluso lavori che si confrontassero anche con il linguaggio tecnologico e il suo progresso nelle scienze evoluzionistiche.

I lavori più tecnologici sono intrisi di umanità. Fu Tong si muove nel contrasto tra forme fisiche immutabili e coscienza fluida (Flowing Bodies) e nel più delicato momento di umanità come quello delle sette sculture che proiettate a parete, stampate in 3D e ingrandite 100 volte riproducono le lacrime per come queste appaiono nelle diverse fasi della vita (When I think of You).

La vitalità è anche nella materia del lavoro di Josè Angelino che nelle sue opere luminose in vetro realizzate con gas argon e neon riproduce le dinamiche fisiche ed estetiche dell’aurora boreale. Lo stesso potremmo dire dell’opera Mosquitos: una serie di bicchieri di vetro all’interno dei quali dei magneti si agitano come mosche catturate, in risposta alle frequenze della risonanza di Schumann, pulsazione caratteristica che la Terra possiede di 7,83 hertz.  Vitali sono i lavori che fronteggiano le opere di Angelino, la serie “The Moonlight” di Yang Yongliang, dove le culture e il loro mescolarsi emergono nel profilo di paesaggi urbani che nascono dalla sovrapposizione di città come New York, Shanghai, Hong Kong, Parigi, Londra e Tokyo, visibili attraverso un perimetro circolare che rende il visitatore spettatore di un sogno.

La serie “Codice” di H. H. Lim, con le sue scritture incise su un gruppo di sculture che “sembrano piombate nello spazio espositivo da un viaggio temporale”, codici e numeri indecifrabili sospendono le coordinate del viaggio si pongono in dialogo con L’eccezione, opera video di Rä di Martino, dove una statua sembra in procinto di animarsi sulle note di una rielaborazione del love theme di Flashdance.

Il confronto va oltre a quello delle due culture, diventa confronto e incontro tra uomo e natura, come nella serie pittorica “Dialogue in Time and Space” “Summer Fireworks” di Shi Chengdong dove l’acqua è “superficie specchiante del mondo e membrana tra due dimensioni”. L’uomo è presente incarnato nel lavoro artigianale della tessitura come nelle opere di Matteo Nasini dove scultura e arazzo intendono proseguire nelle città invisibili di Italo Calvino. L’incontro è anche con la materia non organica di cui si compone la scultura di Gabriele Silli. Le dita verso l’alto della scultura Hands di Oliviero Rainaldi puntano verso la trascendenza, quella della vita e in particolare del viaggio come esistenza.

C’è dell’altro. Dicevamo che il progetto nasce da una forte passione di Miriam Sun nel dialogo tra cultura italiana e cinese, ma è radicato anche in un forte interesse per il confronto tra uomo e progresso tecnologico, a partire da quello in grado di ‘riscrivere’ la vita attraverso la manipolazione del DNA.

La mostra ha presentato infatti in anteprima la serie di “DNA”, ideata da Michael Levitt, premio Nobel per la Chimica 2013, progetto che si concentra sul profondo impatto dell’editing genetico e dell’IA sul futuro dell’umanità. Prodotta da Miriam Sun con un team di scienziati cinesi di cui fanno parte i professori Luo Zhen e Yin Tengfei, l’artista audiovisivo Guo Fei e il compositore Jin Wang, prende forma in installazioni luminose, performance dal vivo e sculture.

La performance di Guo Fei e il compositore Jin Wang, dove dati genetici, intelligenza artificiale e musica interagiscono all’unisono, si contaminano in tempo reale per restituire un altro aspetto importante celebrato da questo progetto di ricerca: l’incontro tra scienza e religione, più frequente di quanto non si possa immaginare.

Ed è proprio la piccola chiesa all’interno dell’Università dove ogni sera dei giorni inaugurali del progetto le composizioni di Jin Wang e le visualizzazioni di Guo Fei, si sono incontrate in un dialogo performativo improvvisato con organi a canne e sintetizzatori modulari. Note e immagini e ambiente risuonano in tutti gli spazi e celebrano la simbiosi dele opere in un unico corpo pulsante.

La ricorrenza del 700° anniversario della scomparsa di Marco Polo, e l’accostamento del tema con quello della Biennale di Venezia 2024 in corso, sono cornice di un progetto che affonda le radici nella spinta di un incontro prima di tutto umano. Il progetto è destinato a viaggiare a New York e in altre città dove costruirà occasioni di dialogo e confronto sempre nuove.

Travellers, a cura di Miriam Sun e Giuliana Benassi
Università Internazionale di Venezia, San Servolo, Venezia, 19.04 – 16.05.2024

 

immagini(cover 1) Qiu Anxiong – Tian Zhi Xiu Yue-邱岸雄 .photo credits MoCA, Shanghai (2) Fu Tong, «When I think of you-付彤 », ph: MoCA, Shanghai (3) H.H. Lim, «Percorso circolare-林辉华», ph: MoCA, Shanghai (4) Guo Fei&Jin Wang, «DNA-郭飞&金望»,ph: MoCA, Shanghai (5) Yang Yongliang, «The Moonlight», ph: MoCA, Shanghai (6) Guo Fei&Jin Wang, «DNA-郭飞&金望»,ph: MoCA, Shanghai

 

 

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Il Padiglione Malta alla Biennale di Venezia 2024

Il Padiglione Malta, allestito all’interno del lungo percorso dell’Arsenale veneziano per la Biennale di Venezia Arti Visive 2024 dedica la sua prima personale al giovane artista Matthew Attard. Nel suo lavoro la ‘meraviglia’ del tecnologico è porta che si affaccia sulla ricchezza della tradizione in un gioco stratificato di contaminazione, viaggio attraversa il rapporto tra uomo e macchina, tra tradizione e modernità, tra scienza e religione.

Si tratta di I WILL FOLLOW THE SHIP progetto di Attard che porta assieme le tecnologie più avanzate con la tradizione, quella dei graffiti della cultura marinara delle isole maltesi che hanno scritto la storia di incontri multiculturali, di speranza e di fede. La tradizione del disegno, dell’incisione dei graffiti su pietra, e la religione di cui sono intrisi, sono ‘ri-disegnati’ attraverso la simbiosi tra occhio umano e tecnologico, glorificati con le tecnologie più all’avanguardia in un gesto tanto delicato quanto potente.

Gli ship graffiti, incisioni su pietra raffiguranti barche, sono iconografie vernacolari, racconti di fede e di salvezza attorno al Mediterraneo, tracce impresse dai marinai sulle facciate degli edifici più vari, da sedi amministrative, a fortificazioni, casa private, a cappelle, luoghi, questi ultimi, che hanno non solo significato religioso ma anche di immunità politica.

I graffiti raccontano delle culture che si sono avvicendate sin dalla preistoria in queste isole, al crocevia del Mediterraneo centrale. Questa storia stratificata è ora trasposta in un altro capitolo della Malta moderna dove le culture si incontrano anche ‘nel’ e ‘con’ il mare delle informazioni, luogo dove spesso radici culturali, confronto e contaminazione perdono le loro tracce nell’omogeneizzazione incalzante.

I graffiti sono ‘ridisegnati’ dicevamo. Ed è nel ‘come’ Attard ridisegna questi graffiti, dove il progetto affonda le sue radici. Attard si avvale infatti dell’eye tracking, quel processo di misurazione dei movimenti oculari che determina cosa sta guardando un soggetto. Così Attard ‘ridisegna’ gli ex voto maltesi. Le tecnologie più sofisticate sono accompagnate dall’uomo in un gesto simbiotico, performativo.

Razionalità e irrazionalità sono entrambe ‘inscritte’ nel gesto dell’eyetracking; alcune tracce non intenzionali sembrano ‘calcare’ le stesse che si incontrano nel processo di incisione dei graffiti. La più antica delle tradizioni prosegue nel progresso tecnologico. Scienza, fede, speranza sono strette da un legame inscindibile. Parole come ‘trust’ e ‘hope’, sono sempre ricorrenti in ambiti scientifici e tecnologici. Sono anche temi e titoli delle ultime edizioni del Festival Ars Electronica a Linz, uno dei più importanti festival che dagli anni ’70 indaga le relazioni tra cultura, tecnologia e società.

Con la stessa magia di un’isola che emerge dai mari, nel Padiglione Malta emergono culture, consapevolezze e riflessioni. Il fortissimo senso di appartenenza alle radici locali e alla tradizione che l’artista trasmette nel suo lavoro si irradia con un fare caleidoscopico che tocca tutte le culture a cui i visitatori appartengono entrano. Sono in fondo le stesse che hanno attraversato e abitato le isole maltesi nel tempo. In queste è possibile trovare una parte di noi.

Matthew Attard. WILL FOLLOW THE SHIP, co-curatori: Elyse Tonna, Sara Dolfi Agostinim, Project Managers: Maria Galea e Michela Rizzo, Padiglione Malta, Arsenale, 60th International Art Exhibition of La Biennale di Venezia, 20 April – 24 Novembre

 

immagini: (cover 1) Matthew Attard, «studio Eye-tracking study (I WILL FOLLOW THE SHIP)», 2023, disegno eye-tracking drawing, 3D scan, disegno a penna, 29x42cm Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo (2) Matthew Attard, «Study 1 (I WILL FOLLOW THE SHIP)», 2023. Disegno eye-tracking, 3D scan. Immagine digitale, dimensioni variabili, © Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo (3) Matthew Attard, «Stone wall study (I WILL FOLLOW THE SHIP)», 2023 – Disegno Eye-tracking, Globigerina Limestone, 56x24x3cm © Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo (4) Matthew Attard, «Studio generative (I WILL FOLLOW THE SHIP)», 2023. Disegno eye-tracking,. Algoritmo generativo. Immagine digitale, dimensioni variabili, © Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo (5) Malta Pavillion- Margaret Press Images, Space.jpg (6) Matthew Attard,«Generative study (I WILL FOLLOW THE SHIP)», 2023, disegno Eye-tracking, Algoritmo generativo, immagine digitale, dimensioni variabili © Matthew Attard e Galleria Michela Rizzo

 

Matthew Attard,  Elyse Tonna, Sara Dolfi Agostinim, Maria Galea, Michela Rizzo, Padiglione Malta, Arsenale, Venice Biennale, eye-tracking, drawings, grafiti, ars, arshake

 

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Nobilis Golden Moon

Il 22 marzo negli spazi dell’Auditorium del Museo MAXXI di Roma, in una sala gremita di gente, Acqua Foundation ha presentato per la prima volta a Roma Nobilis Golden Moon, film di Maria Grazia Pontorno, artista che da tempo indaga il confine tra naturale e artificiale, inizialmente attenta alla sperimentazione digitale in 3D, da qualche tempo allargando il suo sguardo verso la ricerca al confine tra arte e scienza.

Nobilis Golden Moon è stato girato a cavallo tra due pandemie, due lune piene e due città: Valencia e Sant’Antioco. Il corto è stato presentato per Maritima01 e promosso dall’Associazione Culturale Art Made di Elena Posokhova con sede a Valencia, sviluppato in collaborazione con istituzioni come la University of Valencia, the French Institute, the EASD, the Nau or Carmen Center of Comteporanry Culture e con la partnership della Acqua Foundation.

La Pinna Nobilis è il più grande mollusco bivalve del Mediterraneo. La Pinna Nobilis, nota anche come “Sentinella del Mediterraneo” supera il metro di altezza, a rischio di scomparsa per una malattia pandemica. Da questo mollusco è ricavato il bisso, una fibra tessile utilizzata anche nell’antichità per tessere tessuti pregiati.

La prima tappa di Maria Grazia Pontorno, a Valencia, è scandita dal primo plenilunio. Qui un gruppo di scienziati cerca soluzioni per combattere l’ estinzione della Pinna Nobilis con il progetto LIFE PINNARCA che porta assieme ricercatori da tutta Europa. Jose Tena e Jose Rafael Garcia March, parte del progetto, raccontano come, attraverso lo studio di alcuni esemplari tenuti in cattività nelle vasche dei loro laboratori, cerchino di riprodurli in un ambiente protetto, oltre ad indagare quali fattori nelle componenti marine siano causa della loro estinzione.

La seconda tappa, del viaggio, in concomitanza con il secondo plenilunio, è a Sant’Antioco in Sardegna dove vive Chiara Vigo, l’ ultima sacerdotessa del bisso, che questo mollusco lo conosce meglio di chiunque altro al mondo. È qui e con lei che si conserva il segreto della sua lavorazione, raccogliendo il testimone dalla nonna. L’estrazione e la lavorazione di questo filo sacro porta assieme abilità artigiane e pratiche esoteriche. Entrare in questa lavorazione significa intraprendere un vero e proprio viaggio tra scienza e magia.

La sacerdotessa chiarisce l’importanza della presenza di questo mollusco, depuratore delle acque da impurità inquinanti chiarendo il suo interesse scientifico. La ghiandola sebacea che attraversa il mantello della Pinna Nobilis, spiega la sacerdotessa a Mariagrazia Pontorno, espelle una bava che a contatto con l’acqua marina si solidifica per diventare seta purissima. «Il bisso è l’anima dell’acqua e l’uomo senza acqua non può sopravvivere», dice Chiara Vigo nei toni di una profezia. Il racconto si dispiega attento a non liberare nessuna traccia del segreto che lega la lavorazione del bisso ad una tradizione orale tramandata in un passaggio che avviene in un rituale elettivo esclusivo. «La trasmissione orale è fatta di anima che si coltiva in una vita intera. È un’anima che cresce con piccole cose grandi gesti, situazioni che gli altri non devono capire, segreto fra nonna e nipote».

Con questo dialogo dove scienza ed esoterismo convergono nella magia della tradizione e del paesaggio sardi, il film arriva al suo ultimo capitolo. Il viaggio non finisce. Prosegue tra tutto ciò che il film portato alla nostra conoscenza: la Pinna Nobilis, l’importanza del suo ruolo nell’ecosistema, la sua trasformazione nella vita inanimata degli oggetti, come i tessuti ricamati con il sacro bisso. Il film è l’incontro tra uomo e natura, tra arti e scienza, il tutto sigillato da un rituale intriso di conoscenza, esperienza e magia.

Mariagrazia Pontorno, Nobilis Golden Moon, (Volume I della Trilogia del Pensiero Magico), 2020
Il film è stato prodotto da Acqua Foundation e Maritima01

immagini (tutte): Mariagrazia Pontorno, Nobilis Golden Moon, 2020, fermo immagine da film, 50′

 

 

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Auriea Harvey a New York

Con la personale “My Veins Are the Wires, My Body Is Your Keyboard/Le mie vene sono i fili, il mio corpo è la tua tastiera” the Museum of the Moving Image a New York celebra il lavoro di Aureia Harvey, pioniera nella sperimentazione del codice per modellare materia, materiali e vita nello spazio della rete.

I lavori in mostra, oltre 40 per un arco temporale che va dal 1987 al 2023, includono lavori interattivi net-based, video games, sculture in realtà aumentata e nella doppia versione analogico -digitale, ciò che da un certo punto in poi ha focalizzato l’interesse e la spinta creativa della Harvey verso la ‘scultura, spingendo al limite i confini della sua stessa area di formazione così come quelli della tecnologia.

“Auriea Harvey ha costantemente re-immaginato e ridefinito i confini creativi delle tecnologie di rete per più di tre decenni. Possiede una notevole sensibilità per il modo in cui la rivoluzione digitale degli anni Novanta ha generato un cambiamento sociale nel modo in cui gli esseri umani si connettono. Il suo percorso – dalla creazione di opere d’arte da visualizzare esclusivamente in un browser web alla sfida dei confini tra esperienze virtuali e tangibili attraverso la stampa 3D e la realtà aumentata – riflette costantemente il potere paradossale dei computer di consentire l’intimità, interferendo al contempo con il contatto corporeo e l’occupazione dello spazio condiviso”.

La sintesi di Regina Harsanyi, Associate Curator of Media Arts del MOCA e curatrice della mostra, chiarisce la lettura del suo lavoro in questo percorso a ritroso, mette a fuoco con lucidità un certo approccio creativo in risposta ad una fortissima e genuina ‘sensibilità’ verso il proprio tempo e verso ciò che più a contribuito al cambiamento epocale che oggi fronteggiamo con difficoltà non avendone colto tutti passaggi.

Come spesso accade, lo sguardo retrospettivo di un gruppo consistente di lavori realizzati nell’arco di una vita genera un racconto del rapporto tra opere e contesto così chiaro da far dimenticare anche a chi lo ha vissuto quanto sperimentare con le tecnologie nei primi anni ’90 corrispondesse ad un’operazione di nicchia e lo sfruttamento delle potenzialità di macchine e software a favore della più varia diversificazione estremamente complesso.

C’è da dire che, per quanto questi ambiti sperimentali abbiano faticato molto ad essere riconosciuti ma anche semplicemente conosciuti, Aureia Harvey ha riscosso da subito un certo successo, anche grazie al parallelo impegno nello sviluppo di siti e video games, contando diverse collaborazioni di successo nel mondo della musica, come con la Virigins Records, MTV e PBS.

Il suo Entropy8 (1995), sito e progetto pionieristico che nel considerare internet un luogo ottimale dove realizzare lavori pensati unicamente per il digitale ha riscosso grande attenzione da parte dei media e ha ricevuto un Webby sia nel 1997 che nel 1998.

Ciò che colpisce in questo sguardo retrospettivo, è come la fusione tra reale e digitale abbia trovato la sua miccia in una altrettanta magica fusione tra sentimento e intelletto su un piano tutto umano. Nei primi anni novanta a mescolare le carte è stato infatti l’incontro con l’attuale marito Michael Samyn conosciuto nel 1999 ad un meeting virtuale organizzato dalla piattaforma hell.com, un sito nato attorno ad un network privato di artisti sperimentatori della prima ora sul net che nel tempo aveva acquisto un’aura di mistero.

Nello spazio di hell.com i due artisti hanno prima condiviso un folder ‘segreto’, canale di scambio poi diventato il primo progetto collaborativo skinonskinonskin, successivamente trasformato nella prima esperienza di net art pay-per-view. Con 10 euro chiunque avesse accesso al browser Netscape 4.0 poteva curiosare nella loro vita privata.

I loro rispettivi siti Entropy8.com e Zuper.com, e quindi le loro attività di web e game designers si sono fusi in Entropy8Zuper.org. Nel 2007 con The Kiss trasformano il loro abbraccio fisico in un software, inizio di una serie di sperimentazioni con la scansione 3D, all’epoca utilizzata per scopi industriali e scientifici. Nel 2007 The Kiss diventa un’esperienza web dove poter entrare all’interno della scansione, disponibile anche come Virtual Reality Modeling Language, un formato all’epoca molto innovativo per la visualizzazione del 3D su internet.

Esplorazioni dei mondi digitali, e delle più sofisticate e significative possibilità di interazione in tempo reale si sono susseguite nel tempo con un approccio e una visione incredibilmente trasversali e trans-disciplinari. Da queste solide basi, quando il duo ha ripreso ciascuno il proprio percorso, la ricerca di Aureia Harvey è proseguita con un interesse sempre più attento alla scultura tra fisico e digitale. I modelli digitali realizzati con l’impiego della fotogrammetria di oggetti e il suo stesso corpo (spesso il suo volto) sono trattati nel mondo digitale in maniera complementare alla scultura tradizionale. L’uso di poligoni, i mattoni di ogni modello 3D, restituisce al manufatto digitale la malleabilità dei materiali tradizionali. In questa dimensione Harvey trova spazio per la sperimentazione con materiali nuovi, impossibili da reperire nel mondo fisico, allo stesso tempo vestiti di una consistenza tangibile che rende inequivocabile la loro oggettiva esistenza.

I soggetti delle sculture sono spesso trasformazioni in soggetti mitologici. Tornano e nell’insieme costruiscono delle narrazioni. È come se emergessero in un processo generativo scaturito quasi di getto dalle interiorità dell’artista mentre lei è impegnata in una ricerca tutta rivolta alla materia, alla texture, come racconta in una conversazione informale. La sensazione è quella di un attraversamento catartico dove la canalizzazione dell’energia fisica è sostituita da quella mentale.

Nelle 11 sculture della serie Gray Matter, nate da scansioni di opere fisiche e da assemblaggi di frammenti e stampe 3D precedentemente scartati, Aureia ‘re-impasta’ scarti di argilla per modellarli in altro.

Con le sculture si può interagire, si possono ruotare, diventano elastiche, cambiano forma restringendosi e ri-espandendosi. Un modo diverso e complementare a quello fisico di assaporare la scultura in tutte le sue angolazioni, di ruotarla piuttosto che ruotarle attorno, un gesto tutto mentale dove il movimento fisico del mouse è di accompagnamento, meccanica esecuzione di un impulso.

Gray Matter era stata presentata nel 2022 sulla piattaforma “Feral Files”, operazione artistica curatoriale e di mercato di Casey Reas, inventore con Benjamin Fry del software open source Processing e della comunità che è cresciuta attorno. Feral Files è un progetto che entra nel mercato in modo del tutto rivoluzionario, creando un canale perché i lavori di media art, contrariamente a quelli che sono stati identificati come tali dal mercato tradizionale durante il picco della bolla Nft, venissero condivisi a prezzi accessibili e nella forma di mostre curate per poi entrare nei canali (e nei prezzi) del mercato tradizionale. In questo caso le sculture all’asta di Harvey sono state accompagnate da una scultura fisica in bronzo e tutte le opere (digitali) corredate da istruzioni per la stampa 3D. Nuovamente un gesto di rovesciamento, porta aperta verso una nuova consapevolezza e nuovi interrogativi.

Questa una riflessione (in remoto) di una mostra che con il suo lavoro ripercorre l’intera storia di net art, media art, ma in fondo anche delle nuove possibili frontiere della scultura tradizionale così come del processo che ha portato a modellare la realtà attuale. Tutto era partito dall’intreccio di quanto più umano (per il momento) la macchina non può eguagliare, quel mescolarsi di intuizione, ascolto del proprio tempo, intelligenza emotiva e razionale. Anche oggi, il lavoro individuale si intreccia con quello delle individualità e comunità che sono cresciute assieme a lei e Michael Sambyn, come quella dei citati Rhizome.org, Feral Files, ma anche quella di una galleria che del mercato digitale è stata una pioniera sperimentatrice di vendita ma anche di diffusione di arte digitale quale è bitforms dove il lavoro di Aureia Harvey sarà presentato dal 4 aprile, 2024 per la sua seconda personale.

Aureia Harvey, My Veins Are the Wires, My Body Is Your Keyboard, curated by Regina Harsanyi, Museum of the Moving Image, New York, 02.02 – 07.07.2024 | Exhibition’s in-kind partners: 4THBIN, Barco, bitforms gallery, and New York University’s ITP / MIA program.
Aureia Harvey, The Unanswered Question, bitforms Gallery, New York, 04.04 – 25.05.2024
Artbase Anthology con Aureia Harvey, Rhizome x MoMI (Rhizome Co-Executive Director Michael Connor, MoMI Associate Curator of Media Art Regina Harsanyi, e Rhizome Director of Digital Preservation Dragan Espenschied). Conversazione sulla net art e sulle problematiche legate alla conservazione con l’artista Auriea Harvey, ospitato da Rhizome in partnership con Museum of the Moving Image. L’evento è in occasione del lancio dell’iniziativa ArtBase Anthologies. La conversazione sarà in presenza presso gli spazi di Onassis ONX e sarà trasmessa online. Registratevi  qui per partecipare online.
immagini: (cover 1) Auriea Harvey, «The Mystery v5-dv2 (Chroma)», 2022, modello 3D (2) Aureia Harvey, ritratto (3-4) Auriea Harvey: My Veins Are the Wires, My Body Is Your Keyboard, panoramica di mostra,2 febbraio – 7 luglio, 2024, Museum of the Moving Image, Astoria, NY (5) Auriea Harvey e Michaël Samyn, «Sunset», 2015, fermo imagine da video game per PC/Mac (6) Auriea Harvey: My Veins Are the Wires, My Body Is Your Keyboard, panoramica di mostra2 febbraio – 7 luglio, 2024, Museum of the Moving Image, Astoria, NY

 

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