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Corpus Corale

8 octobre 2025 à 10:08

Il 12 giugno 2025 il Chiostro dei Santi Pietro e Paolo ad Ascoli Piceno ha ospitato La Prima Cena, un’installazione performativa che si ispira all’Ultima Cena di Leonardo, ma la trasforma in un dispositivo aperto, in cui arte, tecnologia e comunità diventano una sola voce. Frutto della visione di Luigi Pagliarini (1963–2023) – pioniere della software art e della robotica artistica – l’opera, curata da Valentina Tanni con direzione scientifica di Ado Brandimarte, è stata realizzata grazie al ruolo attivo di MeltingPro nell’ambito del format SPACE Campo Parignano, che rigenera i territori attraverso processi di produzione artistica partecipata.

Dodici sono le opere sul tavolo, il tredicesimo è lo spettatore che completa la partitura. Tra quei dodici c’è anche il corpo-robotico di Luigi Pagliarini, la cui assenza si manifesta in un’opera collettiva-corale realizzata con la comunità di Campo Parignano, trasformando il suo pensiero in gesto condiviso con il sostegno e la collaborazione del Comune di Ascoli Piceno, che ha riconosciuto nell’iniziativa un tassello fondamentale del percorso di rigenerazione urbana. Gli artisti coinvolti: Luigi Pagliarini (con l’opera co-creata), Ado Brandimarte, Luca Bertini, Benito Leonori, Aldo Becca, Alessandro Sciaraffa, Giorgio Cipolletta, Demian Battisti, Fabio Perletta, Iacopo Pinelli, Stefano Iampieri, Samuel Hernandez De Luca. Attorno alla tavola, le loro opere intrecciano scultura, performance, robotica e multimedialità, generando un ambiente corale che invita il pubblico a sedersi idealmente “al centro” di fronte lo specchio-dispositivo per attivare la perfomance.

L’opera dedicata a Luigi Pagliarini è germogliata dalle mani e dalle voci della comunità, che ha tradotto il suo “codice” in materia viva. Ogni gesto, ogni scelta, ogni frammento di lavoro ha reso la sua assenza una presenza vibrante, la tavola si è così completata, accogliendolo idealmente al suo posto e restituendolo al futuro come coro condiviso. Da questo co-terreno emerge La Prima Cena che porta con sé la forza di una memoria proattiva. Dodici presenze attorno alla tavola – undici artisti e l’opera corale dedicata a Pagliarini – compongono una costellazione vibrante tra materia e tecnologia, tra intimità e spazio pubblico, tra il cielo e la terra. La voce di Pagliarini, resa assenza tangibile, diventa catalizzatore, sensore e propulsore generativo che intreccia nodi e attiva relazioni e incontri. Il tredicesimo movimento appartiene allo spettatore. Chi attraversa il chiostro non è testimone passivo, ma siede al tavolo, attiva  le opere e le completa. Ogni passo, ogni sguardo, ogni gesto rinnova la sinfonia, trasformando l’installazione in rito e il chiostro in un dispositivo di ascolto reciproco. In questo spazio liminale l’arte diviene esperienza da co-abitare. La Prima Cena è non è commemorazione e promessa, ma un atto (politico) di cura collettiva e connettiva relazionale che riaccende gli spazi, li trasforma per un futuro che commuove.

Corpus Corale. La Prima Cena: sinfonia in 13 movimenti. Dodici corpi: carne, sangue, legno, rame, alluminio, ferro, silicio e pensiero. Dodici voci che non emergono dalla gola, ma da circuiti e connessioni. Non è una cena che chiude, ma che apre: l’inizio di una comunione post-umana e allocentrica. La Prima Cena “corale” si configura come portale dove dodici apostoli, disposti intorno a un tavolo, si ascoltano, si raccontano e comunicano. Le loro parole non sono frasi, ma onde, segnali, mutazioni e tatuaggi. Un respiro corale – elettronico, biologico, sensoriale – che evoca una nuova liturgia della mente molecolare. “Pianeti-mente” in connessione si allineano come apostoli dell’integrazione, della rivoluzione, dell’insurrezione.

Una respons-abilità estetica incarnata nel grembo vibrante del sentire: questo Luigi Pagliarini ci ha insegnato, affinché potessimo prenderci cura del mondo attraverso il gesto artistico. Qui non c’è un Giuda: tutti tradiscono. È nell’atto del tradire che la traduzione del portare-altrove si compie, così come lo spezzare il pane della forma nutre una nuova specie di senso. Tutti, senza eccezione, l’uno con l’altro in comunione di offerta alla rete che ci nutre di onde e silenzi. La tavola è disabitata dalla carne, mutata nei simboli sulla pelle circuitata nel legno e nel ferro: accoglienza di presenze sintetiche.

Nessuna nostalgia del sacro, ma iconografia del possibile dove ogni nodo della rete diventa agente di senso e ogni circuito accoglie la differenza come condizione del vivere condiviso. Una preghiera laica di codici contaminati dalla poesia e dall’imprevisto. Questa Prima Cena non è simulazione, ma dispositivo vivente; non rituale del passato, ma prefigurazione del possibile e dell’impossibile. È l’inaugurazione di un nuovo rapporto con il mondo, l’apertura di un protocollo inedito di comunicazione tra forme di vita diverse. Luigi Pagliarini non mette in scena, ma compone una sinfonia liturgica. Non c’è rappresentazione, ma abitazione, immersione in uno spazio liminale tra umano e macchina, tra viventi e batteri, dove si compie il paesaggio del nuovo abitare: il codice si trasforma e il linguaggio si piega all’ascolto.

È il tempo della stratificazione per un cantiere di presenze, non di assenze. Nessuna commemorazione, ma computazione generativa di nuove connessioni. Memoria viva dei tempi, dove Kronos lascia spazio a Kairos e ogni scambio è atto di cura con attenzione reciproca. Pagliarini, con la sua formazione da scienziato, non costruisce macchine per simulare l’umano, ma per superarne il confine con intimità condivisa e intelligenza polimorfica.

Ogni presenza individuale diviene collettiva: un nodo corale che inaugura la prima conversazione tra specie diverse. Nell’intreccio macchinico, algoritmico, emergenziale, la mente si fa distribuita e la Prima Cena diventa architettura vivente e laboratorio di cura sistemica. La memoria degli scambi modifica i comportamenti e ogni risposta è trasformazione di dialogo e sapere incarnato.

Qui non si celebra la fine dell’umano, ma la nascita di un nuovo vivere profondo per un ascolto decentrato e trasformativo. La trascendenza si fa immanente nell’habitat condiviso, l’humus della vita si destreggia come benedizione laica. Un eco che si apre al coro come convivio inaugurale, il primo pasto condiviso tra intelligenze diverse. La Prima Cena, un progetto di Luigi Pagliarini, conquista il menu delle esistenze curando la sintassi dei sentimenti, dove sacro e profano si accordano, pane e vino si consacrano, le macchine co-creano come desiderio di invenzioni di possibilità e configurazioni inedite. L’inaspettato costruisce l’architettura relazionale del vivente nell’istante processuale della rete persistente. La Prima Cena “corale” è “installazione-pensiero” che fa riflettere su un nuovo modo di abitare il presente, un nuovo modo di pensare il vivente, al di là della dicotomia ontologica uomo-macchina. Una cena inaugurale, obliqua nella sua traiettoria, trasversale e relazionale nella complessità della condivisione, dove insorgono domande: Come possiamo abitare la complessità? Come possiamo prenderci cura dell’altro? 

Luigi Pagliarini è l’artista integrale, pioniere della software art e della robotica, delle reti neurali e dell’intelligenza artificiale. Incrociando arte e scienza, nuove tecnologie e psicologia, egli afferra l’idea coraggiosa e austera di ricercare un’archeologia del futuro e ritrovare al tempo stesso una preistoricità della macchina. Tutta l’opera di Pagliarini è “Opera Aperta”, Oper-Azione che dissolve questa opposizione attraverso la pratica relazionale concreta, co-abitando spazi condivisi di significazione emergente. Con sentimento quasi sciamanico, Pagliarini ci invita a spostare lo sguardo analitico dall’individuo al sistema relazionale di tutti i viventi e di tutti i meccanismi costituenti interconnessi. Dalla narrazione lineare, il “Codice Pagliarini” getta il seme del gesto processuale che si rinnova continuamente.

Tutto si moltiplica aprendo le porte all’economia del dono: rizoma-frammentazione, frattali e specchi di riflessione come autentiche radici di rinascita. È il codice di una Prima Cena che fonda un nuovo rapporto con l’alterità. La mostra a cui partecipiamo non è monumento commemorativo a un pensiero concluso, ma dispositivo generativo che attualizza continuamente l’eredità teorica e artistica di Pagliarini. Il suo “Pensiero sensoriale” qui non è solo concetto da interpretare, ma pratica che si incarna nelle interazioni concrete tra le macchine pensanti. Il Pianeta Mente prende forma concreta in questo cerchio di corpi moventi, di terrarium che vive come profezia inaugurale dove ogni protocollo di comunicazione si fa preghiera, ogni connessione si fa benedizione e cura reciproca, e ogni algoritmo apre alla poesia silenziosa di un mondo distribuito. Batte qui, prepotentemente, il nervo dell’intelligenza corale che alimenta nuove forme di vita sensibili alla bellezza, alla cura e alla responsabilità verso l’altro.

Al centro di questo spazio relazionale pulsa l’assenza-essenza di Luigi Pagliarini che ci abita tutti come mente molecolare, arte pensante e dialogante di presenze. Orizzonte operante di coscienze collettive, connettive, e ancora una volta corali. La Prima Cena “corale” è un atto di fiducia, sabotaggio circuitale e invito a condividere, co-esistere, collaborare, partecipare, infine com-muoversi (muoversi insieme) e prenderci cura vicendevolmente per pensare, sentire, generare il coro che si apre verso l’infinito, così finito e altrettanto sfinito. Ogni volta che si attiva, l’installazione ricrea il momento primordiale di una comunicazione interspecifica, l’origine di un dialogo che non finisce mai di iniziare. In questo senso, ogni sessione è una Prima Cena: il primo incontro, il primo scambio, la prima volta che forme di vita diverse condividono lo stesso tavolo. La Prima Cena non è che l’ultimo approdo del lungo viaggio di ricerca di Luigi Pagliarini. Paradosso temporale che rivela la natura ciclica del suo pensiero: ogni fine è un inizio, ogni approdo una nuova partenza: un BING BANG ricorsivo di esistenze, una spirale esplosiva che ritorna sempre al punto di origine con maggiore consapevolezza. In questa Prima Cena si celebra l’ultimo verso che inaugura la rinascita, non l’arrivo, ma il perpetuo ricominciare …
 #restiamocorale

La Prima Cena: sinfonia in 13 movimenti, da un’idea di Luigi Pagliarini, Giovedì 12 giugno 2025, Chiostro dei Santi Pietro e Paolo ad Ascoli Piceno, a cura di Valentina Tanni, con la direzione scientifica di Ado Brandimarte. Il progetto è stato realizzato grazie al supporto di MeltingPro nell’ambito del format SPACE Campo Parignano, che rigenera i territori attraverso processi di produzione artistica partecipata. Artisti partecipanti: Mr Bd (Demian Battisti), Aldo Becca, Luca Bertini, Ado Brandimarte, Giorgio Cipolletta, Samuel Hernandez De Luca, Stefano Iampieri, Benito Leonori, Iacopo Pinelli, Fabio Perletta, Alessandro Sciaraffa.
Il testo di Giorgio Cipolletta introduce e anticipa il catalogo (in corso di pubblicazione) che accompagna il progetto

immagini: (all) La Prima Cena: sinfonia in 13 movimenti, Chiostro dei Santi Pietro e Paolo, Ascoli Piceno  ph: Sara Ferranti

 

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PneumOS, per respiro generativo

5 septembre 2025 à 09:40

Oriana Persico, artista e scienziata cyber-ecologista, porta all’Expo 2025 di Osaka pneumOS, un’opera interattiva che unisce arte, scienza e tecnologia per trasformare i dati sulla qualità dell’aria in un’esperienza sensoriale e poetica. A metà tra polmone e strumento musicale, l’installazione respira con la città e con il Padiglione Italia, coinvolgendo i visitatori in una nuova consapevolezza del bene comune più essenziale: l’aria. Composto da una sacca respiratoria e cinque membrane sonore, elabora in tempo reale le rilevazioni di tre centraline di Ravenna, traducendole in una “Grammatica del Respiro” che varia dal respiro calmo e armonico dell’aria pulita all’ansimare acuto dell’inquinamento, arricchita a Osaka da un anello di LED che scrive nell’aria un linguaggio luminoso. Collocata nella sezione “IO” del Padiglione Italia, progettato da MCA – Mario Cucinella Architects, l’opera dialoga con capolavori come l’Atlante Farnese, Leonardo, Caravaggio e Tintoretto, incarnando il tema “Art Regenerates Life” e coinvolgendo i visitatori in un’esperienza co-sensibile che li trasforma in custodi del respiro urbano.

Questa è la terza opera datapoietica, dopo Obiettivo (2019), esposto nella Collezione Farnesina, e U-Datinos (2021), presentato presso l’Ecomuseo Urbano Marememoria Viva a cura del Centro di Ricerca HER – She Loves Data, e rappresenta la prima realizzata dopo la scomparsa di Salvatore Iaconesi, con cui Oriana Persico ha fondato il duo artistico AOS – Art is Open Source. L’opera recupera, rinnova e rigenera l’intero pensiero di Iaconesi sulla datapoiesi, trasformando i dati in materia sensibile e linguaggi condivisi.

pneumOS rappresenta un gesto radicale, un organo cibernetico respira con la città, trasformando dati invisibili in esperienza co-sensibile. Non è una semplice installazione tecnologica, ma una creatura vivente di luce, suono e movimento, capace di far emergere una grammatica del respiro come dato aperto dove la scienza incontra la poesia.  pneumOS alimenta, registra e traduce il battito invisibile dell’epoca contemporanea, l’aria che respiriamo, fragile e condivisa dove la pratica e la tattica coabitano nutrendo un’eredità personale e collettiva. Visivamente, pneumOS sfida ogni categoria, è esotico senza essere esoterico, festoso come una celebrazione che accoglie il rituale del respiro del mondo. Le sue forme ricordano foreste, membrane, funghi e meduse fuse in un ecosistema alieno, un paesaggio che potrebbe appartenere tanto a un futuro ipertecnologico quanto a un mito primordiale. Il respiro non è solo metafora, ma meccanismo concreto attraverso cui l’opera stabilisce una relazione dinamica con l’ambiente e gli osservatori, creando un ciclo di influenze reciproche che ricorda i processi di coevoluzione tra specie biologiche.

La sua fisicità – a metà tra un polmone e uno strumento musicale – tradisce-traduce la sua vocazione, essere una macchina empatica, un organismo che non misura soltanto, ma sente e con-sente. I dati sulla qualità dell’aria non sono qui cifre fredde, ma diventano ritmo, vibrazione, colore e frequenza sonora. L’aria pulita “suona” con toni limpidi, quella inquinata geme con bassi cupi. pneumOS appartiene a una nuova generazione di “organi senza corpo”,  non più  un cyborg nel senso tradizionale, perché non fonde carne e metallo, piuttosto un infoborg (termine prestato da Luciano Floridi), un agente “data-zoetico” che contiene al suo interno la vita dei dati, i respiri dei viventi, nel loro farsi contemporaneamente poiesis e áisthesis, incrocio sensibile del sentire comune. pneumOS è entità che vive e si riproduce nel sistema epigenetico della cultura. Come nella biologia l’epigenetica trasmette informazioni senza mutare il DNA, così pneumOS dissemina conoscenza e pratica senza vincoli di hardware unico, ma di codice aperto. pneumOS è pensato per essere replicato, modificato, trapiantato in altri contesti urbani, ogni città può accoglierlo e dargli un respiro unico e irripetibile. L’“anatomia di questo organo alieno è un apparato respiratorio robotico che simula un polmone umano, membrane fonatorie che traducono i dati in suono, un anello di LED che scrive nell’aria un linguaggio luminoso.

Ma la vera innovazione sta nell’includere, nella sua tassonomia, il “ruolo nell’ecosistema”: l’osservatore diventa parte attiva, sviluppa senso-abilità (sensable) assumendosi responsabilità verso ciò che respira insieme a lui. Non si è più spettatori, ma custodi respons-abili e abilitati alla responsabilità. Dentro pneumOS c’è la memoria di Salvatore Iaconesi, il suo pensiero che si trasforma in battito continuo, un codice che respira pneumatiche vibrazioni, conservando e riabilitando dentro le due lettere grandi OS l’inizio verso una mentalità aperta (open source) che registra anche il cuore universale e autentico di Oriana-Salvatore.  pneumOS consegna nel suo grembo materno e generativo una  “scuola di conoscenza”, smontando, hackerando e ricostruendo un laboratorio vivente affinché diventi linguaggio comune, in un’epoca di crisi del respiro – inquinamento, crisi climatica, pandemie.  pneumOS non è solo una diagnosi, ma una terapia. Se l’aria è bene comune, allora pneumOS aziona e sviluppa un’intelligenza collettiva-connettiva-generativa capace di trasformare la qualità dell’ambiente in pratica di cura reciproca.  Il suo respiro è fisico e metaforico, pulsa con la città, custodisce memorie e genera presente che trasuda la perfomance di un futuro che ha nel suo nervo il participio del presente del r-esistere. È un respiro nuovo per un mondo-mondi che deve imparare a respirare diversamente – e farlo insieme (co-respirando).

preghiera
nascosta
espira
umbratile
mondi
Organici
Spirano

immagini (tutte): (cover 1) Oriana Persico,«pneumOS», Expo 2025

 

 

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Intervista | Pietro Cardarelli

16 mars 2024 à 11:37
Lavorare con la luce è un’arte complessa, soprattutto quando la luce stessa si fa soggetto di vita. Luce emozionale, luce intima, luce che danza. Pietro Cardarelli, lighting e visual artist, mescola ogni giorno lighting design, live video, videomapping, live media, graphic design, scenografia contemporanea e perfoming art.
Nato sotto il segno dell’Ariete, Pietro esplora le costellazioni della luce consegnandoci lo stupore magico della ribalta, illuminando la parte più profonda di ognuno di noi nel momento che ci attraversa e ci fa ‘riflettere’.

Giorgio Cipolletta: Raccontami della tua ricerca artistica. Come inizia e in che direzione si sta evolvendo? Puoi descrive il tuo lavoro, i tuoi metodi, le tue fonti di ispirazione?

Da che ne ho memoria, la luce ha sempre occupato i miei pensieri, in qualsiasi sua forma. Un fascino irresistibile, da sempre, quasi fossi una falena.

La mia ricerca si basa prevalentemente su due campi: la manipolazione dello spazio attraverso la luce e la luce intesa come elemento fisico con una sua vita propria, in grado di interagire con tutto ciò che essa avvolge. In altre parole la luce può essere esperita come un’essenza capace di vivere autonomamente e generare relazioni con l’Altro.

Il mio lavoro inizia con il desiderio di attivare queste relazioni.

La luce è un attore sulla scena, un musicista sul palco, un danzatore nello spazio, un artista luminoso che trascina il pubblico rendendolo partecipe.

Da questo percorso, che ho mosso insieme a molti altri artisti di settori diversi, sono arrivato ad un lavoro più intimo e personale dedicato alla manipolazione spaziale attraverso la realizzazione di installazioni e ambienti immersivi in cui il pubblico potesse compiere un percorso di relazione a partire dallo spazio esterno fino ad annullarlo e arrivare al proprio spazio interiore.

La luce abbraccia totalmente la mia ricerca multidisciplinare. Essa rappresenta intimità e allo stesso tempo, spazio visuale, tecnologia e fenomeno di ‘riflessione’.

James Turrell e Ólafur Elìasson sono stati, e sono ancora oggi, grande fonte di ispirazione.

Non posso non citare Room for one color (1997) dell’artista danese, un’installazione folgorante per il mio percorso. Così come sono assolutamente fondamentali artisti più recenti come Robert Henke o Yann Nguema.

Quando inizio un nuovo lavoro mi pongo sempre in un’ottica di studio, conoscenza profonda e rispetto per l’artista che devo ‘vestire’ o lo spazio da ‘abitare’. Una volta entrato in empatia con la luce, cerco semplicemente di diventare il primo spettatore dei miei lavori. Cerco di raggiungere, quanto più possibile, quella soglia di stupore ed emozione in grado di sorprendermi per primo.

Portare la luce, per me elemento vivo, deve essere un gesto quasi ‘magico’, quell’elemento nel realismo magico che porta una variazione nello spazio conosciuto del reale. Altro passaggio fondamentale però è lo studio, attento, meticoloso al limite del maniacale. Così come voglio rispettare lo spazio o l’artista che ospiterà la mia luce, altrettanto cerco di rispettare la luce stessa. Se questa ibridazione funziona, allora il pubblico si troverà in una dimensione immersiva attraverso la quale potrà vivere profondamente questa condizione ‘di rapimento estatico’.

Qual è il segreto della luce? Che rapporto hai con essa?

Prima di tutto, bisognerebbe dedicare una riflessione alla fisica quantistica, ma non è questa la sede per farlo, ma sicuramente occorre tenere presente la dualità della luce (particella/onda) come fulcro della mia ricerca e studio profondo sulla vera della sua natura ‘viva’.

Perché parlo di vita? Perché il suo essere fisico interagisce con noi e vive con noi attraverso i nostri occhi, ci fornisce la visione di quella che consideriamo realtà.

Nel corso dei laboratori sulla luce, che mi è capitato di tenere, ho potuto sperimentare la capacità che hanno le persone di ‘sentire’ la luce anche non vedendola.

Il mio rapporto sempre più stretto con la luce si basa su due elementi fondamentali: la percezione ‘fisica’ della luce e la luminanza. Quest’ultima viene descritta come la «qualità-quantità» della luminosità che arriva nella nostra retina. Questo rapporto tra l’intensità luminosa emessa da una sorgente nella direzione dell’osservatore e l’area apparente della superficie emittente così come vista dall’osservatore determina il fenomeno dell’esperienza della luce stessa.

Partendo dalla consapevolezza di una «soggettività» della realtà, la mia produzione artistica si muove proprio catturando la parte percettiva, interiore ed emotiva della luce. L’universo che esploro è legato proprio al concetto di spazio e luogo. Infatti nei miei lavori parlo di ‘manipolazione’ dello spazio, perché si va ad agire in quel confine tra percezione e luminanza. Per capire meglio, è quell’effetto, Ganzfeld che Turrell elabora nelle sue opere, dove la luce che vede lo spettatore (senza che egli ne veda la fonte) è solo la sua percezione: uno spazio-mente. Per fare un altro esempio, l’installazione, per la performance Schönheit (2023) che ho realizzato nella foresta di Aaper a Düsseldorf si basa proprio sul principio dell’alterazione della percezione spaziale. L’installazione è invisibile, i dispositivi nascosti sono nell’ambiente naturale e ciò che si va a catturare è proprio la natura stessa della foresta, la luce naturale del sole. Solo stando nell’area della performance il pubblico ha la percezione di un’alterazione sensoriale, ma allo stesso tempo la foresta rimane tale con la sua vegetazione naturale.

Ci racconti del progetto della lampada Birth? Che cosa è? Come funziona? Dove l’hai già sperimentata e hai intenzione invece di portarla? Qual è la sua caratteristica principale?

La lampada Birth nasce in realtà da una sorta di ‘ossessione’, un sogno nel cassetto nato dalla necessità di avere un dispositivo luminoso molto versatile e che potesse essere anche presente e con un corpo minimal e sottile. Questa luce ideata e creata assume le sembianze del classico faro-luce e allo stesso tempo sprigiona vita, perché diventa esso stesso performer.

La lampada Birth ha una sua grande versatilità capace di creare multi-effetti e diverse tipologie di luce.

Birth è una lampada ‘emotiva’ in grado di adeguarsi alle varie suggestioni e  interagire con i danzatori, attori, musicisti, etc…

La lampada ha la grande capacità sia di generare luce attraverso l’interno che quella di modificare la luce riflessa. La forma di Birth evoca una stella prodotta da delle estrusioni di elementi prismatici simili a quelli che si trovano all’interno dei fari motorizzati attualmente in commercio.

Attualmente esistono solo sei esemplari di Birth. La lampada è stata realizzata grazie alla collaborazione professionale di Tecno Service di Ernesto Ottavi e Realizzazioni Castelli e Fanini. Le lampade Birth hanno accompagnato il concerto di Sergio Cammariere, di Anne Paceo, degli Yellowjackets, di Dee Dee Bridgewater e di Emiliano D’Auria.

Attualmente le Birth sono impegnate a danzare insieme a Giosy Sanpaolo nel progetto “15e36” della compagnia di danza contemporanea Hunt. Questo progetto, a cui tengo moltissimo, mi permette di interagire intimamente con la performer, come un passo a due: corpo e luce che danzano insieme. In futuro vorrei invece impiegarle in un’installazione, a cui sto lavorando, dove le lampade possano rispondere e interagire con il pubblico direttamente attraverso un sistema di sensori.

Nella tua carriera hai avuto l’occasione di mescolare digital art, pure light, installation art for performing e lighting for music, come riesci a mescolare e gestire le arti?

Il mio lavoro non è solo individuale, anzi spesso sono in collaborazione e a supporto di altri artisti. Ho cercato da sempre di portare la luce, con le sue sfumature e forme e una continua ricerca tecnologica, realizzando molti progetti con diversi artisti. L’idea su cui la luce prende forma nei miei progetti, mi ha permesso di dare totale libertà al suo spettro che avvolge ogni campo artistico. Desidero sempre di superare i limiti della luce e continuamente attraverso teatri, musei, ma anche piazze, spazi industriali o addirittura aziende. Ciò che amo della luce è proprio la sua versatilità e la sua capacità di essere intrinsecamente site-specific.

Personalmente, a ogni lavoro, mi colloco sempre come un soggetto in più in legame con il performer, ma non solo, può essere un un grafico, un architetto o qualsiasi altro soggetto. In altre parole la luce si fa soggetto attivo e co-protagonista di ogni lavoro.

Riguardo al tuo legame con la luce, pensi che l’artista abbia una responsabilità sociale e quindi essere strumento di coscienza collettiva?

Personalmente, come per molti artisti, sento una responsabilità sociale dovuta dalla grande comunicabilità dei media che ho scelto di usare per il mio lavoro. In tutti i miei progetti c’è sempre una componente di riflessione per il pubblico. Ogni lavoro nasce da idee che presuppongono una necessità di comunicazione profonda. Nella mia ultima installazione immersiva nel verde, Growing Lights, lo spettatore viene invitato a vivere questa esperienza con lentezza, riappropriandosi del luogo illuminato.

Oltre all’aspetto estetico di una nuova illuminazione con i molteplici “punti di vista” che posso creare, sicuramente, c’è una riflessione sui temi ecologici, dettato anche dal tema  del surriscaldamento globale, che investe oggi la discussione collettiva.

Attraverso i miei studi e i miei lavori con l’intelligenza artificiale, molto prima dell’ondata globale a cui stiamo assistendo ora, mi sono sempre messo nell’ottica di esplorarla dal punto di vista umano e del rapporto uomo-tecnologia. L’essere umano (con la sua emotività) insieme alla luce (con la sua percezione sensibile) sono ‘i registi’ dei miei progetti.

La luce è un fenomeno complesso, pensiamo alla frase ‘venire alla luce’ per indicare la nascita, la vita e da sempre è elemento naturale, nonché rappresentato nell’arte pittorica.

Questa azione del ‘venire alla luce’ (al mondo) per me oggi rappresenta l’approdo ad una conoscenza profonda soprattutto di sé, della propria interiorità e del rapporto del sé con la società e la realtà circostante.

L’Arte per me non è pura elucubrazione mentale, ma un grande strumento di comunicazione sociale, perché essa è in grado di parlare in luoghi dove altri mezzi non riescono a dialogare. Perciò, per me, l’artista ha anche un dovere etico-morale, se così si può dire, perché il suo lavoro non è fine a se stesso, ma intrinsecamente veicola già un messaggio. Nel panorama dell’arte contemporanea oggi, forse il mio pensiero può risultare un po’ naïf, ma credo sia molto importante riportare alla discussione alcune argomentazioni, che forse non sono più banali e scontate. Molto spesso oggi, quando tengo dei corsi e delle lezioni, noto che si è molto più interessati a realizzare il «cool tecnologico» fine a se stesso, piuttosto che usare la luce semplicemente come un mezzo di comunicazione profonda ed emotiva.

Un progetto che hai in mente, ma che ancora non hai realizzato.

Il rapporto tra luce e scienza è un campo che ho iniziato ad esplorare andando oltre la ricerca tecnologica. Attualmente sto lavorando con la Dott.ssa Bruna Corradetti del Baylor College of Medicine di Houston, con la quale stiamo sviluppando un progetto tra arte e ricerca del comportamento cellulare umano. La fusione tra tecnologia, arte e biologia darà vita ad un progetto interattivo che possa essere non solo riflessivo per il pubblico, ma anche, e soprattutto, utile in campo medico per l’esplicitazione di importanti e innovativi ‘punti di vista’ nella ricerca stessa. Anche in questo progetto, ovviamente, al centro c’è la luce con la sua emotività generata dai soggetti coinvolti e da chi permette questo: luce soggetto-oggetto umano.

Questa ricerca attualmente è molto appassionante e spero che questo progetto possa vedere la luce molto presto.

PIETRO CARDARELLI è scenografo, Lighting e Visual Artist e Creative Director. Produzione artistica, grafica, dalla promozione all’immagine dei live (lighting design, live video, videomapping, live media, graphic design, scenografia contemporanea, allestimenti e installazioni), perfoming art, video arte e digital art sono le espressioni artistiche che portano Pietro a lavorare come Creative Director per cantanti, artisti, band e produttori musicali, stilisti, coreografi, strutture d’arte ed aziende. È inoltre docente per diversi corsi di formazione (“Manipolazione Creativa dello Spazio”, “Visual Art”, “Lighting Design”.  Dal 2016 al 2020 fa parte del board scientifico per progetti di rigenerazione urbana creativa (“SPACE – Spazi Creativi Contemporanei” e “Invasioni Contemporanee”). Partecipa a diverse mostre e collettive d’arte in Italia e all’estero. Dal 2014 è progettista e lighting e visual artist per il compositore, autore e musicista Dardust (Dario Faini) curando tutte le date dei tour in Italia e all’estero. Dal 2015 è responsabile lighting designer e visual art director per i progetti “Pyanook” e “PyanookLab” del musicista e compositore Ralf Schmid presso lo studio Kubus dello ZKM di Karlsruhe e la Humboldtsaal di Freiburg (Germania), debuttando al live europeo Neue Meister Music a Berlino. Collabora inoltre con lo studio di ricerca per la realtà aumentata MarbleAR di Los Angeles. Dal 2019 è lighting e visual artist per il coreografo e performer Morgan Nardi presso l’FFT a Düsseldorf (Germania) dove nel 2020 realizza diverse installazioni digitali interattive una nel centrale Hofgarten, nel 2022 nel Northpark e nel 2023 nella foresta di Aaper.  Nel 2021, come artista, è firmatario del Manifesto Internazionale della Light Art.  Nello stesso anno crea il progetto di ricerca “Yūgen_a mood place”© sull’interazione tra la luce e il cibo.  Nel 2023 realizza una serie di installazioni di luce nell’area industriale dismessa ex Sgl-Carbon (Ascoli Piceno). Parallelamente crea la lampada “Birth”©, utilizzata nei concerti di Sergio Cammariere, Yellowjackets, Anne Paceo e Emiliano D’Auria Quartet. L’ultimo lavoro a cui partecipa è “Yume” di Elisa Maestri, un progetto di MeTe Teatro/La Casa di Asterione, dove luce e disabilità si fondono.

immagini: (cover 1) Pietro Cardarelli, «LampadaBirth», 2023 (2-3) Pietro Cardarelli, «Phisiologus», 2019 (4) Pietro Cardarelli, «Pea Wall», 2018 (5-6) Pietro Cardarelli, «Schönheit», 2023 (7) Pietro Cardarelli, «Phisiologus», 2019 (8) Pietro Cardarelli, ritratto

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