L’intervista a Giovanni Gaggia, artista marchigiano multiforme di un’estrema sensibilità tanto ai temi interiori quanto a quelli sociali e politici, è un’intervista peculiare, in cui non c’è spazio per alcuna polemica. Con un artista così chiaramente posizionato nei confronti della realtà, così profondamente impegnato nella costruzione di riflessioni, materiali o immateriali che siano, che trovano senso in qualcosa di molto vicino ai termini di “giustizia” e di “benessere”, non si può perdere l’occasione di capire al meglio il suo agire, così come il suo sentire. Ascoltare Gaggia significa mettere in discussione, spesso, le proprie convinzioni, significa impegnarsi ad aprire se stessi agli altri, vuol dire avere la possibilità di migliorarsi.
Fabio Giagnacovo: Sei un artista estremamente multiforme: nelle tue opere troviamo il disegno, la pittura, la scultura, la fotografia, il video, la performance, ma come possiamo leggere sul tuo statement (in realtà lo si nota facilmente anche solo guardando la serie di lavori che hai prodotto nell’ultimo decennio) prediligi soprattutto il disegno, la performance e il ricamo. C’è un collegamento tra questi 3 media? Qual è il processo che ti porta a scegliere il medium più adatto, nelle tue opere? E infine, siamo sempre portati a pensare, superficialmente, che nel mondo dell’arte il ricamo sia una pratica femminista, nel tuo caso evidentemente non lo è ma spesso si lega similmente, in maniera forte e chiara, ad un senso sociale e politico, cosa significa per te ricamare?
Giovanni Gaggia: Il filo che unisce i 3 linguaggi da te citati, valido per ogni media che decido di usare è il tempo. “Sul filo del tempo” trovo che sia un titolo meraviglioso. Aggiungerei, forse, un sottotitolo: “un viaggio politico”.
Il mio disegno si realizza tramite segni sovrapposti, quasi a ricalcare la tecnica classica della punta secca nell’incisione che fa parte della mia formazione di adolescente. Ora sta lì in un angolo del mio fare: mi attende dal 2011. Il ricamo è per sua natura un processo dilatato nel tempo, la più intima, a volte la più profonda, pratica che consente di avvicinarsi alla meditazione: un mantra. Infine la performance: ha un momento d’azione a volte indefinito e in questo spazio temporale accade qualcosa di unico e irripetibile. La mia intenzione è sempre lasciare allo spettatore un attimo che possa cambiarlo e che si possa portare via. Per questa ragione, negli ultimi anni, ho deciso di posare lo sguardo sulla danza contemporanea. Per me è la più grande forma d’arte, dove la profonda conoscenza del corpo si sposa con un concetto forte per far accadere qualcosa di straordinario.
Ora possiamo passare all’analisi del sottotitolo. Il mio lavoro è sempre profondamente e consapevolmente politico, la pratica ha definito l’uomo che sono e ha tracciato un chiaro ruolo sociale.
La mia ultima personale al Museo Riso di Palermo a cura di Dasirè Maida ha messo il punto sul mio lavoro al fianco dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica e della famiglia di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA scomparso nel 2006. Il titolo Quello che doveva accadere, che portavo con me dal 2015, è mutato in PRATICA POETICA POLITICA. In queste tre parole che iniziano tutte con la medesima lettera, con un rimando chiaro a Pier Paolo Pasolini, si racconta tutto il mio agire di artista e di uomo fino al ricamo, il quale diviene per me un mezzo per raccontare storie, che sia un uomo a farlo è l’ennesimo gesto politico.
Il disegno, le performance cariche di pathos, l’atto personale che diviene metafora e senso di qualcosa che travalica il sé, la tendenza poetica-politica, l’impegno sociale, il ruolo della memoria. Diciamo che se aggiungessimo il miele e il feltro verrebbe facilmente alla mente Joseph Beuys. C’è qualcosa che, in particolare, ti ha colpito e/o ti colpisce dell’artista-sciamano? È corretto, secondo te, pensare che “La rivoluzione siamo noi” o è utopico?
Colpito e affondato.
Oramai è nella mia quotidianità, fa parte in maniera importante della mia formazione, lo sguardo si è rivolto spesso a lui aspirando al suo oro, tentando di raggiungere una qualche consapevolezza spirituale.
Ripeto anche in questa occasione: la mia performance più grande è Casa Sponge. Il mio metaprogetto che vive di una esistenza propria e che grazie ai tanti passaggi, di artisti e non, si è caricato di una energia sua. Tra questi c’è ne è uno che ha reso visibile il concetto politico insito nel gesto di aprire le porte di casa: è Mario Consiglio il quale ha riaperto le finestre cieche del casale con due grandi specchi, in quello superiore dove si riflettono le nuvole c’è scritto YOU ARE A LEGEND. In basso ci siamo NOI. L’installazione è un omaggio a Joseph Beuys, rompe la barriera tra interno ed esterno e cerca l’equilibrio tra uomo, arte e natura. In questo modo si rende definitivamente palese la filosofia progettuale, ispirata al maestro-sciamano.
E’ utopico ma è corretto pensarlo. Quotidianamente penso a questa frase, è una sorta di faro guida che delinea il mio modo di comportarmi, fin dalle più piccole cose, al di là dell’opera d’arte.
Hai lavorato per anni alla serie di opere Quello che doveva accadere, dedicate alla strage di Ustica, progetto che riflette sul legame tra arte e memoria e sull’importanza della memoria come impegno civico. Indubbiamente, però, un progetto su un fatto in qualche modo irrisolto, ancora fumoso e per niente chiaro, pone anche l’attenzione su quel fatto, lo porta allo scoperto con tutte le sue contraddizioni. In altre parole è l’altra faccia della medaglia del reportage. Cosa può l’arte davanti a questo muro di gomma, come lo definiva Andrea Purgatori? E come nasce un progetto così pesante emotivamente, che riflette in qualche modo la morte di 81 persone, il dolore di 81 famiglie, il silenzio assordante che dura da più di 40 anni, il fatto che non si sia mai fatta giustizia?
82 famiglie, si aggiunge quella di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA che a tutti gli effetti viene considerato l’ottantaduesima vittima. Cito tre passaggi giudiziari dove emerge in maniera chiara la verità. E’ del 1999 l’ordinanza del giudice istruttore Rosario Priore quale scrive che il DC-9 è stato abbattuto: «è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto». Nel 2012 invece, la corte d’appello di Roma condanna, per omessa attività di controllo e sorveglianza, i Ministeri della difesa e dei trasporti. Secondo i giudici civili lo Stato è responsabile di «omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica». Infine il 2020, quando un’ennesima sentenza conferma le conclusioni di Priore: l’aereo è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra e condanna in via definitiva i due dicasteri al risarcimento di ITAVIA per 330 milioni di euro.
L’arte è l’elemento scelto dall’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, per fare sì che le luci su questa storia non si spengano mai. Si affianca alla giustizia, pungola la politica, sensibilizza il civile, la storia si mantiene viva. E’ la medesima azione compiuta dalle 81 luci sospese sopra la carcassa dell’aereo nella straordinaria installazione di Christian Boltanski per il Museo per la memoria di Ustica a Bologna. La vidi nel 2010 e quell’accadimento mi entrò dentro, iniziai a disegnare, lo feci per mesi. Riprodussi a matita alcuni oggetti che emersero dal mare di Ustica, la linea si muoveva intorno a tracce ematiche. Nacquero prima 7 tavole, le mostrai a Daria Bonfietti, Presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica. Tra le sue prime parole “Quello che doveva accadere”, questa frase mi spinse a continuare a raccontare questa tragica vicenda ed iniziare a studiare l’importanza dell’arte nella memoria. Talk, tre personali sul tema, due opere musealizzate, una pubblicazione edita da NFC edizioni, un libro d’artista pensato per una larga diffusione con circa 60 contributi, un’inchiesta nata sulle pagine di Artribune quarant’anni dopo l’accadimento. “[…] Analizziamo i termini Tempo e Giustizia in relazione a questa tragica vicenda, inoltre, se lo è stato, che valore ha l’aver affidato la memoria all’arte?”. Quel silenzio che descrivi ha generato voci forti e alcune costanti, come la mia.
Nel 2008 fondi Casa Sponge, nei pressi di Pergola, “prima di tutto artist-run space e residenza d’artista” si legge sul sito, ma anche molto altro: è laboratorio, è casa, tua e di chi ci vive per qualche giorno, prendendo qualcosa da essa e lasciando qualcos’altro, in termini sia materiali che immateriali, è cascina ottocentesca nella natura marchigiana pervasa dall’arte, è spazio meditativo ed interiore ma anche luogo comunitario scevro da sovrastrutture, è spazio artistico e culturale ai margini del circuito artistico e culturale eppure così vivo e rilevante, è una scelta coraggiosa. Cosa significa Casa Sponge per te, in termini interiori, da artista che l’hai fondata? E come, questo spazio fisico e sensoriale, si relazione al sempre più imperante spazio digitale della società contemporanea, (che certamente tu non neghi)? In qualche modo queste due realtà simultanee vanno in contrasto o in esse c’è una comunione d’intenti?
La mia vita si caratterizza per scelte nette. Facile è ricostruirla attraverso scelte folli, non convenzionali, sempre con una visione, inizialmente più sfumata, ora definita nei minimi dettagli.
Casa Sponge non è altro che il luogo dove i miei bisnonni si sono riscattati da mezzadri a contadini possidenti. E’ una terra che mi ha visto crescere, è un fazzoletto della collina di Mezzanotte. Il minuscolo borgo dà il nome alla zona, due castagne dalle fronde grandissime non fanno filtrare la luce. La mia casa sta nella parte più alta del poggio, qui la luce passa, e come se passa. E’ un luogo che non mi ha mai lasciato andare, pur tentando di scappare. Qui c’era qualcosa da trasformare e qualcosa da risolvere. Non era possibile farlo da solo, così la porta si è aperta in un gesto nel contempo dalla duplice lettura, una richiesta di aiuto e politica. Da solo non ce la potevo fare e accogliere si fa filosofia. Ad oggi ritengo che sia la mia opera d’arte più riuscita, segue il filo della mia esistenza. Ora ci attende, per me e la casa, un’altra tappa. La vedo in lontananza, ma non posso ancora rivelare ciò che ci attende.
Se non ci fosse il digitale Casa Sponge sarebbe un eremo, le “nuove” tecnologie sono fondamentali, mi concedono il lusso di lavorare da qui, mi permettono di mettere in atto la “restanza”. I social ad esempio sono stati fondamentali per far conoscere maggiormente Casa Sponge. Ricordo l’intervento di un influencer che decise di aiutarci a promuovere il progetto durante il lockdown, il ritorno è stato importante. C’è una comunione di intenti, il digitale è stato un facilitatore, mi ha aiutato a seguire la mia vocazione permettendomi di poterlo fare da un luogo decisamente decentrato. Il contrasto appare evidente, bisogna fare attenzione a non guardare le stelle ascoltando i messaggi vocali di WhatsApp.
Ti dedichi di frequente a laboratori didattici, spesso con bambini e ragazzi in un ambito scolastico. Non è frequente trovare un artista che dedica così tanto tempo alla formazione dei più giovani. In che modo credi che l’arte contemporanea possa arricchire queste giovani menti? E, più in generale, perché lo fai? Credi “semplicemente” che sia giusto farlo o c’è una pulsione più profonda nel veicolare certi temi poetico-sociali?
E’ un po’ come nella casa, si tratta di trasformare la vita in una performance che non termina mai. In questo tempo ci stanno gli altri, mi piace lavorare con tutte le fasce d’età dall’infanzia alla terza. Per me è doveroso farlo, altrimenti mi sembra di mentire, ho la necessità fisica di sapere che posso fare qualche cosa, se è assodato che l’arte non può cambiare il mondo, ma le singole persone si. Daria Bonfietti mi descrive come il cittadino artista.
Immagini (cover – 1) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica», Museo Riso Palermo, ph Michele Alberto Sereni (3) Realizzazione dell’opera di Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica» con la IV H del Liceo Classico Vittorio Emanuele, ph Michele Alberto Sereni (4) Giovanni Gaggia, «Quello che Doveva Accadere. Pratica Poetica Politica», panoramica di installazione, in primo piano l’opera «Sanguinis Suavitas», Palermo Museo Riso, ph Michele Alberto Sereni (5) Giovanni Gaggia, «Il tempo se ne va», 2021, fermo immagine da video, MUSMA, Matera (6) Giovanni Gaggia, «Eva Hide, My dad loves me», 2017, maiolica dipinta e mutandina per bambini, dimensioni ambientali (7) Casa Sponge foto Antonio Oleari (8) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra
Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
L'articolo Intervista | Giovanni Gaggia proviene da Arshake.