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À partir d’avant-hierArshake Calls

Isabella Tortola e Debora Vrizzi alla Fondazione Gajani

Par : Sara Traumer
8 février 2025 à 13:39
Per l’edizione di Art City 2025 gli spazi della Fondazione Gajani verranno contaminati attraverso il lavoro di due artiste chiamate a collaborare insieme per la prima volta: Isabella Tortola e Debora Vrizzi. Da una parte una fotografa; dall’altra una regista e una videoartista.
Obiettivo della mostra è quello, come sempre, di trovare un dialogo e una narrazione con Carlo Gajani e i suoi spazi: fondazione-galleria e casa d’artista. Se l’anno scorso l’approccio con Francesca Lolli è stato quello della caccia al tesoro, quest’anno, invece, avverrà una vera e propria “emissione dell’arte”.  Parte del mobilio e delle decorazioni architettoniche, infatti, rimarrà visibile; le opere d’arte dell’autore, invece, verranno “nascoste” attraverso l’utilizzo di semplici teli trasparenti.
Il telo si fa, in questo modo, simbolo di una cancellazione che non vuole essere, da parte delle artiste e della curatela, né un’occupazione all’interno della residenza del celebre artista bolognese, né una forma di remissione rispetto alla sua arte. L’obiettivo è semplicemente quello di ribaltare la visione e lo sguardo di chi, come ospite, entrerà all’interno della mostra durante la manifestazione. Cosa succede se il luogo che ci aspettiamo di trovare ricolmo di arte, si ritrovasse svuotato da tutto? Che significato produrrebbe nella mente dello spettatore? Una cancellazione che non vuole essere un ribaltamento dell’arte di Gajani, ma un vero e proprio cambio di significato, un’eliminazione alla Emilio Isgrò: cancellare per svelare il paradosso, giocare con l’ovvio e sulle aspettative di chi, da tempo, forse si è troppo abituato a dare per scontato ciò che ha davanti. In questo modo, l’arte, da mero oggetto commerciale, da banalità, da ovvietà riprende forza e spazio, urlando e manifestandosi attraverso la sua stessa assenza.
Per entrare più nel dettaglio Debora Vrizzi ci ha spiegato i retroscena.

 Sara Papini. Come nasce il progetto Blinding Plan?

Debora Vrizzi. Blinding Plan è nato nel 2011 come una provocazione nei confronti di quella politica che in Italia svaluta la cultura. Mi sono posta questa domanda “come sarebbe un mondo senza cultura?”.

Ho girato il primo Blinding Plan (piano di accecamento) al Museo MAXXI di Roma, filmando alcuni spettatori inconsapevoli mentre visitavano il museo. In un secondo momento ho cancellato dalle pareti le opere esposte lasciando invece lo sguardo al vuoto degli spettatori.

La cancellazione delle opere ha avuto l’effetto di sottolineare il rapporto tra il pubblico, l’opera d’arte contemporanea e i musei che la contengono.

In questo primo video ho voluto sottolineare come spesso l’arte contemporanea viene fruita ma non capita, vissuta con sufficienza o frustrazione, noia o ironia. Frequentare i grandi musei d’arte contemporanea (luoghi per eccellenza di consacrazione dell’opera d’arte e dell’artista), è oggi diventato un pellegrinaggio culturale, un rito obbligatorio che lascia spesso indifferente il pubblico.

Lo spazio vuoto che rimane si riempie di metafore, lasciando spazio a diverse possibilità di riflessione, in particolare rende palese l’incapacità di vedere e capire l’arte che viene proposta al grande pubblico.

 Il passaggio dal primo al secondo video, come è stato tornare a lavorare sullo stesso concetto?

La lettura del saggio L’inverno della cultura è stato fondamentale per il secondo video “Blinding Plan The Cathedral”. In questo saggio Jean Clair si interroga sulla giusta “forma” da dare ai musei, paragonandoli a delle chiese. A questo punto, una volta spogliati delle opere d’arte, i musei sono diventati per me delle grandi cattedrali vuote. Le cattedrali gotiche erano orientate verso est, per intercettare e celebrare il sorgere del sole. Al loro confronto, i musei sembrano cattedrali contemporanee che hanno perso il loro orientamento – come se la cultura non avesse più una direzione. Credo che i musei possano ancora cercare di essere cattedrali: sono tra i pochi luoghi in cui i cittadini possono celebrare il trovarsi, il raccoglimento, la concentrazione, la contemplazione, l’ascendere a qualcosa di più luminoso.

Art City e Fondazione Gajani, come ti senti per questa esperienza?

Ho visitato di recente la Fondazione Gajani che accoglie il visitatore dentro un’atmosfera avvolgente e ricca di stimoli. Mi sembra una bellissima e insolita opportunità espositiva, ideata da Sara Papini e Giuseppe Virelli.

L’esposizione a cui sono stata invitata mi pare che ben si concilia con il principio di Art City di coinvolgere un vasto pubblico e ampliare gli spazi espositivi nella città di Bologna. Principio che tra l’altro mi pare in linea con l’auspicio intrinseco nel mio progetto Blinding Plan di smuovere le istituzioni museali per farle diventare qualcosa di dinamico, interdisciplinare che propone un’arte inclusiva e un dialogo tra passato e presente con spazi inusuali della città.

 

 

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Dino Ignani 80’s Dark Rome

24 janvier 2025 à 17:27

C’erano tutti all’inaugurazione della mostra 80’s Dark Rome di Dino Ignani al  Museo di Roma in Trastevere. Una moltitudine di persone che si cercavano e si riconoscevano nei ritratti scattati 40 anni fa da Ignani ai giovani della comunità dark di Roma. Tra le fotografie e il pubblico, tra passato e presente, filtrava un’aura di protagonismo, denso di ricordi e sorprese; le immagini e i loro osservatori sembravano rievocare la veste allegorica di una mitologia epocale che Ignani aveva definito nelle sue fotografie.

80’s Dark Rome è infatti l’esplorazione e il documento di un periodo specifico della cultura giovanile romana. Le immagini sono ritratti che si concentrano sull’estetica Dark nei primi anni Ottanta del secolo scorso, cioè sui “giovani-adulti che a Roma animavano i club della cosiddetta scena dark, un cuneo ottico nero non così univoco ma di un’inedita gamma di declinazioni estetiche e identitarie che rifluivano su altri mood e stili dell’epoca”, come scrive Matteo Di Castro nell’introduzione al libro dedicato alla mostra.

Il momento storico è molto significativo, segnato dalla disintegrazione delle militanze culturali e politiche del decennio precedente, e caratterizzato da un ripiegamento che si esprime con una sterzata sull’esteriorità, ribaltando l’ideologia in un mood narcisistico e alternativo. Emergono sottoculture come il goth e il post-punk che hanno influenzato profondamente il teatro, la poesia, la moda e in particolare la musica. I giovani Dark, in qualche misura reduci inconsapevoli degli anni di piombo, si caratterizzano per la prevalenza di un look basato sul colore nero negli abbigliamenti, negli accessori e negli atteggiamenti, spesso in differenti combinazioni che testimoniano forme di espressione individuale e di ribellione contro norme sociali ed estetiche codificate. I loro ritratti riflettono temi di introspezione, alienazione, e soprattutto una diffusa ricerca di appartenenza.

Dino Ignani tra il 1982 e il 1985 segue i gruppi Dark di cui è diventato amico nelle notti romane, nei locali e nelle discoteche e li fotografa sistematicamente, seguendo un metodo costante. Non li riprende mentre ballano o interagiscono tra loro ma in pose frontali, facendone gli interpreti iconici di derive collettive. Il suo è “un modo aperto per fotografare la scena del clubbing per cui si attraggono i protagonisti di un movimento, non per un processo selettivo ed esclusivo ma per volontà e spirito di partecipazione ad un immaginario, ad uno stile e a un desiderio comune” (Matteo Di Castro).

Nei locali Ignani si colloca in un angolo tranquillo con la sua attrezzatura fotografica, reflex sul cavalletto, inquadratura frontale, pellicola in bianco nero, set preferibilmente neutro, minimo margine lasciato allo sfondo, illuminazione continua con un faro da 1000 watt e ombrello, tempo di posa contenuto.  Uno scatto a testa e si creava la fila, erano tutti ben disposti a partecipare a questo “gioco”, racconta Dino.

Le foto vengono a formare una serie in cui si intersecano codici, stereotipi e individualità. I volti di ragazze e ragazzi Dark si atteggiano senza sorridere, abbigliati e truccati con cura, gli occhi fissi nell’obiettivo con uno sguardo penetrante che sembra condividere quello del fotografo che li ritrae. Sguardi diversi e simili che raccontano una dimensione autobiografica e culturale.

Creare un set fotografico nei locali e invitare i partecipanti di questa piccola e disincantata compagine a farsi riprendere non solo rende la fotografia un’esperienza interattiva, ma permette anche di catturare l’essenza e l’immediatezza delle emozioni tra percezione e identificazione. Perché la posa frontale non ha vie di fuga, si pone al di fuori della temporalità immediata e dell’improvvisazione dell’istantanea. È un metodo mentale, programmato; nella posa il soggetto attende lo scatto, certamente si atteggia, si maschera, ma soprattutto vuole che la sua immagine –  volto, look e corpo – siano fissati in quel modo e in quel momento, stabilendo una sorta di complicità con il fotografo.

Nella posa c’è una tensione concettuale che corrisponde perfettamente alla capacità della fotografia di modificare l’oggetto che riprende, interpretandolo ben oltre la semplice registrazione e ponendo la percezione sul confine di un’evidenza ineccepibile. E questo processo di elaborazione si configura nella fotografia di Dino Ignani come elemento di una serie che assume il senso di un’indagine su cosa sia ritratto, cosa significhi per il fotografo e per coloro che sono fotografati.

Non a caso Dino si è concentrato da sempre sul ritratto inteso come elemento di una complessa rete di relazioni nei tempi e negli spazi del vissuto, utilizzando la fotografia come strumento di analisi capace di filtrare fisionomie ed espressioni, ambienti e contesti; ha privilegiato soprattutto poeti e scrittori cui ha dedicato serie ormai famose e preziose come Intimi ritratti.

La mostra 80’s Dark Rome ha chiuso il 12 gennaio 2025: rimane il libro Dino Ignani, Dak Roma 1982-1985, a cura di Matteo Di Castro con Elena Marasca, testi di Matteo Di Castro, Daniela Amenta, Diego Mormorio, Viaindustriae Publishing 2024. E soprattutto rimane la capacità creativa di Dino Ignani che continua ad arricchire il suo archivio accentuando il procedimento performativo di tutto il progetto, attraverso l’inserimento nella dimensione social; ha fotografato giorno per giorno con il cellulare i visitatori della sua mostra e ha inserito le immagini sul profilo facebook   80’s Dark Portraits by Dino Ignani.

Con la leggerezza di un’accoglienza personale e amichevole sta così realizzando un’altra serie, i Visitors; è un’ulteriore versione del significato simbolico del ritratto e del suo rapporto con i volti, le facce, la postura e l’abbigliamento, la circostanza e il contesto (va ricordato in proposito anche il progetto iniziato con Vernissage alla Biennale di Venezia 2003). Nei Visitors viene a formarsi con apparente facilità e naturalezza un dialogo tra il fotografo, gli spazi e le immagini della sua mostra e quel tipo di persona che è chi va a vedere una mostra. E in particolare questa mostra 80’s Dark Rome.

Il set fotografico è ora la mostra stessa, con la dinamicità del percorso e delle percezioni; il ritmo della serie è diverso, con una intenzionalità meno circoscritta, con incontri differenziati e maggiore spazio alla contingenza. Ci sono gruppi e persone ripresi a sorpresa in qualche istantanea mentre osservano le foto; ma nella maggioranza gli scatti sono frontali, gli sfondi sono scelti dai visitatori stessi, ancora una volta in posa ma con un look casual e per lo più sorridenti con quel sorriso un po’ divertito e un po’ così che si piazza sul viso quando siamo fotografati. Ci sono giovani e meno giovani, amici, artisti, altri fotografi. Immagini che compongono un’altra mostra nella mostra e intessono uno splendido dialogo con le foto dei Dark. E ci sono anche alcune ragazze che spavaldamente ripropongono i dark di una volta con un look perfettamente impostato ma aggiornato sull’outfit fluo e techno del ventunesimo secolo. Altri sguardi dunque, volti, personaggi e contesti che continuano nei Visitors il corto circuito tra immagine, invenzione, percezione, identificazione e metafora che caratterizza il fare ritratti di Dino Ignani. Mentre il visibile fotografico si anima e a risuona nelle interconnessioni del social.

Dino Ignani 80’s Dark Rome, a cura di Matteo Di Castro, Museo di Roma in Trastevere, mostra promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura.

Dino Ignani, Dak Roma 1982-1985, cat. mostra (Museo di Roma Intrastevere 11.09.2024 – 25.01.2025), a cura di Dino Ignani (artista) e Matteo Di Castro (Curatore), Viaindustriae editore, 2024

 

 

 

 

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Intervista | REPLICA (Pt2)

21 janvier 2025 à 23:22

Prosegue la conversazione tra Elena Barison con Lisa Andreani e Simona Squadrito, fondatrici di REPLICA, Archivio italiano del libro d’artista, archivio italiano del libro d’artista, affrontando il tema dell’archivio e delle pubblicazioni esoeditoriali attraverso formati molteplici, sul piano curatoriale ed editoriale, mettendo in discussione le loro definizioni e modalità di presentazione.

Elena Barison: Partendo dal concetto che fare archivio possa essere letto come una metodologia artistica, avete mai riflettuto se REPLICA, nel suo modo di produrre un archivio di libri d’artista, possa assumere anche la dimensione di pratica artistica?

Nel nostro caso non abbiamo mai sentito il bisogno di sviluppare una pratica che vada oltre il curatoriale o la mera ricerca, ma sicuramente, più in generale, siamo state attratte dall’archivio d’artista quale materia interessante da esplorare e da cui trarre ispirazione per nuove forme di progettualità. In particolare, le modalità con cui gli artisti creano le regole del proprio archivio o come si approcciano ai materiali editoriali e cartacei si trova in parte esaminata all’interno di alcune interviste della rubrica Archive Actualized come quella sull’Archivio di Chiara Fumai realizzata con FUR, ma anche quella rivolta all’Associazione Culturale Alberto Grifi. Le biblioteche degli artisti, il loro modo di ordinare scatoloni, seguendo un’identificazione che segue i nomi degli amici e più stretti collaboratori, ci ha portato a leggere questi spazi anche come archivi di relazioni.

Nel 2021 avete preso parte a Iniziative di ii. Le giornate di Iniziative sono state la prima occasione per fuoriuscire dal contesto museale e artistico, per intervenire attivamente nello spazio urbano e tra le persone. In che modo avete presentato REPLICA al pubblico?

L’azione di REPLICA durante il festival si è diffusa a macchia d’olio tra i partecipanti, sviluppandosi durante tutti i giorni delle iniziative. Accompagnando di volta in volta tutte le performance che costituivano il programma, al pubblico è stata consegnata la nostra edizione dal titolo Il biglietto che esplode, composta da dieci buste ognuna contenente un estratto di un capitolo dell’omonimo romanzo di William Burroughs. Attraverso il metodo del cut-up, le parole dello scrittore erano rivisitate e ogni busta era stata riempita di piccoli esplosivi. Il pubblico poteva liberamente conservarle e ottenere al termine dei dieci giorni di festival l’edizione completa oppure aprirle e rendere più movimentata l’atmosfera attraverso lo scoppiettio dei petardi.

Nel 2022 avete presentato ad ArtVerona, Un Tulipano Rosso. Antigruppo siciliano, e nel 2023 avete vinto il premio dell’Italian Council con il progetto Antigruppo siciliano: uno studio translocal. Come è nato l’interesse per l’Antigruppo?

Eravamo in vacanza insieme in Sicilia quando Lisa ha introdotto l’argomento dell’Antigruppo siciliano, che aveva scoperto da poco. Ci siamo subito appassionate a questo allora sconosciuto movimento poetico, ne abbiamo riconosciuto il valore, anche quello legato al suo oblio: l’Antigruppo non è ricordato nemmeno in Sicilia ed è stato cancellato dalla memoria storica italiana, mentre paradossalmente è più riconosciuto negli Stati Uniti. Il progetto è nato con una certa spontaneità, ma ora vorremmo realizzare una mostra articolata che integri tutte le nostre varie pratiche: il libro, il manifesto, la performance e il reading.

Fin dai primi mesi di ricerca abbiamo individuato i temi fondamentali dell’Antigruppo:  l’unione di parola poetica e azione politica militante (Poesis e Praxis), la parola poetica unita all’azione politica, vissuta nella strada, in piazza, come un libro aperto a diversi contesti; la dimensione transnazionale, che si manifesta sia nel legame con gli Stati Uniti, grazie alla presenza di un esponente americano, sia nel rapporto con il Mediterraneo – quest’ultimo aspetto lo stiamo approfondendo particolarmente in relazione alla censura di Un popolo è un popolo di Rolando Certa, una poesia che esprimeva la vicinanza di uno dei fondatori dell’Antigruppo al popolo palestinese; e infine l’editoria alternativa in opposizione a quella ufficiale dei poteri forti, da loro nominata establishment culturale.

Dal momento in cui avete avviato le ricerche sull’Antigruppo siciliano, l’argomento ha in qualche modo influenzato il vostro approccio e metodologia? In un certo senso vi state impegnando nel portare avanti con REPLICA la guerriglia urbana e sociale dell’Antigruppo per provocare un cambiamento o anche solo per promuovere la pace?

La ricerca sull’Antigruppo ha sicuramente lasciato dei segni importanti in quella che è la ricerca più in generale di REPLICA. Anche se non ne abbiamo mai parlato, sentiamo un bisogno forte di una dimensione di comunità e di condivisione. È come se ci fossimo allontanate in maniera naturale da una serie di produzioni che potevano avere un mero risultato stilistico e grafico, come se si fosse implementato uno sguardo e un’idea di attivazione della nostra ricerca, di questi oggetti, attraverso il coinvolgimento degli altri.

Abbiamo presentato i progetti dell’Antigruppo con eventi di natura collettiva e collegiale, attraverso dei reading, in cui si ascoltava l’altro, donandosi e concedendo qualcosa di più forte e di tangibile nella comunità di persone. Rispetto alle presentazioni fatte si è innescato un interessamento che non ci aspettavamo, anche quando siamo andate a presentare la ricerca a Helsinki nel contesto del festival Islands & Seas, New Spring Garden e in collaborazione con PUBLICS (30 maggio 2024), c’erano molte persone interessate a visionare i materiali, sensibilizzate dal racconto e dall’idea che comunque negli anni Settanta esistessero incontri tra i popoli del Mediterraneo. Il lavoro svolto dall’Antigruppo andrebbe ripensato come reenactment per parlare di questioni attuali e di problematiche che continuano a persistere.

Dopo il reading a Monbijoupark (Berlino, 24 luglio 2024) – organizzato a seguito della richiesta di censura di una delle poesie dell’Antigruppo da parte dell’Archivio Conz, uno dei partner culturali che inizialmente ci aveva sostenuto nel bando Italian Council – abbiamo sentito la necessità di cercare altri alleati, altre persone, di uscire dai posti degli addetti alla cultura e di andare nei luoghi pubblici, con la gente disattenta e impreparata.

Un altro momento importante per noi è stato il secondo reading, Una Freccia Contro il Carro Armato (22 settembre 2024), fatto a Casa Cicca Museum (Milano) con tutti i crismi e le persone erano davvero coinvolte. È stato emozionante.

La natura sfuggente del libro d’artista ci ha portato a esplorare molteplici modalità per condividerlo con il pubblico. Il nostro progetto si sviluppa su più livelli: archivia e colleziona, agisce come dispositivo di ricerca, utilizza linguaggi sempre diversi, mantenendo un approccio stimolante. Un libro può generare una serie di azioni molto diverse tra loro, funzionando come un sistema reticolare.

Dall’Antigruppo siciliano abbiamo appreso come sviluppare un progetto di ricerca solido. Il nostro approccio segue una filosofia rizomatica, che trae forza proprio dalle nostre profonde differenze personali.

REPLICA
See also:
 Interview (Pt1), Arshake, 17.01.2025

 

immagini: (Cover 1) REPLICA, Il biglietto che esplode – Iniziative di ii, a cura di Lisa Andreani, Maziar Firouzi, Francesca Pionati and Tommaso Arnaldi, Roma 08.05 – 19.05.2021, courtesy gli autori (fig. 2) Installation view, Un Tulipano Rosso. Antigruppo siciliano, a cura di REPLICA e Viaraffineria, intervento di Giuseppe De Mattia, ArtVerona 2022, credits Matteo De Nando (fig. 3) Antigruppo siciliano: uno studio translocal, pubblicazione indipendente realizzata con il supporto di Italian Council (XII Edizione, 2023), a cura di REPLICA (Lisa Andreani e Simona Squadrito), 2024. Design: Miriam Sannino e Valerio Di Lucente; (fig. 4) Una Freccia Contro il Carro Armato, reading di poesie dell’Antigruppo Siciliano, a cura di REPLICA (Lisa Andreani e Simona Squadrito), Emma Rose Hodne, Floriana Grasso, Carola Provenzano e Giulia Currà, Casa Cicca Museum, Milano, Settembre 2024 (fig. 5) ARROW AGAINST THE TANK, reading a cura di REPLICA (Lisa Andreani e Simona Squadrito) e CROSSLUCID, Monbijoupark, Berlino, Luglio 2024.

 

 

 

 

 

 

 

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FRAME > Rubber Pencil Devil

Par : Arshake
19 janvier 2025 à 19:15

FRAME cattura Rubber Pencil Devil, la serie finale di cinquantasette video installata all’interno di una casa luminosa costruita con luci al neon colorate, ispirata al tempo trascorso da Da Corte a disegnare in una tavola calda durante la scuola d’arte.  Le immagini di Da Corte sono abbinate alle parole del video di Bob Dylan “Subterranean Homesick Blues” del 1965 e l’artista si chiede: “Cinquant’anni dopo, forse questo è un momento simile, che ha bisogno di una conversazione empatica e forse se uso le parole [di Dylan] e le abbino alle mie immagini, potrei dare un senso all’America”. (via)

Alex Da Corte, Rubber Pencil Devil, 2018, immagine via
realizzato per la 57a mostra internazionale Carnegie, organizzata da Ingrid Schaffner, ottobre 2018

 

 

 

 

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VIDEO POST > File Tabs no. 1,

Par : Arshake
18 janvier 2025 à 17:22

VIDEO POST rilancia File Tabs no. 1 di Thomas Jackson, lavoro di arte pubblica esposto presso Knoll Park in Tiburon nel 2023 e realizzato con e per la comunità locale.

Thomas Jackson, File Tabs no. 1, 2023
Thiburon Heritage and Art Commission, Knoll Park, Tiburon, CA, 20 maggio – 9 luglio, 2023

 

 

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Intervista | REPLICA (Pt1)

17 janvier 2025 à 17:09

Lisa Andreani, attualmente dottoranda allo IUAV di Venezia con un progetto sulla mediazione culturale, e Simona Squadrito, co-fondatrice di Kabul Magazine e docente allo IED di Milano, raccontano, in dialogo con Elena Barison, del progetto REPLICA da loro fondato come archivio italiano del libro d’artista, affrontando il tema dell’archivio e delle pubblicazioni esoeditoriali attraverso formati molteplici, sul piano curatoriale ed editoriale, mettendo in discussione le loro definizioni e modalità di presentazione.

Elena Barison: Ciao ragazze, potete introdurre ai lettori di Arshake il progetto REPLICA, come è nato e qual è stata la sua genesi?

In un primo momento, Simona aveva aperto un piccolo corner dedicato ai libri d’artista presso la Libreria Utopia di Milano, ma gestire da sola il progetto, già di per sé molto articolato, risultava difficile. Ci siamo incontrate quasi sette anni fa e, condividendo interessi comuni, abbiamo dato vita a REPLICA nel 2019, un progetto di ricerca e curatoriale dedicato ai libri d’artista.

La decisione di creare un archivio italiano del libro d’artista è nata dalla consapevolezza che in Italia mancava una realtà di questo tipo, soprattutto con uno sguardo verso la contemporaneità. Nel primo anno, attraverso due open call, abbiamo iniziato a raccogliere libri di artisti, designer, performer, mantenendo un approccio flessibile alla collezione, che ora si espande grazie a donazioni spontanee e acquisizioni. È interessante notare come, alla luce del fatto che sia difficile definire cosa sia esattamente un libro d’artista, riceviamo volumi molto diversi tra loro.

Negli ultimi anni il percorso di REPLICA ha assunto direzioni specifiche: abbiamo sviluppato un’attenzione particolare per gli anni Settanta e Ottanta, raccogliendo pezzi storici, e dal 2023 ci stiamo dedicato principalmente alle ricerche sull’Antigruppo siciliano, tema sul quale abbiamo vinto la dodicesima edizione dell’Italian Council. A breve uscirà il primo libro realizzato grazie ai fondi del premio, mentre a febbraio consegneremo a Postmedia Books la bozza per un volume teorico sull’Antigruppo, che conterrà tutta la storia della nostra ricerca.

Rispetto alla gestione dell’archivio, per un periodo la collezione era ospitata a Villa Vertua Masolo a Nova Milanese, dove avevamo realizzato dei display specifici, lavorando e riflettendo sul concetto di esposizione del libro. Con la chiusura della Villa, dovuta prima al Covid, poi a un restauro e infine alla conclusione del mandato di Simona come direttrice, abbiamo iniziato a sviluppare l’idea di un archivio nomade. Presso lo Spazio Volta di Bergamo e alla Scuola indipendente per le arti visive e gli studi curatoriali di Lecce, PIA, abbiamo inviato in occasione del festival Langue&Parole delle scatole di libri, selezionati in base ai temi degli incontri o dei progetti, come ad esempio il viaggio o gli studi bibliografici italiani. La collaborazione con PIA è stata particolarmente interessante perché prevedeva non solo un momento di attivazione performativa dei volumi da parte degli studenti, ma offriva anche alla scuola la possibilità di utilizzare il materiale fornito da noi.

Nel 2023 abbiamo tenuto insieme il corso di scrittura creativa dell’Accademia di Belle Arti di Siracusa, un’esperienza che ha rappresentato un importante lavoro sull’archivio: attraverso i laboratori annuali proposti agli studenti emergono nuove riflessioni e progetti, partendo dalla loro analisi del materiale di REPLICA.

Durante l’ideazione dei vari progetti curatoriali, quali sono state le sfide principali che vi hanno posto di fronte i materiali esoeditoriali? Secondo voi ci sono state delle occasioni espositive nelle quali è particolarmente riuscita la restituzione della ricerca sul libro d’artista?

All’inizio, insieme al tema dell’archiviazione, ci siamo interrogate sulle modalità espositive dei manufatti, che per loro natura permettono una vastità di forme ed esperienze, ma non volevamo creare un effetto vetrina che fossilizzasse l’oggetto e la sua essenza democratica. Non abbiamo trovato una risposta definitiva, anche in materia di salvaguardia, quindi abbiamo sempre affiancato il lavoro curatoriale a quello editoriale (attraverso ATPreplica e la rubrica per NERO Editions).

Con la mostra Multipli e unici a Edicola Radetzky a Milano nel 2019 abbiamo presentato il paradigma forse più immediato per raccontare il libro d’artista: come pezzo unico o nella sua dimensione moltiplicata. Il display, realizzato da Nicola Melinelli, permetteva di esporre gli oggetti aperti, con parti in tessuto che formavano delle amache, e abbiamo presentato delle compilation musicali di Davide Bertocchi, così come una performance su un libro realizzato da Valerio Veneruso.

Sul tema dei multipli abbiamo anche inaugurato nel 2023, la sezione Multipli ad Arte Fiera Bologna, che ci ha offerto una nuova occasione per riflettere sull’oggetto e sul termine, per esplorarne la dimensione e comprendere come il libro d’artista crea opere-narrativo-performative e sfugga a definizioni univoche, essendo soggetto a una certa problematicità e ambiguità.

A Bologna, pur non essendosi creato il contesto per dare forma a un display radicale, il processo di inclusione ed esclusione si è rivelato altrettanto interessante.

Una delle mostre più significative per le riflessioni generate è stata Spoken Narrative a Villa Vertua Masolo nel 2020, dove abbiamo collaborato con Francesco Pedraglio, che oltre a gestire una casa editrice di pubblicazioni legate alla narrativa e alla fiction, crea opere-libro e opere performative. L’allestimento della mostra prevedeva drappi di tessuto appesi che creavano tavoli immaginari con mensole e oggetti, come elementi da leggere e attivare. Quando il collezionista di uno dei libri esposti ci ha richiesto una teca protettiva, abbiamo proposto di realizzare un libretto a supporto della lettura ulteriore dei libri e dei materiali presenti entro le teche, quasi restituendo una voce ai loro autori. Il libro in quella sede è diventato un luogo, in cui si sono attivate comunità di voci diverse.

Con il progetto Archive Actualized, prima editoriale sulla piattaforma NERO e poi espositivo, è stato possibile aprire nuovi quesiti. La rubrica iniziale è nata nel 2022 dall’idea di mappare i luoghi in cui i libri d’artista sono conservati. Per farlo abbiamo raccolto una serie di interviste: alla Fondazione Baruchello, al collezionista Giuseppe Garrera, ai collezionisti di P420 e all’Archivio di Alberto Grifi, grazie alle quali abbiamo investigato le singole metodologie di archiviazione e di lettura di cosa sia il libro d’artista o il libro oggetto. Il progetto è stato poi presentato a Spazio Mensa a Roma, in dialogo con il designer Valerio Di Lucente e Studio Julia. Con un allestimento molto semplice, costituito da materassini in gommapiuma sui quali poggiavano dei fogli con l’introduzione di Archive Actualized e da del nastro adesivo blu con cui abbiamo creato una grande griglia, in contrasto con il colore giallo della stanza. Con dei chiodi abbiamo appeso degli estratti delle interviste su fogli A4, insieme ai contatti e agli indirizzi degli archivi per invitare il pubblico a visitarli. In quel caso abbiamo presentato anche una sorta di anticipazione dell’intervista all’Archivio di Alberto Grifi esponendo un film del regista romano.

Un esperimento che ricordiamo con grande affetto è anche quello con Franco Ariaudo, una lecture performance di Sportification, in cui l’artista ha ideato una modalità ulteriore di presentare il progetto libro. Oppure, la mostra con Giuseppe De Mattia a Spazio Chiosi a Lugano, nel 2021, in cui abbiamo ideato Fogliaccio, un lavoro che parla di archivio e di schedatura archivistica della casa editrice Tasso, includendo l’esistente e l’inesistente. È come se nel riflettere su tutte queste forme del mostrare e del parlare, l’oggetto richiamasse una dimensione altrettanto libresca per essere esperito.

… to be continued…

Lisa Andreani è attualmente dottoranda allo IUAV di Venezia con un progetto sulla mediazione culturale. Nel corso degli anni pregressi ha partecipato alla realizzazione di progetti molteplici, all’interno di istituzioni come il MACRO e il MAXXI di Roma, co-curando più recentemente :After. Festival diffuso di Architettura in Sicilia (22-29 aprile 2023).
Simona Squadrito è co-fondatrice di Kabul Magazine e docente allo IED di Milano, dove insegna un corso su Pasolini e su Arte e intelligenza artificiale, mentre all’Accademia di Belle Arti di Siracusa MADE PROGRAM insegna fenomenologia dell’arte, estetica e scrittura creativa.

immagini: (Cover 1) Team REPLICA: Lisa Andreani e Simona Squadrito (2) Installation view, REPLICA. Archivio Italiano del libro d’artista, display a cura di Parasite 2.0 e Furlani-Gobbi, Villa Vertua Masolo 2019, credits di Martina de Rosa (3) Multipli e unici, a cura di REPLICA, display a cura di Nicola Melinelli, Edicola Radetzky, Milano 2019, credits Martina De Rosa (fig. 4) Installation view, Un foglio è un foglio ma piegato enne volta diventa un libro d’artista, a cura di REPLICA, Spazio Choisi, Lugano 2021, courtesy Libri Tasso (5) Installation view, Archive Actualized, a cura di REPLICA, display a cura di Studio Julia, Spazio Mensa, Roma 2022, credits Giorgio Benni.

 

 

 

 

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Carlo Zanni alla Banquet Gallery

Par : Arshake
15 janvier 2025 à 14:05

“Mi sentivo diviso, schizofrenico. La guerra, ciò che
stava accadendo in America, la brutalità del mondo.
Che tipo di uomo sono, seduto a casa, a leggere
riviste, andando su tutte le furie per qualsiasi
cosa—e poi andare in studio a sfumare un rosso su
un blu.”
(Philip Guston, circa 1968)

 Banquet Gallery a Milano ospita DAN, personale di Carlo Zanni con opere recenti ed inedite, che includono dipinti, sculture e una performance digitale su Internet, tutte incentrate sulle intersezioni tra consumismo, ansia, emoji e identità, sullo sfondo di una guerra perpetua.

La serie Check-Out Paintings esplora il limbo psicologico dell’esperienza d’acquisto, catturando le emozioni fugaci e compulsive che l’eCommerce genera come forma di interazione con il mondo. Questi dipinti astratti evocano una riflessione contemplativa sull’ansia, il desiderio e la consapevolezza delle nostre azioni mentre prenotiamo, mettiamo like, scorriamo, spediamo, zoomiamo o restituiamo un oggetto. I Check-Out Paintings mettono in relazione la cultura digitale con una pratica artistica tradizionale, richiamandosi alle esplorazioni del tempo di On Kawara e alla sensibilità minimalista di Agnes Martin. Con una palette di colori delicati e l’inclusione di elementi visivi come emoji ed emoticon giapponesi utilizzati come clickbait, questi dipinti invitano lo spettatore a un’esperienza più intima, rivelando, infine, contenuti inaspettati.

Al piano inferiore, in un ambiente poco illuminato, è esposta per la prima volta la serie DAN: sculture in MDF incise al laser con i loghi di Amazon distorti e storpiati. Alterazioni generate dall’utilizzo di una versione preliminare ed imperfetta di DALL-E, un software di Intelligenza Artificiale per la generazione di immagini basate su input testuali – ora integrato in ChatGPT.

DAN è l’acronimo di “Do Anything Now”, un comando che un tempo permetteva agli utenti di hackerare ChatGPT, aggirando le sue protezioni etiche e morali. Queste sculture minimaliste, in penombra, invitano gli spettatori a impegnarsi in un processo simbolico di unboxing e di autoriflessione. Man mano che la vista si adatta alla scarsa illuminazione, delle forme nascoste iniziano gradualmente ad emergere.

A completamento della mostra è la performance online My Shameful Sweet Spot Between Distress and Hilarity, un’opera digitale, live e in continua evoluzione che esplora il fragile equilibrio tra bellezza, umorismo e assurdità delle nostre vite. Mediante un bot che interroga un sito web di moda con le ultime notizie di Al Jazeera, l’opera trasforma la cultura del consumo in una meditazione dinamica sui desideri e le vulnerabilità umane. Ciò richiama il concetto di Slavoj Žižek di “Unknown Knowns” (Cose Conosciute Sconosciute) – quelle credenze, valori e ideologie che esistono al di sotto della nostra consapevolezza e hanno un impatto determinante sul modo in cui percepiamo il mondo e agiamo in esso.

Le opere in mostra fondono tecnologia, commento sociale e tecniche tradizionali in uno stato liminale che evoca una sensazione di instabilità e trasformazione continua; elementi tipici della ricerca dell’artista.

(dal comunicato stampa)

Carlo Zanni. DAN, Banquet Gallery, Milano, 12.12.2024 – 01.03.2025
Carlo Zanni (La Spezia, 1975) è un artista concettuale la cui ricerca, sin dagli esordi, trova esiti coerenti mediante l’utilizzo di pratiche molto distanti, come la pittura e l’arte digitale. È stato pioniere nell’uso di dati di terze parti prelevati da Internet e da oltre vent’anni esplora lo spazio pubblico del web con opere effimere che combinano una forte sensibilità sociale con un’attenzione particolare alla privacy, all’identità e all’individuo.
Come pittore, focalizza la sua attenzione su un nuovo tipo di “paesaggio politico condiviso” emerso con Internet, che continua a trasformare le dinamiche umane. In un’epoca in cui le piattaforme di eCommerce dominano le nostre vite, Zanni rielabora questi ambienti familiari come vettori per sollevare questioni sociali e politiche urgenti. Zanni ha esposto in gallerie e musei di tutto il mondo, tra cui: National Taiwan Museum of Fine Arts, Taiwan; Arts Santa Mònica, Barcellona; Hammer Museum, Los Angeles; Marsèlleria, Milano; Tent, Rotterdam; MAXXI, Roma; MoMA PS1, New York; Borusan Center, Istanbul; PERFORMA 09, New York e ICA, Londra. È autore del libro “Art in the Age of the Cloud” in ristampa presso Magütt Publishing, e di recente è stato invitato a presentare la sua ricerca alla 10ª edizione di “Talking Galleries” a Barcellona. Il suo lavoro appare in più di 50 libri e cataloghi, oltre che in centinaia di articoli e interviste online. La sua prima monografia è in uscita per Printer Fault Press nel 2025.
immagini: (tutte) Carlo Zanni. DAN, Banquet Gallery, Milano

 

 

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FRAME > ARC 2000

Par : Arshake
2 janvier 2025 à 14:49

FRAME cattura Arc 2000 di Simon Beck, una di una sua serie di trasformazioni di paesaggi innevati e sabbiosi  in opere geometriche monumentali, combinazione di precisione matematica e natura, realizzati camminando lungo i laghi ghiacciati della Savoia.

 Simon Beck, Arc 2000, immagine via

 

 

 

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Il valore delle residenze d’artista

29 décembre 2024 à 10:03

La presente riflessione nasce a distanza di alcune settimane dal convegno Ripopolare, Rigenerare, Risiedere. Il ruolo delle residenze artistiche: un incontro durato due giorni, 9-10 novembre scorsi, presso lo Spazio Pertini del Comune lucano di Latronico (PZ) e promosso, oltre che dalla stessa Amministrazione Comunale, dall’Associazione delle residenze artistiche italiane STARE, e dall’Associazione Culturale Vincenzo De Luca-APS.

Il convegno è stato importante occasione di discussione del valore sociale, politico, oltre che artistico, delle residenze d’artista nelle aree interne e rurali: qual è il ruolo che queste strutture rivestono nelle dinamiche di valorizzazione dei territori fragili e nelle relazioni tra arte, comunità e sviluppo economico-sociale?

Sebbene le residenze artistiche siano state inizialmente concepite come spazi di riflessione e ricerca per gli artisti, il loro impatto va ben oltre la produzione culturale: esse sono anche momento durante il quale la comunità si riappropria di spazi fisici e simbolici, generando forme nuove di coesione sociale e di riattivazione dei territori.

Le residenze artistiche, dunque, non sono solo momento di sperimentazione e ricerca, ma contribuiscono anche alla creazione di legami tra le comunità locali e gli artisti, trasformando e arricchendo l’intero sistema sociale ed economico.

L’arte, pur nella sua autonomia espressiva, può essere un potente strumento per stimolare la partecipazione civica. In questo senso, il concetto di “risiedere” non si limita a una mera presenza fisica, ma diventa una metafora di una residenza attiva, impegnata nel connettere individui e collettività, promuovendo un’idea di “abitare” che trascende la semplice permanenza.

Occorre, però, sottolineare il fatto che, nonostante le residenze artistiche siano riconosciute come potente strumento per favorire l’incontro tra ricerca artistica e territorio, esse da sole non possono assolvere all’azione rigenerativa dei territori, troppo spesso associata ad una mera opera di maquillage urbano. Sebbene il termine “rigenerazione” sia, infatti, ormai abusato, e non solo nei proclami politici, il vero significato di questa parola, quando applicato alle residenze artistiche, si radica in un’azione di sensibilizzazione e educazione al “bello”, un processo che nasce dalle comunità stesse, nella consapevolezza che la cultura e l’arte possono stimolare una nuova visione del territorio. La vera azione di rigenerazione non può non partire da un’azione di sensibilizzazione delle collettività, trovando la sua vera forza nell’azione culturale ed educativa.

La vera rigenerazione territoriale è il frutto di un impegno condiviso, che va oltre la logica dell’evento e investe la capacità delle persone di riscoprire e rivitalizzare il proprio territorio.

Il valore della bellezza, in questo contesto, non è solo un valore estetico, ma un principio educativo che sollecita nuove forme di relazione con lo spazio e con gli altri. L’arte ha il potere di trasformare non solo il paesaggio fisico, ma anche la percezione che una comunità ha di sé stessa e del proprio futuro. In questo modo, le residenze artistiche si configurano come attori fondamentali nella creazione di una cittadinanza attiva, consapevole e capace di immaginare e realizzare un futuro più aperto e dinamico.

“Stare” e “residenza” sono due termini meravigliosi: presuppongono un’azione di stato in luogo, di stanziamento, di occupazione fisica di uno spazio, perché, come sosteneva Benjamin, l’abitante è colui che lascia una traccia del suo passaggio e della propria esperienza. Ecco dunque STARE.

Ripopolare, rigenerare, risiedere. Il ruolo delle residenze artistiche 9 – 10 novembre 2024 Latronico
Promosso da STARE Associazione delle residenze artistiche italiane, Associazione Culturale Vincenzo De Luca-APS, Amministrazione Comunale di Latronico

immagini (tutte): “Ripopolare, rigenerare, risiedere Il ruolo delle residenze artistiche”, November,  9 – 10, 2024 Latronico

 

 

 

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Iginio De Luca. Carborundum

27 décembre 2024 à 18:27

Carborundum, il suono del tempo minerale è il lavoro che l’artista romano Iginio de Luca ha realizzato per la Litografia Bulla (fondata a Parigi nel 1818), dal 1840 attiva a Roma nell’incontro con generazioni di artisti locali o in transito da diverse parti del mondo.

Con la capacità di pochi di re-inventarsi, dal 2020 la Litografia ha inaugurato una delle sue finestre al Progetto Passaggi, apertura sulla strada di una delle due delle stanze storiche dello studio, dove gli artisti hanno sperimentato, e continuano a sperimentare, con questa particolare tecnica di stampa. Apertura, anche, alla sperimentazione con ogni generazione di artisti per iniziativa Beatrice e Flaminia Bulla, settima generazione a portare avanti l’attività assieme al padre Romolo.

Iginio De Luca è stato invitato a realizzare un lavoro e a mettersi in ascolto del luogo. “Artista attento alle condizioni di soglia, là dove prendono forma confini mobili, i momenti in cui avvengono i passaggi di stato, in cui la percezione di chi osserva trasforma le persone, i luoghi e le cose in qualcos’altro”.
Così ritrae l’artista Pietro Gaglianò, e questa particolare sensibilità fa sì che il luogo si incontri nel procedimento litografico, in particolare nel momento della cancellazione della pietra, passaggio tra un lavoro e un altro.

Il disegno ad inchiostro formato da grassi e resine, realizzato dagli artisti e poi fissato sulla pietra, viene infatti poi cancellato alla fine di ogni lavorazione attraverso un materiale abrasivo, il carborundum (del titolo). La cancellatura è un momento di transizione che il suo lavoro restituisce in più di un’immagine, tutte radicate nel suono.

Il suono è quello che nasce nello sfregamento del carborundum sulla pietra, con l’impiego di diverse grane, dalla più fina alla più spessa. Iginio De Luca si è impegnato in questo processo alla ricerca di una sintonia e un ritmo, con un impegno anche fisico che potesse far rivivere la memoria della pietra.

Quando il suono, orchestrato in cinque brani compressi in un vinile, si disperde nelle stanze della litografia, ‘luogo esoterico’, ‘tempio dell’immagine’ come lo ha fotografato con le parole Anna Cestelli Guidi nel testo che accompagna l’installazione, la memoria dell’attività di centinaia di pietre litografiche affastellate nello spazio, è restituita alla vita.

A questa immagine ‘suonata’ nelle corde dell’empatia, si aggiunge quella della traccia audio di questo procedimento formattata dal computer e incisa a mano da Iginio de Luca sulla stessa pietra per farne una litografia.

L’eco di queste immagini risuona nel materiale che riveste interamente le copertine della serie dei venti vinili e nel titolo, Carborundum, il suono del tempo minerale, che deposita nel materiale abrasivo e nel suo processo, la matrice di questa operazione e ne visualizza la sua futura trasformazione nella sperimentazione che verrà. Nel mentre, fuori dalle stanze del laboratorio litografico, l’eco della cancellazione risuona nella coscienza politica con la stessa forza poetica che definisce tutte le operazioni di Iginio De Luca.

immagini: (tutte) Iginio De Luca, «Carborundum, il suono del tempo minerale», Litografia Bulla, Roma. © Luis do Rosario

 

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VIDEO POST > The Recap

Par : Arshake
24 décembre 2024 à 16:55

VIDEO POST rilancia r/place, progetto collaborativo ed esperimento sociale ospitato nel 2017 (e poi nel 2022-23) su Reddit, community nata nel 2005.

L’esperimento consisteva in una tela online che gli utenti registrati potevano modificare cambiando il colore di un singolo pixel con un altro da una tavolozza di 16 colori. Dopo il posizionamento di ogni pixel, un timer impediva all’utente di inserire altri pixel per un periodo di tempo variabile da 5 a 20 minuti. Il video riprende l’esperimento nel 2023, quando la piattaforma è stata interrotta. Questo breve video documenta il posizionamento di 160 milioni di piastrelle posizionate da 10,4 milioni di persone in sole 83 ore.

r/place

 

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VIDEOCITTÀ Awards 2024

Par : Arshake
21 décembre 2024 à 10:15

Da diversi anni a Roma, Il festival VIDEOCITTÀ, ideato da Francesco Rutelli e diretto da Francesco Dobrovich,  si pone come osservatorio audiovisivo, includendo anche nomi della musica elettronica, talk sui new media e installazioni immersive. Ponendosi tra cultura e intrattenimento da qualche anno questo grande evento è ospitato nel suggestivo spazio di archeologia industriale del Gazometro di Roma.

Ora, chiusa a settembre l’edizione 2024 che ha presentato il lavoro di oltre 500 artisti, Videocittà ha proseguito il 14 dicembre con l’assegnazione del Videocittà Awards, al Palazzo dei Congressi di Roma, con la conduzione del giornalista e critico d’arte Nicolas Ballario e della content creator Momoka Banana.

Federica Di Pietrantonio (categoria: video arte), l’artista multimediale e fisico Riccardo Giovinetto (categoria: AV Performance),la content creator Margherita Paiano (categoria: Creator), gli studi new media Onda Studio (categoria: Immersive Experience), e Machine Zero (categoria:Next). Margherita Landi ha ottenuto la menzione speciale.

In una sala gremita, la cerimonia è stata accompagnata dalla performance live audiovisiva “SHIRO” dei Nonotak, duo fondato nel 2011 dall’artista visiva Noemi Schipfer e dall’artista del suono e della luce Takami Nakamoto, gioco di sovrapposizioni di ombre, luci e musica techno attraverso quattro schermi semi-trasparenti e i corpi degli artisti.

All’interno del foyer dell’arte è stato possibile fare esperienza di ODE corporis, la prima esperienza in VR del Teatro dell’Opera di Roma, ideata e curata da Anna Lea Antolini con Giuliano Danieli per la regia di Guido Geminiani. Prodotto dal Teatro dell’ Opera di Roma in collaborazione con Videocittà, si tratta di un viaggio attraverso il corpo, negli spazi noti e meno noti, accessibili e inaccessibili del Teatro Costanzi e del suo laboratorio scenografico, i Cerchi. La serata si è conclusa con il DJ set di Efee

I videocittà Awards sono organizzati da Videocittà, il festival ideato da Francesco Rutelli con la direzione creativa di Francesco Dobrovich, in coproduzione con EUR SpA nell’ambito della rassegna EURCULTURE 2024/25, e grazie allo sponsor partner Ploom.

I premi di questa edizione sono stati consegnati da: Lorenza Lei, Responsabile Cinema Regione Lazio, Silvia Scozzese, Vicesindaco e Assessore al Bilancio Roma Capitale, Dardust, pianista, compositore e produttore, Laura Negrini, Direttrice IED Roma.

Videocittà Awards, 2024

 immagini: (cover 1)  Nonotak (2) Vincitori Premio Videocittà (3) ODE corporis, esperienza in VR 360° (4) Videocittà Awards Cerimony

 

 

 

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Michael Bauer. Helmeted Towards Dawn

20 décembre 2024 à 12:31

In occasione dell’apertura del nuovo spazio romano della Federica Schiavo Gallery, il 26 ottobre scorso si è inaugurata la prima mostra personale a Roma dell’artista tedesco Michael Bauer (1973, Erkelenz) dal titolo Helmeted Towards Dawn.

L’esposizione presenta un nucleo di otto dipinti, tre di grandi dimensioni e cinque più piccoli, realizzati tutti negli ultimi anni, quale elaborazione di una suggestione del passato insieme a una serie di elementi legati a una dimensione presente, contemporanea. Proprio per questo la mostra sembra mettere in atto un confronto (e un dialogo) costante tra le opere di piccole dimensioni e le grandi che differiscono non tanto per la tecnica pittorica adottata, quanto per ciò che sembrano comunicare.

La prima sala si apre con le opere Deflated husband, armpit of the universe and blue sun (2024), sulla destra, e Helmeted Towards Dawn (2024), che dà anche il titolo alla mostra, e We live in caves and tunnels (2024), entrambe sulla parete di fronte l’ingresso. I tre lavori, così come gli altri esposti, sono caratterizzati dallo stesso stile pittorico, già utilizzato da Bauer in opere precedenti, contraddistinto da una stratificazione e giustapposizione sulla tela di diverse tecniche quali acrilico, tempera e pastello mischiati insieme a creare una serie di immagini difficilmente riconoscibili.

Elementi amorfi, linee ondulate, colori caldi e freddi, cerchi colorati si affastellano sulla tela in modo da dar vita a una costellazione di paesaggi che attingono sia a una sfera personale che a elementi esterni, dal forte significato poetico. Tra questi per esempio si inserisce l’influenza derivata dalla lettura – anzi, rilettura – di una serie di romanzi di fantascienza molto cari a Bauer fin da bambino e ripresi in questi anni, di autori quali Clark Ashton Smith, Samuel Delaney, David Bunch e soprattutto il Dying Earth (il Ciclo della Terra Morente) di Jack Vance, da cui estrae alcune frasi che ha utilizzato come titoli delle opere esposte in mostra.

Stando alle parole dell’artista:

«Considero le opere di grande formato realizzate negli ultimi anni come una sorta di prequel dei dipinti più piccoli in mostra. Le figure che nei primi sprofondavano in un vortice di entropia, ora ne affrontano le conseguenze. C’è ancora intorno a loro l’eco dell’energia precedente che sembra ora immergerle in uno spazio in lenta dissoluzione. Abbandonate a sé stesse, si aggirano solitarie in paesaggi indefiniti pervasi da uno stato d’animo malinconico e da un senso di pace».

La dialettica che sembra emergere all’interno della mostra è proprio un passaggio da una dimensione vorticosa, entropica, dinamica, piena, ben visibile nelle tele di grande formato, a una più riflessiva, malinconica, “vuota” delle piccole: L’approdo dunque a un paesaggio psicologico, sottolineato anche dal cambiamento della tavolozza utilizzata, che da colori caldi scivola verso tonalità più fredde e scure. Questo confronto emerge anche nella seconda e ultima sala della galleria, in opere come Futile cousins, green shorts and fading sun (2024), di grande formato, e The dawnman cried as his faced appeared on the moon (2024), piccolo, poste tra l’altro una accanto all’altra.

Il percorso di ricerca portato avanti da Michael Bauer prosegue verso composizioni astratte ma velatamente figurative, i cui elementi diventano riconoscibili solo dopo una visione attenta e prolungata dei dipinti, risentendo chiaramente l’eco della tradizione pittorica tedesca. Il risultato raggiunto è quello di un percorso lirico e introspettivo, culminante nel tentativo di mettere in scena la sensazione di pace che si prova «nell’immaginare paesaggi vuoti, gli ultimi respiri di chi li ha abitati».

Michael Bauer. Helmeted Towards Dawn, Federica Schiavo Gallery, Roma, 26.10.2024 – 25.01.2025

immagini: (cover 1) Michael Bauer, «Helmeted Towards Dawn», 2024, olio, acrilico, pastello su tela (2-3) Michael Bauer. «Helmeted Towards Dawn», 2024, panoramica d’installazione, Federica Schiavo Gallery, Roma, foto Giulia Pietroletti, courtesy dell’artista e di Federica Schiavo Gallery (4) Michael Bauer, «Futile Cousins, Green Shorts and Fading Sun», 2024, olio, acrilico, pastello su tela

 

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Fotonica 2024

Par : Arshake
16 décembre 2024 à 22:05

Con installazioni, performance audio-video live, musica elettronica, video mapping, workshop, residenze artistiche e simposi, Fotonica si divide tra l’Accademia d’Ungheria a Roma e il quartiere Alessandrino in una location avveniristica di ultima generazione: il Chromosphere Dome, un’enorme cupola, solitamente utilizzata in campo astronomico e in particolare nei planetari, che avvolge il pubblico con suoni e immagini da ogni direzione, garantendogli una reale quanto rara esperienza immersiva a 360 gradi.

Fiore all’occhiello di FOTONICA i live audio video di otto artisti di fama internazionale aprono e chiudono il Festival: Lydia Yakonowsky (Canada), VJ Spetto (Brasile), Ployz (Germania) Monocolor (Austria), Damiano Simoncini | Levi & Cristina Angeloro (Italia) Kati Katona (Ungheria), Milian Mori (Svizzera), Touchy Toy Collective (Italia) Konx-om-Pax (Uk).

Dal 13 al 21 dicembre, tutti i giorni dalle 11 alle 17, nel Chromosphere Dome si susseguiranno le opere video dedicate a bambini e bambine. Dalle 17 in poi, l’esterno della cupola ospita i video mapping di artisti come DeRe dal Michigan e i lavori finali delle residenze artistiche e dei workshop per adulti e bambini a cura di Naba, FLxER e Fusolab, mentre all’interno della cupola, parallelamente, saranno proiettate le opere video di artisti internazionali: dal Giappone Yuri Urano e Manami Sakamoto, dalla Cina Te-Hsing Lu e Calvin Sin, dalla Polonia Ari Dykier, dalla Germania Sergey Prokofyev, dalla Grecia e dal Regno Unito Uncharted limbo Collective, e infine dalla Francia Milkorova, Sandrine Deumier, François Vautier, Flore e Sébastien Labrunie.

Fotonica ha inaugurato venerdì 13 dicembre all’Accademia d’Ungheria in Roma con Modulator V3, installazione del celebre artista ungherese Dávid Ariel Szauder, ispirata all’iconico “Light Prop for an Electric Stage” (1930) della figura di spicco della Bauhaus László Moholy-Nagy.

L’opera concepita da László Moholy-Nagy e progettata dall’architetto István Sebők era originariamente intesa come un “dispositivo sperimentale per la pittura della luce”. Attingendo al prototipo originale Szauder ha creato una performance interattiva arricchita da un’esperienza uditiva che risponde all’ambiente di luci e ombre creato dal movimento della scultura.

Il Festival ha proseguito, e prosegue ancora, tra Accademia di Ungheria e il Chromosphere Dome fino al 21 dicembre, 2024 con eventi di live performance, incontri e workshop. Consultate qui il sito per il calendario aggiornato degli eventi e per i biglietti.

Fotonica Festival, Accademia di Ungheria e Chromosphere Dome (quartiere Alessandrino), Roma, 13.12 – 21.12.2024
Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico biennale “Culture in Movimento 2024 – 2025”, realizzato in collaborazione con SIAE e con il sostegno della Comunità Europea – Creative Europe. FOTONICA è prodotto da Flyer srl, che nel 2004 ha dato vita a LPM Live Performers Meeting, il più grande evento del settore, giunto alla sua venticinquesima edizione. Il Festival fa parte del network AVnode, una rete internazionale con oltre 60 membri che promuovono più di 200 progetti tra festival, meeting e workshop.
immagini: (cover 1) MONOCOLOR, Entangled Structures (2) Kati Katona, Continuum (3) Touchy Toy Collective

 

 

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FRAME > Seeders and Leechers

Par : Arshake
16 décembre 2024 à 15:37

FRAME cattura Seeders and Leechers di Janne Schimmel, scultura ed ecosistema dove componenti tecnologici coesistono con forme scultoree che imitano forme viventi e che sembrano in procinto di trasformarsi.

Janne Schimmel, Seeders and Leechers, 2023, immagine via

 

 

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VIDEO POST > Slow Room

Par : Arshake
15 décembre 2024 à 11:23

VIDEO POST rilancia SLOW ROOM dell’artista californiano Johnatan Schipper: un soggiorno viene lentamente trascinato in un buco nel corso di un mese, risposta al dilemma dei nostri tempi: “essere parte del sistema mentre si nega e si rifiuta la stasi… ”.

Johnatan Schipper, Slow Room, 2024

 

 

 

 

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Haacke alla Schirn Kunsthalle

Par : Arshake
12 décembre 2024 à 20:02

Dall’8 novembre 2024 al 9 febbraio 2025, la Schirn Kunsthalle di Francoforte dedica una retrospettiva all’artista tedesco-americano Hans Haacke, con una rassegna di opere a dal 1959 a oggi, tracciandone il suo indirizzo politico.

In diverse occasioni, i suoi controversi contributi artistici ai dibattiti in corso sono stati censurati dalle mostre. Artisticamente, ha perseguito una varietà di strategie, impegnandosi precocemente nei campi dell’ecologia e delle scienze naturali, attingendo agli approcci del gruppo ZERO, del Minimalismo, dell’Arte Concettuale, dell’arte pubblica e della poster art, tra gli altri. In qualità di pioniere della Critica Istituzionale nell’ambito dell’Arte Concettuale, le sue opere esaminano ordini o sistemi e li presentano in modo comparativo. L’artista stesso descrive il mondo come un super-sistema con innumerevoli sottosistemi, ognuno dei quali è più o meno influenzato dagli altri. Il pensiero sistemico, la critica istituzionale e la democrazia sono i temi principali che attraversano l’opera di Haacke. Alla Schirn sono in mostra i primi lavori iconici degli anni Sessanta, i suoi influenti sistemi in tempo reale, i pezzi che invitano alla partecipazione del pubblico e le ampie installazioni (storiche) politiche. Con circa settanta dipinti, fotografie, oggetti, installazioni, azioni, manifesti e un film, la mostra illustra come Haacke sia diventato uno degli artisti politici più importanti e influenti del mondo per le generazioni successive.

 

Per questa retrospettiva completa, lo Schirn è riuscito a riunire a Francoforte importanti opere dell’artista provenienti da collezioni pubbliche e private internazionali, tra cui: Museum Abteiberg, Mönchengladbach; Art Gallery of Ontario, Toronto; FRAC Bourgogne Dijon Collection; Generali Foundation Collection at the Museum der Moderne, Salzburg; Hamburger Bahnhof Nationalgalerie der Gegenwart, Berlino; LACMA, Los Angeles; Museum Ludwig, Colonia; MACBA, Barcellona; Lila and Gilbert Silverman Collection, Detroit; TATE London e Whitney Museum of American Art, New York.

Sebastian Baden, direttore della Schirn Kunsthalle di Francoforte, osserva che: “Hans Haacke è una leggenda dell’arte concettuale politica. Con questa retrospettiva presentiamo un artista il cui lavoro ha avuto una grande influenza sull’arte contemporanea. I suoi temi principali dell’ecologia, della critica istituzionale e della democrazia sono anche i temi centrali del presente. La pratica critica di Haacke deve essere resa accessibile e comunicata a un vasto pubblico internazionale. L’artista si preoccupa sempre di coinvolgere gli spettatori, invitandoli a impegnarsi in un dibattito critico e sensibilizzandoli alla diversità e alla libertà di opinione. Il potenziale democratico del suo lavoro di opposizione è particolarmente rilevante oggi, in un momento in cui le democrazie di tutto il mondo sono a rischio”.

Ingrid Pfeiffer, curatrice della mostra, osserva inoltre: “Osservare in particolare i primi lavori di Hans Haacke offre spunti di riflessione su un’opera che a prima vista può sembrare eterogenea. Egli utilizza questioni sistemiche per combinare materiali e tecniche diverse come la fotografia, gli oggetti, le azioni o le installazioni. I parallelismi strutturali percorrono come un filo d’oro la sua opera. In vari periodi, ha collegato sistemi fisici, biologici e sociali per rivelare strutture e cicli. Il lavoro di Haacke è sempre rigorosamente politico, ma anche poetico e umoristico. Questa sua schiettezza lo ha portato a essere disinvitato più volte dalle mostre. Ha sempre difeso le sue convinzioni, in particolare la difesa dei principi democratici”.

Nella sua rotonda accessibile al pubblico, la Schirn presenta l’iconico Gift Horse (2014) di Hans Haacke, che l’artista ha realizzato per Trafalgar Square a Londra nell’ambito del Fourth Plinth, una delle più prestigiose commissioni di arte pubblica al mondo. Come una sorta di “contro-monumento” alla rappresentazione imperiale del potere da parte delle statue di questa piazza, la scultura in bronzo di Haacke, alta 4,5 metri, mostra uno scheletro di cavallo basato su uno studio tratto dal libro di George Stubbs The Anatomy of the Horse. Il ticker della Borsa di Francoforte è trasmesso in diretta tramite un display elettronico su un anello nella parte anteriore dell’osso della coscia dello scheletro. Gift Horse di Haacke può essere letto come un commento su una società che per secoli è stata definita da antagonismi di classe e soggetta ai dettami dei mercati.

Il percorso espositivo inizia con importanti opere fisiche, biologiche ed ecologiche a partire dagli anni Sessanta. I primi progetti di Haacke sono stati influenzati dall’amicizia con Otto Piene e dal contatto con il gruppo ZERO di Düsseldorf. In questo periodo partecipò a numerose mostre pionieristiche sull’Arte Cinetica, l’Op Art, l’Arte Concettuale e la Land Art. Sebbene il lavoro di Haacke si sovrapponga a molti movimenti innovativi degli anni Sessanta, egli non sente di appartenere veramente a nessuno di essi. Non era interessato a materiali o stili specifici, ma alle connessioni fondamentali tra sistemi fisici, biologici e sociali. Tra le prime opere esposte allo Schirn figurano il dipinto Ce n’est pas la voie lactée (1960) e i rilievi di Haacke con lamine di specchio realizzati a partire dal 1961.

Quest’ultimo testimoniava già un interesse per le interazioni con lo spettatore, che sarebbero diventate sempre più importanti. Anche la prima opera fotografica di Haacke, Photographic Notes, documenta 2 (1959), ritrae il comportamento dei visitatori negli spazi espositivi. Altre opere, alcune delle quali di natura partecipativa, mostrano processi fisici, come Column with Two Immiscible Liquids (1965) o Large Water Level (1964-65). In mostra anche una serie in cui Haacke ha esplorato i vari stati fisici dell’acqua. Una delle opere simbolo dell’artista è il Large Condensation Cube (1963-67), un cubo di vetro acrilico che racchiude una piccola quantità d’acqua. Haacke ha anche chiamato questi cubi “scatole meteorologiche” e in seguito ha fatto analogie tra il clima meteorologico e quello politico.

Questo collegamento di sistemi diversi è caratteristico del metodo di Haacke. Il passaggio dall’oggetto (o scultura) al processo è evidente anche nella sua pratica artistica. Altri “allestimenti sperimentali” all’interno del museo mostrano il ciclo dell’acqua (Circulation, 1969) attraverso l’evaporazione, la condensazione, la cristallizzazione, la liquefazione, altri movimenti d’aria (Blue Sail, 1964-65) o processi di crescita (Grass Grows, 1969).

L’artista è tornato costantemente su questioni sistemiche ed ecologiche. La sua fotografia Monument to Beach Pollution (1970) è una delle prime opere d’arte ecologiche. Con il Trittico delle acque di scarico di Krefeld (1972) e l’Impianto di depurazione delle acque del Reno (1972), Haacke ha commentato in modo diretto e incisivo l’inquinamento del fiume Reno. Anche i suoi “sistemi in tempo reale” sono una caratteristica distintiva della sua opera. L’azione Chickens Hatching (1969) vede schiudersi pulcini in L’azione Chickens Hatching (1969) vede schiudersi pulcini in tempo reale nello spazio espositivo, dimostrando i processi di nascita e crescita in una struttura scatolare minimalista. Ant Co-op (1969) documenta la regolarità delle gallerie scavate dalle formiche come sistema biologico e sociale. Il ritratto d’artista documentario Hans Haacke: Self-Portrait of a German Artist in New York (1969) offre approfondimenti sui suoi metodi artistici e mostra anche molte delle prime opere processuali in azione.

Una delle aree di interesse della mostra è l’approccio sociologico e politico che alla fine è diventato la sua firma. A partire dal 1969, Haacke ha iniziato ad analizzare e visualizzare i sistemi sociali al fine di suscitare dibattiti sociopolitici nel contesto artistico. Questa forma di arte concettuale è fondamentalmente una presa di coscienza delle condizioni sociali, economiche e istituzionali in cui l’arte viene prodotta, esposta, venduta e ricevuta. Nel 1971, Shapolsky et al. Manhattan Real Estate Holdings, a Real-Time Social System, as of May 1, 1971 ha scatenato uno scandalo politico-culturale e proteste artistiche contro la censura. Utilizzando fotografie, tabelle e planimetrie di 142 proprietà nel Lower East Side e nel quartiere di Harlem a Manhattan, Haacke ha esposto la dubbia concentrazione di proprietà immobiliari e le relative pratiche del gruppo Shapolsky.

Quest’opera portò il direttore del Guggenheim Museum, Thomas Messer, a cancellare la mostra personale di Haacke poco prima della sua inaugurazione. Anche Manet-PROJEKT ’74 (1974), presentato da Haacke per la mostra di anniversario del Wallraf Richartz Museum di Colonia, ha provocato un altro atto di censura istituzionale. Haacke propose di esporre il Grappolo di asparagi (1880) di Édouard Manet, proveniente dalla collezione del museo, insieme ai risultati delle sue ricerche sulla provenienza dell’opera. I pannelli informativi contengono dettagliate informazioni personali, biografiche, professionali e finanziarie sui precedenti proprietari, nonché informazioni sul loro coinvolgimento nel nazionalsocialismo. La Schirn presenta anche altre due opere che esaminano criticamente gli intrecci tra mecenatismo artistico e attività economica: Der Pralinenmeister (Il maestro del cioccolato) (1981), sulle connessioni tra le decisioni culturali e fiscali dell’influente collezionista e produttore di Colonia Peter Ludwig, e Buhrlesque (1985) sul collezionista d’arte, mecenate e produttore di armi svizzero Dr. Dietrich Bührle.

La mostra presenta anche opere partecipative, come l’installazione MoMA Poll (1970) in cui Haacke ha posto ai visitatori del Museum of Modern Art di New York domande sulle loro convinzioni politiche. Durante la mostra alla Schirn sarà condotto anche un nuovo sondaggio tra i visitatori. In Photoelectric Viewer-Controlled Coordinate System (1968), i movimenti dei visitatori attraverso la stanza attivano proiettori a infrarossi e sensori fotoelettrici che attivano in modo diverso ventotto lampadine.

In numerose opere Haacke ha sostenuto i processi democratici, l’attivazione dell’opinione pubblica e un approccio antifascista pluralista. Alcuni dei suoi progetti riguardano la rappresentazione dei media: News (1969) trasporta il ticker di un’agenzia di stampa nello spazio espositivo; nello Schirn vengono trasmessi i servizi di alcuni media di Francoforte, come la Frankfurter Allgemeine Zeitung, la Frankfurter Rundschau e Hessenschau.de. Photo Opportunity (After the Storm / Walker Evans) (1992) offre una prospettiva comparativa sul reportage fotografico. La Schirn presenta anche il lavoro di Haacke sulla critica del potere per Documenta 7. L’installazione Oil Painting: Homage to Marcel Broodthaers (1982) consiste in un ritratto dell’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan realizzato dallo stesso Haacke, esposto di fronte a una fotografia di grande formato di una grande manifestazione di oppositori alla sua politica e allo spiegamento di armi nucleari. Anche l’impegno di lunga data di Haacke nei confronti della politica della storia e del post-nazismo è presente nella mostra. Nel 1993 ha rappresentato il Padiglione tedesco alla Biennale di Venezia, per il quale ha ricevuto il Leone d’oro insieme a Nam June Paik.

Il suo sensazionale contributo GERMANIA presenta un campo di detriti di lastre di marmo all’interno della sala, che era stata ristrutturata nel 1939 sotto il nazionalsocialismo. Haacke ha sviluppato l’opera di grandi dimensioni DER BEVÖLKERUNG (TO THE POPULATION) (2000) come installazione permanente per uno dei due cortili interni dell’edificio del Reichstag tedesco a Berlino. La decisione di affidare l’incarico ad Haacke è stata oggetto di intensi dibattiti pubblici nel Bundestag. Le lettere illuminate installate sul pavimento si riferiscono all’iscrizione “DEM DEUTSCHEN VOLKE” (Al popolo tedesco) sul frontone dell’edificio del Reichstag. Ogni membro del Bundestag è stato invitato a contribuire con 50 chilogrammi di terra del proprio collegio elettorale; i semi inseriti nel terreno sono cresciuti in una varietà di vegetazione vivente, che oggi incornicia le lettere. Il progetto di poster di Haacke We (All) Are the People, creato per documenta 14 (2017) a Kassel e Atene e da allora esposto più volte, può essere letto come una reazione all’aumento del sentimento anti-migranti degli ultimi decenni. L’opera, basata su manifesti testuali, ripete lo slogan omonimo nelle dodici lingue diverse dei principali gruppi di migranti in ogni Paese.

(dal comunicato stampa)

Hans Haacke. Retrospective, Schirn, 08.11 – 05.02.2024
La mostra “Hans Haacke: Retrospettiva” è finanziata dalla Kulturstiftung des Bundes (Fondazione culturale federale tedesca). Finanziata dalla Beauftragte der Bundesregierung für Kultur und Medien (Commissario del governo federale per la cultura e i media). Con il sostegno aggiuntivo di fiber to the people GmbH.

immagini: (cover 1) Hans Haacke: Retrospective, exhibition view, © Schirn Kunsthalle Frankfurt 2024, Photo: Norbert Miguletz (2) Hans Haacke: Retrospective, exhibition view, © Schirn Kunsthalle Frankfurt 2024 (3) Hans Haacke, Large Condensation Cube, 1963–67, Acrylic glass, distilled water, 76.2 x 76.2 x 76.2 cm, MACBA Collection, MACBA Foundation, Gift of National Comitee and Board of Trustees Whitney Museum of American Art, © Hans Haacke / VG Bild-Kunst, Bonn 2024, Photo: Hans Haacke (4) Hans Haacke, News, 1969, Teletype machine, paper, wire service, variable dimensions, Edition 2/3, Courtesy the artist and Paula Cooper Gallery, New York, © Hans Haacke / VG Bild-Kunst, Bonn 2024, Photo: Ellen Wilson (5-6) Hans Haacke: Retrospective, exhibition view, © Schirn Kunsthalle Frankfurt 2024, Photo: Norbert Miguletz

 

 

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Angelo Trimarco (1941 – 2024)

10 décembre 2024 à 15:54

Nel segno di Baudelaire il primo incontro con Angelo Trimarco, nelle aule dell’Università di Salerno, incantato dalla voce morbida e dalla grazia che nutriva il movimento delle mani che disegnavano nell’aria le traiettorie del pensiero ed aprivano nel nome luminoso del poeta alle latitudini del moderno. Anzi no, forse ho intercettato la profondità e la dolcezza del suo sguardo ancora prima, nelle stanze accoglienti della Galleria Paola Verrengia, lui che con asciutta eleganza, raccontava in modo impareggiabile l’incontro con l’arte sociale di Joseph Beuys, epicentro della sua cangiante Napoli ad arte 1985-2000 (1999). Poco importa, forse se, come ha scritto Roland Barthes, «non si riesce mai a parlare di ciò che si ama».

La sequenza di fermo-immagine prodotta dall’emozione per la scomparsa di Trimarco è innanzitutto l’indice di una riflessione limpidissima condotta con lucidità critica e passione civile nel territorio dell’arte, Dentro e fuori (1980) le istituzioni, come recita il titolo di un volume di Filiberto Menna, suo amatissimo maestro. Un intellettuale generoso che faceva dell’amicizia un dono prezioso ed uno studioso che sin dalla fine degli anni Sessanta – Trimarco nel 1971 aveva assunto l’incarico dell’insegnamento di Storia della Critica d’Arte nell’ateneo salernitano, dal 2012 era docente emerito – ha intrecciato con rara intelligenza e calibrata misura riflessione teorica e pratica critica, guardando tra i primi in Italia all’orizzonte surrealista, di cui La poetica di Breton (1969) e l’introduzione alla Filosofia del Surrealismo di Alquiè (1970) sono prove flagranti, ed insieme interrogando il presente dell’arte, come testimonia la mostra-saggio Ricognizione Cinque (1968) che con taglio generazionale allineava, sondandone le intersezioni, cinque critici e cinque artisti: Achille Bonito Oliva, Agostino Bonalumi – Maurizio Fagiolo, Marcolino Gandini – Germano Celant, Aldo Mondino – Renato Barilli, Gianni Ruffi – Alberto Boatto, Gilberto Zorio. Seguendo i sommovimenti dell’arte e della critica, indagandone in profondità le zone d’ombra, assumendo gli strumenti dell’antropologia – di cui aveva accolto con tempestività la svolta suggerita da Joseph Kosuth, Artist as Anthropologist (1975) – e della psicanalisi lungo l’asse «Freud avec Lacan», della sociologia dell’arte e dell’iconologia in chiave warburghiana (L’iconologia oltre la semiotica?, il titolo dell’intervento tenuto al Convegno di Teoria e pratiche della critica d’arte a Montecatini nel 1978), Trimarco ha costruito un raffinatissimo controdiscorso teorico che ha trovato forma in volumi esemplari per lo spazio italiano degli anni Settanta: L’inconscio dell’opera. Sociologia e psicanalisi dell’arte (1974), Itinerari freudiani. Sulla critica e la storiografia dell’arte (1979).

Dopo la «vertigine del teorico» che solcava gli anni Settanta, aveva saputo all’avvio degli anni Ottanta registrare e diagnosticare, come un acutissimo sismografo, la graduale erosione delle funzioni della critica e «lo sfiorire della teoria», in un libro decisivo La parabola del teorico (1982) [ripubblicato nel 2014 – con un’introduzione di Stefania Zuliani -, nella collana Critical Grounds di Arshake, diretta da Antonello Tolve e Stefania Zuliani] che, insieme con il volume menniano Critica della critica (1980), costituisce un passaggio ineludibile per comprendere le traiettorie dell’arte e della critica all’incrocio tra moderno e postmoderno.

Stringendo arte e filosofia, architettura e design, poesia e letteratura, continuando a frequentare con intensità il pianeta surrealista e le sue articolazioni (del 1984 è il volume Surrealismo diviso), Trimarco con sguardo poroso – come osservò Gillo Dorfles nell’introduzione di un volume che sin dal titolo è un avvertimento Il presente dell’arte (1992) – è andato «sempre alla ricerca di categorizzazioni del pensiero profondo che sta alla base di ogni creatività».  Una parabola che all’avvio del nuovo millennio ha ripensato il destino dell’arte in un libro indimenticabile, Opera d’arte totale (2001) che annoda l’arte e la vita nello specchio della Gesamtkunstwerk, dove «la vita è una parola che, pur presa nel labirinto di mille significati, continua, comunque, a suggerire uno spazio irriducibile alle forme e un’alterità radicale». In questi stessi anni, con un trittico di saggi intersecanti, Post-storia.

ll sistema dell’arte (2004), Galassia. Avanguardia e postmodernità (2006), Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli (2009), ha offerto una rilettura originale dell’intreccio di postmodernità e globalizzazione, disegnando una cartografia dei percorsi e degli squilibri, delle fratture e delle discontinuità del sistema dell’arte (e della critica) nel tempo della Global Art History. Ed è in questo quadro in continua trasformazione che Trimarco ha indicato nella questione dell’abitare, nell’ospitalità e nell’incontro con l’altro, un luogo prezioso per l’arte e per la critica, un nucleo cruciale che «virando oltre i tratti identitari propri del pensiero della modernità apre all’alterità» (L’arte e l’abitare, 2001).

Si configura lungo quest’asse concettuale l’orizzonte artistico del nuovo secolo, un campo mobile ed inquieto, segnato da una doppia ottica che ha trovato forma e respiro nel volume Italia 1960/Oltre il 2000. Teoria e critica d’arte (2022): ricostruzione «della trama per tagli e intrecci, del lessico e delle forme, delle figure e dei luoghi», di un segmento di critica e teoria dell’arte in Italia ed insieme inesauribile dispositivo di costruzione del nuovo. Così la critica – nel periplo luminoso disegnato da Trimarco in oltre mezzo secolo di riflessione teorica e lavoro sul campo, coniugando ininterrottamente esprit de géométrie ed esprit de finesse – «non è disciplinamento né decifrazione di un mutismo fondamentale, ascolto di una zona finalmente affrancata da ogni positività, ma una costruzione, che non è rivolta a penetrare e a scavare un significato dominante e una completezza, che non ha una meta né un’interezza da raggiungere, perché polisensa e plurale, infinita e interminabile» (Confluenze. Arte e critica di fine secolo, 1990). Ed è in questo movimento di costruzione infinita ed interminabile l’esito del suo illuminante pensiero e di un metodo da continuare incessantemente ad interrogare.

 

 

 

 

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FRAME > Spiral of Time

Par : Arshake
8 décembre 2024 à 18:39

FRAME cattura un fermo immagine del progetto online Spiral of Time del compositore e ricercatore olandese Edwin van der Heide, esplorazione della relazione tra suono, spazio e tempo, in questo caso riferito al paesaggio attorno al museo MACBA di Barcellona. I suoni del circondario, catturati per un minuto ogni ora nell’arco di tre anni sono organizzati in un archivio sonoro da fruire online con la possibilità di diverse letture temporali che ne fanno emergere i diversi patterns.

Edwin van der Heide, Spiral of Time, 2024, MACBA, Barcellona

 

 

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VIDEO POST > Round About Four Dimensions

Par : Arshake
8 décembre 2024 à 18:19

VIDEO POST rilancia la documentazione della scultura Round About Four Dimensions di Julius von Bismark e Benjamin Maus, proiezione di una rotazione quadrimensionale,  un “ipercubo”, un “quadruplo cubo” o un “tesseratto”, spesso citato nelle teorie matematiche e fisiche per illustrare concetti che vanno oltre le tre dimensioni spaziali.

Julius von Bismark e Benjamin Maus, Round About Four Dimensions, 2023
Il progetto è stato commissionato da Arts at CERN per la mostra Exploring the Unknown al CERN Science Gateway, il nuovo centro didattico del CERN.

 

 

 

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Artists Making Books: Pages of Refuge

5 décembre 2024 à 17:35

La mostra Artists Making Books: Pages of Refuge all’American Academy di Roma è un vero e proprio nel mondo del libro d’artista, ambito di produzione e di sperimentazione che ha accompagnato i lavori di moltissimi artisti, dalle avanguardie del primo novecento del XX secolo in poi. Il libro d’artista ha rappresentato uno spazio di libertà, con la possibilità di utilizzare materiali, caratteri tipografici, formati fuori dai canoni tradizionali.

I lavori selezionati in mostra, molte delle opere provenienti dalle collezioni Consolandi e Aldobrandini che hanno collaborato al progetto, questo aspetto lo mettono ben in evidenza. Compresi in mostra sono lavori di artisti impegnati in ogni genere di formato e scala, da pittori, ad artisti concettuali, a film-makers. Ciascun libro è un modo diverso di conquistare uno spazio di libertà e di sperimentazione in una incredibile varietà di approcci.

“Guardando alle relazioni tra le avanguardie e la contemporaneità” leggiamo nel comunicato, “la mostra vuole evidenziare come il libro sia stato, e continui a essere, un oggetto di sperimentazione, un modo per resistere ai vincoli del mercato e creare, in definitiva, uno spazio di libertà in cui rifugiarsi. La selezione esposta traccia una possibile storia di come approcci radicali al libro abbiano portato ad adottare diverse soluzioni grafiche che sovvertono, inventano, rovesciano e celebrano le lettere, le parole, i testi e le forme di una pubblicazione”.

Libri di artisti delle prime avanguardie, come Natalia Goncharova, Tristan Tzara, Fortunato Depero, Marcel Duchamp, a quelli legati alla Pop Art Andy Warhol, Keith Haring, all’arte concettuale, come John Baldessari, avviano un percorso che arriva fino alle produzioni più recenti, alcune esposte nella bellissima cornice della libreria Barbara Goldsmith Rare Book Room, accessibile al pubblico unicamente in questa occasione.

Alcune delle produzioni in mostra appartengono infatti ad artisti che nel corso degli anni sono stati invitati in residenza, come Jenny Holzer, Kara Walker, Irma Boom, William Kentridge, Arturo Herrera. Presenti anche i lavori dei borsisti vincitori del Rome Prize come Eugene Berman (1959), Ana Mendieta (1984), Tony Cokes (2022), Rochelle Feinstein (2017), e Italian Fellows come Nico Vascellari (2008), Luca Vitone (2009), Marco Raparelli (2011) e Rä Di Martino (2018).

Il libro d’artista esce dai canoni tradizionali e diventa territorio prezioso di sperimentazione ed espressione, per le potenzialità dello spazio, della materia, della tipografia, e della possibilità di spingere tutto questo fuori dai propri confini, non in ultimo quelli che chiudono il libro in un involucro prezioso e poco accessibile. Il libro d’artista è un oggetto che i suoi autori hanno abitato, sovvertito, sperimentato, lo hanno reso accessibile. Non ha confini di genere. Basti pensare che la collezione di libri d’artista della Franklin Furnace, fondata da Martha Wilson nel 1976 a New York e poi donata al Museo MoMA nel 1993, era inclusa in una programmazione, per missione, indirizzata a lavori time-based, accanto a performance art e progetti site-specific.

La mostra ‘condensa tempi ed epoche differenti in un percorso che tiene fede al sottotitolo della mostra Pages of Refugee’ , così visualizza molto lucidamente gli obiettivi auspicati e raggiunti della mostra Asia Benedetti nel suo bellissimo e dettagliato articolo pubblicato sulla Rivista “Engramma” (Ottobre 2024). “La pagina”, prosegue Asia Benedetti, ”soprattutto nelle avanguardie storiche, diventa spazio alternativo in cui è possibile liberare la parola dall’egemonia del linguaggio verbale istituzionalizzato e invertire i significati prestabiliti. La sinergia tra testo, immagini, formato e materiale esprime una creatività a tutto tondo che si trasmette dalla copertina alla struttura interna”.

Le copertine, le pagine, le azioni (quelle depositate nel libro inteso come documento) e le collaborazioni, sono i raggruppamenti espositivi e concettuali che articolano, più che suddividere, la mostra che gode di una certa continuità anche nel percorso delle varie stanze che la ospitano.

Il viaggio nel mondo dei libri d’artista si apre con Twentysix Gasoline Stations di Ed Rusha, dono dell’artista all’American Academy nel 2001. Raccolta di immagini di stazioni di servizio appartenenti al paesaggio della Route 66 in California e un formato tutto sommato non troppo anti-convenzionale, questo modello di libro d’artista ha rappresentato un nuovo paradigma del libro: “visivo economico e portatile”, come ben spiega uno dei testi che accompagnano il visitatore in mostra e che ne curano un aspetto non così marginale, quello di accompagnare il visitatore per mano in questo viaggio. D’altro canto, per quanto la produzione di libri d’artista sia stata incredibilmente prolifica durante le prime avanguardie, ha preso piede ed è stata riconosciuta come genere a sé stante alla fine degli anni sessanta, inizio settanta.

Il libro, questo oggetto così piccolo agile e soprattutto accessibile, racconta momenti salienti dei suoi autori, del loro ruolo all’interno del contesto storico-artistico delle loro rispettive epoche.

La mostra ha il dichiarato intento di mettere a fuoco la contaminazione culturale tra Italia e Stati Uniti, in particolare di quella favorita attraverso l’American Academy a Roma. La accuratissima selezione dei lavori, tuttavia, non manca di offrire un panorama d’insieme piuttosto esaustivo attraverso artisti significativi e lavori rappresentativi di momenti chiave nell’ambito di ciascun percorso e del suo posizionamento nelle geografie creative del momento da dove si diramano le direzioni future, forti del privilegio di uno sguardo retrospettivo.

Artists Making Books: Pages of Refuge, a cura di Ilaria Puri Purini, Andrew Heiskell Arts Director e Sebastian Hierl, Drue Heinz Librarian, con Lexi Eberspacher, Programs Associate for the Arts e Johanne Affricot, Curator-at-Large dell’American Academy in Rome, fino al 07.12.2024 (apertura Venerdi – Sabato. 16.00 – 19.00). L’exhibition design è affidato allo studio di architettura Supervoid (Benjamin Gallegos Gabilondo, Marco Provinciali e Anna Livia Friel).
Artisti: Vincenzo Agnetti, Micol Assaël, Josef Albers, Giovanni Anselmo, Stefano Arienti, Fabio Barile, Balthus, Elisabetta Benassi, Eugene Berman (Resident 1957), Irma Blank, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi, Irma Boom (2018), André Breton, Alberto Burri, Alexander Calder, Canemorto, Chiara Camoni, Giuseppe Capogrossi, Maurizio Catellan, Alessandro Cicoria, Francesco Clemente, Tony Cokes (Fellow 2023), Gianluca Concialdi, Matthew Connors (Fellow 2025), Enzo Cucchi, Hanne Darboven, Giorgio de Chirico, Willem De Kooning, Michela De Mattei, Kimmah Dennis (Fellow 2025), Fortunato Depero, Rä Di Martino (Italian Fellow 2018), Marcel Duchamp, Nona Faustine (Fellow 2025), Rochelle Feinstein (Fellow 2018), Leonor Fini, Lucio Fontana, Allen Frame (Fellow 2018), Mario Gooden (Resident 2024), Natalia Goncharova, Keith Haring, Ann Hamilton (Resident 2017), Arturo Herrera (Resident 2024), Jenny Holzer (Resident 2004), ILIAZD, Emilio Isgrò, Isaac Julien (Resident 2016), Vassily Kandinsky, Alex Katz (Resident 1984), On Kawara, Ellsworth Kelly, William Kentridge (Resident 2011, 2016), Kiki Kogelnik, Jannis Kounellis, Maria Lai, Fernand Léger, Sol LeWitt, El Lissitzky, George Maciunas, Jackson Mac Low, Kazimir Malevich, Piero Manzoni, Franz Marc, Filippo Tommaso Marinetti, Henri Matisse, Mel Chin (Resident 2024), Julie Mehretu (Resident 2020), Ana Mendieta (Fellow 1984), Mario Merz, Sabrina Mezzaqui, Joan Mirò, Nelson Morpugo, Bruno Munari, Wangechi Mutu (Resident 2019), Francis Offman, Luigi Ontani, Giuseppe Penone, Gordon Powell (Fellow 1988), Pablo Picasso, Man Ray, Marco Raparelli (Italian Fellow 2011), Aleksandr Rodchenko, Olga Rozanova, Ed Ruscha, Kay Sage, Alberto Savinio, Kurt Schwitters, Dread Scott (Fellow 2024), Dorothea Tanning, Tricia Treacy (Fellow 2018), Richard Tuttle, Cy Twombly, Tristan Tzara, Grazia Varisco, Nico Vascellari (Italian Fellow 2008), Elihu Vedder, Luca Vitone (Italian Fellow 2009), Kara Walker (Resident 2016), Andy Warhol, Laurence Weiner, Francesca Woodman, Xu Bing (Resident 2024), La Monte Young.

Immagini: Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra (2) Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra, Barbara Goldsmith Rare Book Room (3) William Kentridge  , Portage, 2000 , Courtesy Collezione Privata, Ph. Alessandro Lui (4-5)  Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra (6) Artists Making Books: Pages of Refuge, American Academy, Roma, panoramica di mostra, Barbara Goldsmith Rare Book Room, dettaglio

 

 

 

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FRAME > Pluma

Par : Arshake
1 juillet 2024 à 10:48

FRAME cattura Pluma di Giacomo Lepri, installazione sonora che rileva il tatto attraverso le piume e genera suoni attraverso una sintesi audio neurale.

Giacomo Lepri, Pluma, 2024, immagine via
Concept, design & sound: Giacomo Lepri | CNC fabrication: Halldór Úlfarsson | Audio neural synthesis: Victor Shepardson | Sviluppato presso Intelligent Instruments Lab come parte del progetto EU ERC INTENT.

 

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VIDEO POST > What does A.I. think about me?

Par : Arshake
29 juin 2024 à 18:42

VIDEO POST rilancia What Does AI Thinks About Me?, video saggio relativo all’installazione realizzata da mots per indagare comportamento e pregiudizi dell’intelligenza artificiale mentre osserva gli esseri umani. L’installazione è stata recentemente esposta al Sónar+D, piattaforma per la collaborazione, la sperimentazione e l’esplorazione delle ultime tendenze della cultura digitale, collegata al Sonar, uno dei festival più popolari che ogni anno si svolge a Barcellona coinvolgendo vari luoghi della città.

mots, What Does AI Thinks About Me?, video essay related to the installation ‘AI & Me’
 film di mots | Produzione: mots, Zauberberg Productions | Camera: Octavian Mot, Daniela Nedovescu, Imran Latif, Michal Cajzer | L’installazione AI & Me’ è stata presentata al  Sónar+D  nel giugno 2024

 

 

 

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Alfredo Pirri a Città Sant’Angelo

Par : Arshake
28 juin 2024 à 15:07

Dal 21 giugno al 10 agosto 2024, il Museolaboratorio d’Arte Contemporanea di Città Sant’Angelo (Pe) presenta Alfredo Pirri. Luogo Pensiero Luce, progetto realizzato con il sostegno del PAC 2022-2023 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. L’opera site-specific realizzata dall’artista dal titolo “Compagni e Angeli – per Città Sant’Angelo” sarà inaugurata al pubblico venerdì 21 giugno, alle ore 18, entrando a far parte della collezione del museo, e sarà visitabile da giovedì a sabato dalle 17 alle 21, e la domenica su appuntamento dalle 11 alle 14.

Il titolo dell’opera è preso in prestito da alcuni versi del brano musicale del gruppo Radiodervish, La rosa di Turi, dedicato alla prigionia di Antonio Gramsci a Turi, dove scrisse i celebri quaderni dal carcere. Compagni e Angeli – per Città Sant’Angelo fa parte di una serie di lavori che rimandano al tema della prigionia e del desiderio di fuga. L’opera tridimensionale è concepita per essere visitata solo parzialmente dal visitatore e collocata all’interno di una delle stanze del museo come un piccolo ambiente di forma parallelepipeda composto da pareti e superfici specchianti. Le pareti in metacrilato sono colorate dall’artista in fase di produzione e impastate con piume conciate di oche già macellate per l’alimentazione. Con i riflessi di luce naturale proveniente dalle finestre il museo è pervaso da un’illuminazione del tutto nuova.

Compagni e Angeli – per Città Sant’Angelo nasce dallo stretto rapporto di Alfredo Pirri con una lunga storia di trasformazione del Museolaboratorio. Dapprima come Convento delle Clarisse, poi campo d’internamento e manifattura tabacchi, nel 1996 si getta il primo seme per la realizzazione del Museolaboratorio con una mostra dal titolo Nuovo Luogo per L’Arte in cui partecipa, tra gli artisti, Alfredo Pirri. L’opera si ispira alle connessioni con il luogo, il paesaggio da cui si affaccia il museo e la sua storia, come sottolinea il direttore, Enzo De Leonibus: “E tutto entra da questo affaccio, come non pensare allora a questo rapporto con la natura, la luce ed il pensiero. L’opera proposta nel progetto di Alfredo Pirri Compagni e Angeli – per Città Sant’Angelo ha questo tipo di invito e credo che sia una scelta anch’essa conseguente al senso di questo luogo.

(dal comunicato stampa)

immagini: (cover 1) Alfredo Pirri, «Compagni e Angeli – per Città Sant’Angelo», particolare, 2024, courtesy Museolaboratorio, foto Giorgio Benni (2-3) Alfredo Pirri, «Compagni e Angeli – per Città Sant’Angelo», 2024, courtesy Museolaboratorio, foto Giorgio Benni.

Alfredo Pirri. Luogo Pensiero Luce, Museolaboratorio d’Arte Contemporanea di Città Sant’Angelo (Pe), 21.06 – 10.08.2024
Il progetto è sostenuto dal PAC 2022-2023
Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Alfredo Pirri (Cosenza, 1957) vive e lavora a Roma. La sua pratica artistica incontra diverse discipline: la pittura e la scultura, l’architettura e l’installazione. Le sue prime mostre personali risalgono agli anni Ottanta. Nel 1988 espone alla Biennale di Venezia, mentre nel 1999 è tra i protagonisti della collettiva Minimalia: An Italian Vision in 20th Century Art, curata da Achille Bonito Oliva presso il MoMA PS1 di New York. Nel 2023 riceve la Laurea Honoris Causa in Progettazione Architettonica, dall’Università degli Studi di Roma Tre. Collabora spesso con architetti per la realizzazione di progetti multidisciplinari, in cui arte e architettura dialogano in modo armonico. Negli ultimi anni ha partecipato alla realizzazione di grandi opere pubbliche tra cui il restauro di edifici storici come il teatro Kursaal di Bari e il teatro del Maggio Fiorentino di Firenze. Predomina da sempre nel suo lavoro l’attenzione per lo spazio, un interesse che definisce “politico”: inteso come tentativo di mostrare, qualcosa di necessario alla sopravvivenza stessa, una sorta di battaglia a favore dell’esistenza. Ogni sua opera diventa un luogo spaziale, emozionale e temporale, dove l’osservatore ha la possibilità di entrare per immergersi in esperienze cromatiche che lo destabilizzano e lo disorientano: i suoi sono dei veri e propri ambienti di luce.
Il Museolaboratorio nasce nel 1998, per volontà dell’Amministrazione Comunale di Città Sant’Angelo e si trova all’interno del complesso “ex Manifattura Tabacchi” a Città Sant’Angelo, in Abruzzo. Nel 2001, con la nuova direzione dell’artista Enzo De Leonibus, il museo persegue l’intento di mantenere sempre aperto lo spazio preesistente, come laboratorio di sperimentazione e di ricerca, utili a tutte le possibili espressioni dell’arte visiva contemporanea, “Il Museolaboratorio è un luogo di incontro e di lavoro per gli artisti, prima che un luogo espositivo, e desidera creare un importante clima di relazione determinante per la vita e per la progettualità del Museo che diventa così un luogo di riferimento per l’arte contemporanea, una sorta di terra di nessuno necessaria per modulare e realizzare progetti ed ossessioni”. Dal 2002 il Museo ha avviato un’attività continuativa, realizzando così ciò che era stato auspicato sin dalla sua nascita, avvenuta con spirito lungimirante ed un mix di passione culturale e di scelte politiche che sono riuscite, nel corso degli anni, a trasformare questa avventura nel punto di riferimento e nel luogo consolidato in cui si persegue la finalità di tracciare nuovi percorsi, di delineare nuovi orizzonti, di indicare nuove mete, di costruire l’identità del patrimonio culturale ed artistico per il mondo dell’arte contemporanea, specie per gli artisti, gli operatori culturali ed il pubblico privilegiato.

 

 

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Mise en Place. Nordine Sajot

25 juin 2024 à 10:55

La showroom dello studio di architettura Substratum, un piccolo gioiello che si apre su strada nel quartiere romano Monti, ospita i lavori di Nordine Sajot, artista che, nelle forme più diverse, come video, scultura, disegno, depone tutto il suo interesse antropologico.

“Mise en Place” è il quarto progetto quadrimestrale tra arte contemporanea e design ideato dai fondatori dello studio, Giorgia Castellani e Giovanni Tamburro, in collaborazione con Amalia Di Lanno, comunicatrice e consulente artistica. Nello spazio della Galleria il disegno allestitivo ricrea una stanza della casa che entra in dialogo con gli artisti invitati, attraverso il loro lavoro e la serie di incontri ed eventi dedicati al tema concepiti come processo relazionale e di condivisione.

Questa volta protagonista è la cucina, spazio di aggregazione per eccellenza, teatro di gestualità e rituali che sono stati al centro di molti lavori di Sajot e che quindi ben si sono prestati a questa sinergia. Gestualità della tavola come fattore distintivo di uno status, specchio di socialità che oggi prende forma nella ritualità accelerata di informazioni ingerite, ingurgitate, mai metabolizzate.

L’interesse antropologico è messo a fuoco attraverso l’adozione di forme diverse ma anche di diversi approcci creativi che sottendono un lavoro molto profondo sulla percezione. La sottrazione di alcuni particolari da una serie di fotografie che ritraggono gestualità tipiche della tavola (i.e. braccia con in mano posate o bicchieri) non toglie, anzi rafforza, quella stessa gestualità. La ri-materializzazione di queste parti in sculture ex-voto allestite sul muro, le riporta in vita per costruire un dialogo a sé stante.

Così con questo spazio di architettura di interni così elegante e minimale, le opere-operazioni scultura di Nordine Sajot, fotografie, sculture in ceramica e porcellana smaltata, lasciano tracce dell’uomo e della sua socialità in tutta la sua vitalità.

La ricerca dei materiali è centrale nel design. E l’allestimento della showroom ruota infatti attorno al modello GOLD di Situazione Architettura, monolite nero centrale rivestito di materiale fenix nero ingo, materiale particolarmente innovativo, opaco, morbido al tatto e anti-impronta.

La materia, come il vetro resistente della Duralex, ritratta in una serie di fotografie con un sottile gioco di pieno e vuoto, ha uno spazio di primo piano anche nel lavoro dell’artista. Questo vetro resistente inventato in Francia nel 1945 è associato ad un design di stoviglie e posate che sono parte della memoria collettiva, particolarmente diffuse nelle mense delle scuole.Il rapporto di forma e funzione alla base del design, nei lavori di Sajot è come rovesciato nel tempo, proiettato al passato, piuttosto che al futuro, in un lavoro di ricostruzione, dal gesto al rituale e dal rituale allo stato sociale. Il quadro si ricostituisce attorno al design nel suo momento di stasi, prima di entrare nella vitalità sociale delle case.

“L’artista– come leggiamo nel comunicato, “compone un tableau vivant che aziona differenti appetiti per entrare, riflettere e metabolizzare la profondità sensibile del corpo gestuale. Quella dell’artista è una pratica rituale e performativa di consapevolezza esistenziale della propria presenza, di acquisizione di ‘sapore’ e sapere cosa si è e si vuole”.

MISE EN PLACE. Nordine Sajot, SUBSTRATUM Galleria, Roma, finissage giovedi 27 giugno (dalle 18.30)

immagini (tutte) Nordine Sajot, MISE EN PLACE, SUBSTRATUM, installation view, 2024

 

 

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VIDEO POST > Heaven’s Gate

Par : Arshake
23 juin 2024 à 10:43

VIDEO POST cattura Heaven’s Gate del video artista Marco Brambilla, opera di psidechedelia digitale concepita come meditazione sulla “fabbrica dei sogni” di Hollywood.

Marco Brambilla, Heaven’s Gate, 2021, Video: Lazaro Llanes

 

 

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FRAME > Stolen Fire

Par : Arshake
23 juin 2024 à 10:33

FRAME cattura Stolen Fire, installazione di realtà aumentata di Birkás Mona. Il fuoco, privato della sua funzione, diventa decorazione in un fine gioco di scambio tra materia e rappresentazione. 

Birkás Mona,Stolen Fire, 2024, immagine via 

Birkás Mona

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Cuba introspettiva

Par : Arshake
20 juin 2024 à 09:25

Al Museo nazionale di Matera presso l’Ex Ospedale di San Rocco è in corso la mostra Cuba introspettiva. Esperienze performative di videoarte, ideata e curata da Giacomo Zaza e dell’artista Luis Gómez Armenteros.

Il progetto si muove tra contesti che s’intrecciano e s’incontrano: lo spazio pubblico e quello privato, la strada e l’intimità, la sfera socio-culturale e i percorsi immaginari. Evidenzia l’andamento diversificato delle pratiche artistiche cubane, slegandole da qualsiasi etichettatura. Pone in risalto la produzione di nuovi significati mediante esperienze video performative.

Il percorso espositivo si articola attraverso le esperienze di videoarte di dodici artisti cubani, protagonisti della ricerca contemporanea dentro e fuori l’isola: Juan Carlos Alom, Analía Amaya, María Magdalena Campos-Pons, Javier Castro, Susana Pilar Delahante Matienzo, Luis Gómez Armenteros, Tony Labat, Ernesto Leal, Glenda León, Sandra Ramos, Grethell Rasúa e Lázaro Saavedra.

«L’ampio sguardo rivolto alla ricerca artistica da Cuba, con particolare attenzione ai protagonisti di una sperimentazione visiva tra le più interessanti dell’area caraibica – sottolinea Annamaria Mauro, direttore del Museo nazionale di Matera – conferma l’apertura del Museo al mondo contemporaneo internazionale. Il complesso monumentale dell’Ex Ospedale di San Rocco continua a essere un laboratorio di perlustrazione della creatività odierna, capace di offrire immaginari condivisi ed esperienze provenienti da diversi ambiti culturali».

«Negli artisti in mostra – spiega il curatore Giacomo Zaza – prevale una visione riflessiva, intrisa di tratti ironici e paradossali, scabri e inquieti, come avviene in certa letteratura cubana, da Virgilio Piñera a Pedro Juan Gutiérrez. Una visione accompagnata dall’interiorizzazione e dal vaglio della storia (con le sue derive), nonché uno scenario ricco di attitudini sincretistiche. La pratica video cubana porta con sé una marcata spinta performativa. Gli artisti scelti per Matera si muovono tra valori fondativi dell’esperienza (la solidarietà, la libertà dell’individuo) e la ricerca di una dimensione poetica e di uno spazio sensibile, presso corteggiando il mondo magico».

(dal comunicato stampa)

Cuba Introspettiva. Esperienze performative di videoarte, a cura di Giacomo Zaza e l’artista Luis Gómez Armenteros
Ex Ospedale di San Rocco (Piazza San Giovanni, Matera), 22.03 – 30.06.2024
Artisti:Juan Carlos Alom, Analía Amaya, María Magdalena Campos-Pons, Javier Castro, Susana Pilar Delahante Matienzo, Luis Gómez Armenteros, Tony Labat, Ernesto Leal, Glenda León, Sandra Ramos, Grethell Rasúa and Lázaro Saavedra

immagini: (cover 1) Lazaro Saavedra, «El sindrome de la sospecha», 2004 (2) Sandra Ramos, «Aquarium», 2013 (3) Javier Castro, «El beso de la patria», 2011 (4) Luis Gomez, «Armenteros Coartada Be there», 2012 (5) Juan Carlos, «Alom Habana Solo», 2000

 

 

 

 

 

 

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CYFEST a Venezia

19 juin 2024 à 18:13

CYFEST è una realtà artistica e culturale nomade, viva e in continua espansione, fondata da un gruppo di artisti indipendenti nel 2007. Trova le sue radici nella sperimentazione e nella ricerca artistica, articolata nello sviluppo delle relazioni fra diversi media. I linguaggi legati alle New Media Art ed alle Nuove Tecnologie vengono fusi, ampliati, connessi dando vita a dimensioni percettive nuove.

CYFEST 15 si è svolto a Yerevan, Armenia e Miami, USA; oggi accolto negli spazi del CREA – Cantieri del Contemporaneo di Venezia, fino al 30 agosto 2024.

Il tema intorno al quale si sviluppa il festival è la vulnerabilità, sviscerata nella sua dimensione più profonda, legata all’essere umano e a tutto ciò che lo circonda, abbattendo i confini di specie, tempo e materia. Tale condizione che abita il nostro pianeta viene sviluppata in una chiave emancipatoria, dove attraverso la declinazione in linguaggi artistici differenti e complementari, diventa testamento della nostra più autentica esperienza.

I moderni spazi del CREA ospitano un programma vasto, che si articola in vari formati, comprendendo installazioni, performance e talk. Tra le principali opere figura il progetto multidisciplinare Drop Tracer, che esplora le dinamiche degli agenti non umani e la relazione tra immagini e mondo naturale, realizzato da Tuula Närhinen. Le pelli generate dalla fermentazione da batteri danno vita ad un un’opera di Ann Marie Maes, la quale esplora il potenziale scultoreo dei materiali organici e le interfacce tra umano e non umano, così come tra il microscopico e il macroscopico. Il collettivo Where Dogs Run, pionieri nella sperimentazione e nella ricerca artistica legata alla New Media Art, analizza i concetti dei set di Mandelbrot mediante modelli di maglieria sviluppati in una performance dal vivo.

Mariateresa Sartori, con l’uso della tecnica del frottage, mette in evidenza una geologia sub-urbana, nascosta all’occhio, indagata nei suoi aspetti materici vivi, facendo luce sulla poco conosciuta storia della cava di Rosà, nel vicentino. L’installazione multimediale di Elena Gubanova e Ivan Govorkov analizza e sviluppa il concetto di «densità temporale» elaborato dall’astronomo sovietico Nikolai Kozyrev. La mostra presenta anche i rari monotipi «Re-Pressions» dell’acclamato artista armeno Samvel Baghdasaryan (1956-2017), opere sperimentali di videoarte di Fabrizio Plessi, sculture gonfiabili in tessuto di Irina Korina, e oggetti architettonici e urbanistici realizzati con LED riciclati di Alexandra Dementieva. Inoltre, una nuova installazione di Anna Frants e molte altre opere arricchiscono l’esposizione.

CYFEST 15 – International Media Art Festival, Giudecca, Venezia, 15.04 – 30.08.2024

immagini: (tutte) CYFEST 15 – Vulnerability, Installation View, CREA — One Contemporary Art Space, 2024. Photo Edith Bunimovich

 

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The New Atlas of Digital Art

Par : Arshake
18 juin 2024 à 21:55

Per il quinto anno consecutivo, il MEET Digital Culture Center di Milano riflette sugli scenari della creatività digitale con professionisti e artisti di spicco internazionale. L’obiettivo è quello di mettere in luce il potenziale delle sperimentazioni creative immersive come possibile driver di innovazione culturale, sociale, economica.

Come le realtà parallele create dal digitale possono convivere con le realtà in essere? Oltre le frontiere della Realtà Virtuale, proveremo ad immergerci in un’immersività sempre più diffusa e pervasiva, che crea commistioni sottili tra reale e virtuale: dall’Augmented Reality all’Extended Reality e Mixed Rality, incluse le potenzialità creative dell’Intelligenza Artificiale.

L’Atlas aprirà una serie di riflessioni per inquadrare il tema da tutte le sue sfaccettature e condividere con esperti, professionisti e con il pubblico, opportunità e futuri possibili.

La mappa disegnerà confini e frontiere delle esperienze immersive, i linguaggi e le correnti espressive che stanno disegnando nuovi modi per fare cultura, i luoghi e i protagonisti dell’immersività, i format e le modalità di coinvolgimento del pubblico con incontri  eventi.

The New Atlas of Digital Art | Immersive Realities, MEET Digital Culture Center, Milano, 20-21.06.2024
Consultate qui il sito per il programma aggiornato degli eventi e registratevi (gratuitamente) qui su Evenbrite.

 

 

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SHELTER ISLAND

Par : Arshake
5 juin 2024 à 12:08

SHELTER ISLAND è la mostra che si snoda tra gli spazi della Marina Bastianello Gallery di Mestre e Venezia e quelli istituzionali di M9 – Museo del’900 e del Distretto M9. Il progetto, che prevede la collaborazione intergenerazionale di due artisti – Fernando Garbellotto (Portogruaro, 1955) e Luca Pozzi (Milano, 1983), nasce dall’urgenza di viaggiare nello spazio e nel tempo dei linguaggi ibridando ricerca artistica e scientifica attraverso il format inedito della Meta-Conferenza in un periodo storico particolarmente sensibile ai temi della pace. La Mostra riconnette idealmente il pubblico ad un evento accaduto nel 1947 sull’omonima isola nei pressi di New York che vide riuniti tra i più celebri e visionari fisici teorici dell’epoca – nomi del calibro di Richard Feynman, John Archibald Wheeler, Edward Teller, David Bohm, John von Neumann, Hans Bethe, J. Robert Oppenheimer e Freeman Dyson – per discutere i problemi fondamentali della meccanica quantistica agli albori dell’invenzione della bomba atomica. Il Summit, ricordato dalla storia come il leggendario vertice di Shelter Island per l’appunto, fu il primo dopo la risoluzione della seconda guerra mondiale e diede il via a quell’atteggiamento di condivisione della conoscenza scientifica su cui poggiano ancora i delicati equilibri globali odierni.

In un presente post-pandemico caratterizzato da tensioni geopolitiche di carattere energetico, ideologico, economico e religioso, il progetto prende vita dalla rigenerazione di una rete relazionale incentrata sull’importanza della collaborazione e del dialogo come modus operandi e condizione Sine Qua Non.

Attraverso le opere di Garbellotto e Pozzi si è chiamati a prendere parte attiva al Summit del ‘47 che, tele-trasportato nel 2024 e convertito nella forma e nella sostanza, diventa installazione cross-disciplinare a più voci, tra cui spiccano quelle di Carlo Rovelli, Roger Penrose, Shoini Ghose, Raymond Laflamme, Katie Mack, Hildign Neilson, Savas Dimopoulos, Pedro Vieira e Neil Turok, che, con il loro contributo, ne ri-attualizzano i presupposti in chiave eco-sistemica.

Partendo da queste premesse la Meta-Conferenza avviene su una cometa digitale di 4 Km di diametro, all’interno di una GAME ENGINE in Virtual Reality chiamata “Rosetta Mission 2024”, opera di Luca Pozzi, la quale, accogliendo una PLAYLIST di PODCAST realizzata dal Perimeter Institute di Waterloo in Ontario, la ripropone simultaneamente non solo al pubblico in presenza al Museo del Novecento sotto forma di installazione visiva, ma anche sul Megaschermo digitale della Hybrid Tower di Mestre e sui monitor satellite del Distretto dell’M9, andando a costruire una rete delocalizzata di piattaforme di accesso ai contenuti prodotti per un pubblico più vasto e non specialistico.

Rete che include, nelle sue maglie, le due sedi della Galleria Marina Bastianello dove troviamo invece rispettivamente a Venezia una grande installazione a parete di Fernando Garbellotto, ispirata alle teorie di Benoit Mandelbrot ed incentrata proprio sul concetto di Frattale “La Rete come idea del mondo”, mentre Luca Pozzi occupa la galleria di Mestre con un ambiente interattivo composto da dispositivi magnetici a parete, sculture ingegnerizzate con rivelatori di particelle dell’INFN e una postazione di Realtà Virtuale per accedere ai contenuti della “Rosetta Mission 2024” da remoto.

(dal comunicato stampa)

Shelter Island, Marina Bastianello Gallery (e altre sedi), Venezia Mestre, 22.05.2022 – 24.08.2024

immagini: (cover 1) Luca Pozzi, «Rosetta Mission», 2024, fermo immagine da VR Game Engine in 4K, 2024. Neil Turok / Sulla semplicità della natura, estratto da Conversazioni sul perimetro  (2) Fernando Garbellotto, «Rete Frattale», 2024. (3) Luca Pozzi, «Rosetta Mission 2024» , VR station, tappeto stampato da collage digitale, Oculus Quest, motore di gioco unity. Photo credits: lucapozzi & marinabastianellogallery  (4) Fernando Garbellotto, «Rete Frattale», 2024 (detail).

 

 

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FRAME > Light line

Par : Arshake
4 juin 2024 à 12:32

FRAME cattura Light line di Jenny Holzer per il Guggenheim Museum di New York, installazione che trasforma l’edificio in una serie di scrolling texts dalle sue serie iconiche, come “Truisms” e “Inflammatory Essays”. Il lavoro monumentale è anticamera della retrospettiva che nel museo newyorkese presenta una retrospettiva di suoi lavori dagli anni ’70 ad oggi.

Jenny Holzer: Light Line, Guggenheim Museum, New York,
La mostra è organizzata da Lauren Hinkson, Associate Curator for Collections. Conservazione  dell’installazione realizzata per il Solomon R. Guggenheim Museum è condotta da Lena Stringari, Deputy Director, da Andrew W. Mellon, Chief Conservator, e Agathe Jarczyk, Associate Time-Based Media Conservator.

Jenny Holzer: Light Line

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VIDEO POST > Synchronic

Par : Arshake
30 mai 2024 à 15:57

VIDEO POST rilancia Synchronic, installazione cinetica di Jin Lee, gioco di linee che si muovono sulla base di un piano preciso di velocità e direzione per creare un ‘caos armonioso’ dove i modelli non si influenzano a vicenda.

(…) La convergenza è solo un’illusione e ogni azione è solo l’evidenza dell’individualità.
La combinazione e l’intersezione di queste linee, che non sono causalmente collegate, risuonano e appaiono a seconda della prospettiva (del pubblico). E il significato inizia a nascere dagli eventi visivi collegati per caso
Jin Lee, 2024

Jin Lee, Synchronic, 2024

 

 

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Critical Fashion al Museo MACRO

Par : Arshake
28 mai 2024 à 22:53

Arshake segnala la serie di incontri su arte e moda che si svolgerà dal 5 al 7 giugno presso il MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, a cura di Dobrila Denegri, con ospiti da tutto il mondo tra i più importanti curatori, designer, artisti, accademici e ricercatori nel campo della moda sperimentale.

Si parte da Linda Loppa, una delle voci più influenti nel campo della fashion education, si continua con Iris Ruisch e José Teunissen la cui attività curatoriale si è distinta attraverso l’unica biennale di moda sostenibile e inclusiva, appena inaugurata ad Arnheim. Si arriva a Yuima Nakazato, uno tra i più innovativi fashion designers del momento; per finire con teorici e fashion curators di nuova generazione come Jeppe Ugelvig e Matteo Augello. Questi sono solo alcuni dei nomi di punta di questo palinsesto che riunisce alcune delle voci più interessanti del momento.

Che cos’è la “moda critica”? Come si possono definire le sperimentazioni e le interazioni che mettono assieme moda, arte e altre discipline creative? Spesso sono stati usati diversi aggettivi come moda critica, indisciplinata, anomala; termini come “moda in senso espanso” o “transfashional”, che volevano indicare diverse relazioni concettuali e materiali che collegano la moda con diversi campi di ricerca e conoscenza.

Con questa inedita serie di conversazioni, incontri e conferenze che coinvolgono un eterogeneo gruppo di figure di spicco che, in qualità di curatori, stilisti, artisti, ricercatori o accademici si sono occupati dei fenomeni di “critical fashion”, si vuole aprire un dibattito sul futuro della moda partendo da diverse prospettive. La prima è quella che coinvolge le istituzioni educative che stanno trasformando gli approcci didattici per poter formare i creativi in grado di trasformare l’industria della moda e renderla più inclusiva, sostenibile e soprattutto più incentrata sulla figura del designer.

La seconda è quella che fornisce un approfondimento sulle esperienze curatoriali e artistiche basate sull’intersezione tra il sistema dell’arte e quello della moda.

E infine quella che si interroga sulle possibilità di maggiore interazione tra il mondo accademico, il mondo dell’arte e l’industria della moda per assicurare la maggiore visibilità, articolazione critica e una più ampia affermazione di pratiche creative che si relazionano con la moda e si definiscono “critical fashion”.

Attraverso il titolo Critical fashion: Come insegnarla? Perché comprarla?  questa serie di incontri mira ad affrontare controversie e paradossi legati a una pratica chiamata “moda critica” e al suo rapporto con le logiche di produzione e del consumo della moda. Le pratiche sperimentali, orientate verso la ricerca producono contenuti, significati e indagano le modalità alternative di concepire, creare e produrre moda. Eppure rimangono quasi sempre ai margini o al di fuori del sistema moda. A volte vengono esposti nei musei e nelle gallerie d’arte, a volte in altri ambiti “indipendenti”, e principalmente all’interno di contesti accademici ed educativi, ma non trovano quasi mai sostegno sistemico all’interno del mondo dell’arte. Quelli indipendenti sono comunque precari e i contesti educativi stanno diventando sempre più corporativi, quindi anche in quelle situazioni il sostegno è limitato.

Da dove si può partire per ripensare questi squilibri e dare più enfasi alle pratiche sperimentali, concettuali e capaci di produrre contenuti critici che mirano a dare alla moda una maggiore rilevanza culturale oltre a quella commerciale?
Questi sono i punti di partenza per tre giorni di conversazioni, dibattiti e presentazioni, per la prima volta organizzati a Roma, in un contesto museale, con una numerosa partecipazione di speakers internazionali di alto livello.

(dal comunicato stampa)

CRITICAL FASHION. Come insegnarla? Perché comprarla?, a cura di Dobrila Denegri 5 – 7 giugno 2024, MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma, Auditorium, Via Nizza 138, 00198 Roma (gli incontri si terranno in inglese. Ingresso gratuito)
Il programma è realizzato in collaborazione con il MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma e promosso da Azienda Speciale Palaexpo e Assessorato alla Cultura di Roma Capitale. In collaborazione con il Dipartimento di Studi sulla Moda, Università La Sapienza, Roma, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, Dipartimento di Moda, Roma; Università della California, Santa Cruz e Facoltà di Design, Università di Tecnologia, Bydgoszcz, Polonia. Con il sostegno di: Ministero Federale per le Arti, la Cultura, la Funzione Pubblica e lo Sport della Repubblica d’Austria e il Forum Austriaco di Cultura Roma; Ambasciata del Belgio, Rappresentazione Generale delle Fiandre; Ambasciata e Consolato Generale del Regno dei Paesi Bassi; Ambasciata di Svezia e Swedish Institute; Ambasciata Reale Norvegese a Roma; Accademia di Danimarca a Roma; Accademia Tedesca Roma Villa Massimo; e Istituto Polacco di Roma.

immagine cover: “Excuse My Dust Extended”, 2017, Christina Dörfler in Zusammenarbeit mit Mirjam Papouschek. © Mirjam Papouschek, 2019. Models: Luise Böcker, Lola Fuchs, image via

Programma (gli incontri si svolgono in inglese):
5 – 7 Giugno 2024
15:00 – 15:30 Introduzione di Dobrila Denegri e presentazione del convegno
Auditorium
15:30 – 16:30 Sessione 1: La moda critica: come insegnarla?
Auditorium
  • Linda Loppa, curatrice, opinion leader
  • Clemens Thornquist, Capo del dipartimento, Fashion Design, The Swedish School of Textiles, Università di Borås
  • Moderatore: Dobrila Denegri
17.00 – 18.00 Sessione 2: L’attivismo della moda e le sue piattaforme
Auditorium
  • Iris Ruisch, direttrice della State of Fashion
  • José Teunissen, direttrice dell’AMFI – Amsterdam Fashion Institute dell’Università di Scienze Applicate
  • Moderatore: Dobrila Denegri
18:30 – 19:00 Sessione 3: Presentazione degli interventi espositivi
Foyer
  • Unsettled Matter, Manora Auersperg in collaborazione con Natascha Unkart, Vienna
  • Excuse My Dust Series, Christina Dörfler, Vienna
19:00 – 20:00
Sala Cinema
  • Prima proiezione a Roma del video Duel di Anna-Sophie Berger, Vienna
 6 giugno 2024
12.00 – 13.00 Sessione 4 (solo su invito)Brainstorming e conversazioni sul futuro dell’educazione di moda
Tetto dell’Auditorium
  • Romana Andò, professore associato, “Sociologia della Comunicazione e della Moda” e di “Teoria e Analisi del Pubblico” alla Sapienza Università di Roma
  • Ivana Conte, Direttore, ILA – International Luxury Academy, Roma/Londra
  • Christina Dörfler, docente, Kunst-Mode-Design, Herbststrasse, Scuola Superiore Federale della Moda, Vienna
  • Linda Loppa, curatrice, opinion leader e advisor, Polimoda, Firenze
  • Diego Manfreda, Course Leader del Triennio in Fashion Design del Campus di Roma di NABA, Nuova Accademia di Belle Arti
  • Szymon Owsiański, docente, Dipartimento di Design, Facoltà di Design, Università di Tecnologia, Bydgoszcz
  • Karisia Paponi, docente, Dipartimento Moda, Accademia di Belle Arti, Catanzaro
  • Clemens Thornquist, Capo del dipartimento, Fashion Design, The Swedish School of Textiles, Università di Borås
  • José Teunissen, Director, AMFI – Amsterdam Fashion Institute dell’Università di Scienze Applicate
15:00 – 15:30 Introduzione di Luca Lo Pinto, direttore del MACRO, e presentazione delle mostre e dei programmi legati alla moda allestiti nel Museo
Auditorium
15.30 – 17:00 Sessione 5: Critical fashion e curatela. 1/2
Auditorium
  • Conferenza + Q&A: Matthew Linde, curatore, ricercatore e scrittore
  • Anna Sophie Berger in conversazione con Matthew Linde e Luca Lo Pinto
17:30-19:00 Sessione 5: Critical fashion e curatela. 2/2
Auditorium
  • Conferenza + Q&A: Jeppe Ugelvig, curatore, storico di moda e critico culturale
  • Tenant of Culture in conversazione con Dobrila Denegri e Jeppe Ugelvig
 19:00-19:30 Presentazione del nuovo numero di VISCOSE Magazine
Auditorium
7 giugno 2024
15:00 – 16:00 Sessione online 6: Sostenere la moda sperimentale: perché e come?
Auditorium
Yuima Nakazato, stilista e fondatore del Fashion Frontier Program, Tokyo
in conversazione con Dobrila Denegri, Linda Loppa, Arisa Kamada e Yoshihiro Oshima del programma Fashion Frontiers gestito dall’atelier Yuima Nakazato
16:15 – 17:00 Sessione 7: Nuove piattaforme di ricerca sulla moda
Auditorium
Elise By Olsen, direttrice della Biblioteca Internazionale di Ricerca sulla Moda, Oslo
17.30 – 18.30 Sessione 8: Insegnare la moda sperimentale
Auditorium
Presentazione della pubblicazione Radical Fashion Exercises: A Workbook of Modes and Methods e discussione
  • Laura Gardner, docente School of Fashion and Textiles, RMIT University di Melbourne
  • Daphne Mohajer va Pesaran, docente, School of Fashion and Textiles della RMIT University di Melbourne
  • Capo del dipartimento, Fashion Design, The Swedish School of Textiles, Università di Borås
  • Jeppe Ugelvig, curatore, storico di moda e critico culturale
  • Alessandra Vaccari, professoressa IUAV, Venezia
 19.00 – 20.00 Sessione 9: Come fare la storia: vanità e piacere nella ricerca sulla moda
Auditorium
Performative lecture: Dr. Matteo Augello, teorico della moda

 

 

 

 

 

 

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SeTaccio il Vento

24 mai 2024 à 11:24

A Pescara Agnese Purgatorio porta le parole, in forma sonora quanto segnica: suoni e grafemi di terre lontane che hanno il profumo del vento adriatico.

Da sabato 27 aprile l’opera permanente “Il Vento porta via Velo” è entrata a far parte della collezione di opere site-specific dello Spazio Matta di Pescara, esito della terza delle residenze d’artista curate da Marcella Russo, ideatrice e curatrice della sezione Matta Arte Contemporanea.

Il lavoro che Purgatorio ha presentato a Pescara è fatto di tre momenti- filmico, performativo e installativo- e restituiscono il risultato della residenza “SeTaccio il Vento”. Non è un caso che il nome scelto faccia eco ai versi della poetessa iraniana Forugh Farrokhzad, voce del dissenso femminile che con la sua poesia sfidò la tradizione islamica: da anni la ricerca della Purgatorio è incentrata sulla parola e attenziona gli ultimi.

Setacciare la sabbia e tacere il vento, per portare alla luce qualcosa. Il primo momento della restituzione è un video che intreccia audio e immagini prodotti dall’artista, quasi residui dell’estate adriatica. Ad invocare il silenzio il gesto arpocratico di un bimbo, il cui dito alla bocca allude, forse, al carattere complesso della poesia, che gioca tra parole e silenzi, pause.

I versi e la voce di Forugh Farrokhzad, registrata nel 1963, ritornano nella performance del chitarrista Bob Cillo: note blues su voce e testo di Forough Farrokhazad. E il risultato è una melodia di una voce passata che rivive e racconta dell’urgenza di un cambio di rotta. “Ho detto […]vorrei accelerare la mia fuga dalla tempesta di vento e dalla bufera. […]Ricordo che tutta la mia vita è vento. Sono diventata il pellicano del deserto.”

Il neon a luce verde si accende all’imbrunire dopo le note della chitarra e la melodica voce orientale: l’installazione permanente “Il vento porta via il Velo” è un neon soffiato a mano e scritto in farsi, libera citazione di un verso di Abbas Kiarostami, ispiratore della rivoluzione verde iraniana.

E allora, il collegamento in video durante la presentazione del filmatocon Shady Alizadeh, attivista del movimento “Donna, vita, libertà” è momento per ricordare di “non disabituarci ai diritti di umanità”, diritti generali non categorizzabili.

L’inaugurazione della nuova opera e la restituzione del lavoro della Purgatorio è, infine, occasione di dibattito sulle residenze d’arte: un talk moderato da Miriam Di Francesco che ha visto discutere insieme, oltre alla curatrice Marcella Russo e all’artista Agnese Purgatorio, Andrea Croce, fondatore di Unpae, Giovanni Gaggia, fondatore di Casa Sponge e Lucia Giardino, fondatrice di GuilmiArtProject.

E allora perché nasce una residenza? Per tornare a vivere ma anche a leggere i luoghi natii, spesso periferici, con occhi diversi. Residenze fatte di momenti di negoziazione ma anche di forte sinergia con i territori, perché la residenza d’arte è anche azione politica e azione di mediazione dei linguaggi contemporanei.

A Pescara Agnese Purgatorio porta le parole, in forma sonora quanto segnica: suoni e grafemi di terre lontane che hanno il profumo del vento adriatico.

immagini: (tutte) Agnese Purgatorio, «Il vento porta via il velo», 2024, neon soffiato a mano, Matta Arte Contemporanea

Agnese Purgatorio, Il Vento porta via Velo, 2024
Da sabato 27 aprile l’opera permanente Il Vento porta via Velo è entrata a far parte della collezione di opere site-specific dello Spazio Matta di Pescara, esito della terza delle residenze d’artista curate da Marcella Russo, ideatrice e curatrice della sezione Matta Arte Contemporanea.
Lo Spazio Matta, centro per le arti contemporanee, nasce nel 2011 come progetto di rigenerazione urbana nell’area dell’ex Mattatoio di Pescara. Il progetto di residenze di cui è parte la produzione de ll Vento porta via Velo di Agnese Purgatorio è a cura di Marcella Russo. Anima e corpo del progetto è l’associazione culturale Artisti per il Matta, che mette in rete enti culturali, artisti e curatori impegnati da anni nella produzione e nella promozione dello spettacolo dal vivo (danza, teatro, performance, musica) e delle arti visive (video arte, cinema e architettura). Obiettivo e desiderio comune è quello di creare “un distretto artistico” che promuova il valore della cultura come “bene diffuso”. La sfida risiede nel portare “la bellezza in periferia”, ovvero offrire una proposta artistica di qualità che mette al centro “il valore dell’esperienza dello spettatore”. L’approccio scelto, è il lavoro in rete: da un lato vengono inclusi artisti e operatori culturali della città e della Regione nelle attività dello Spazio, dall’altro viene coinvolta la comunità cittadina come fruitore attivo della cultura.

 

 

 

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Spleen alla Fondazione Filiberto e Bianca Menna

23 mai 2024 à 10:29

«La verità è che non possiamo non vivere il nostro tempo. Ma questo non può significare rinuncia a un progetto critico; al contrario, vuol dire prendere posizione dalla parte di chi oggi lavora nella direzione di un approfondimento e di un rinnovamento, di un uso nuovo delle nozioni, appunto, di progetto e di razionalità»[1], con queste parole Filiberto Menna conclude la prefazione della seconda edizione di Profezia di una società estetica (1983). Il volume, edito per la prima volta nel 1968, propone una riflessione fondamentale intorno al rapporto tra arte e società: attraverso un’analisi della società dal Settecento all’epoca contemporanea, Menna afferma la necessità per l’arte di entrare nella realtà quotidiana, di essere dunque uno strumento in grado di «agire dentro (e sulla realtà) e non più come un contemplare un oggetto che sta fuori di noi»[2]. È con queste premesse che l’autore auspica la nascita – «l’immaginazione utopica»[3] – di una “nuova società estetica” contemporanea, capace, attraverso il lavoro dell’artista, di attuare quell’integrazione tra arte e vita che non si è potuta verificare nelle epoche passate. Per Menna un ulteriore motivo di riflessione sul rapporto tra l’artista e la città moderna è dato da Baudelaire e dai suoi Petits poèmes en proseLe spleen de Paris, cui dedica un intero capitolo del libro: «vivere nel presente significava per Baudelaire […] entrar dentro la nuova realtà, prendere atto di una situazione profondamente mutata in cui l’orizzonte dell’esistenza quotidiana non è più dato dalla natura ma dalla città. E allora, se si vive nella città, in mezzo alla folla, non è più possibile conservare un atteggiamento di distacco contemplativo, prendersi una distanza privilegiata nei confronti dell’oggetto della rappresentazione, metterlo in posa, girargli intorno per restituirlo a tutto tondo»[4]. Quello che l’autore francese aveva compreso era appunto la necessità per l’artista moderno di vivere la realtà all’interno di essa, rappresentandone il presente con tutte le sue contraddizioni, in un gioco combinatorio che lo colloca tra l’esperienza della folla e una struttura urbana programmata.

È a partire da questa necessità che si inserisce il progetto Spleen. Tre opere per la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, presentato il 4 maggio negli spazi dell’Ex Casa del Combattente di Salerno, sede della Fondazione. Partendo dalla volontà di riflettere sul ruolo che un’istituzione storica dell’arte contemporanea ha all’interno della città di Salerno[5], i due curatori, Gianpaolo Cacciottolo e Massimo Maiorino, affidano agli artisti invitati il compito di attuare quel rapporto arte-vita auspicato da Menna. Nella volontà di inserire silenziosamente l’opera d’arte nella “struttura programmata” della città, puntando nuovamente l’attenzione su un luogo, la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, troppo spesso trascurato, il progetto si articola in tre installazioni site specific pensate o adattate per gli spazi della Fondazione. La prima, inaugurata il 4 maggio, è di Davide Sgambaro, artista padovano di base a Torino, dal titolo Hey there you, looking for a brighter season (W). Ripensata per lo spazio della torretta della Fondazione, si tratta di un’installazione ambientale luminosa, la seconda della serie, creata per dialogare con l’osservatore attraverso l’immaginario di appartenenza della luce strobo; queste ultime, allacciate a un recorder dmx, sono proiettate a intermittenza e riproducono in loop una traccia luminosa basata sul sistema binario del codice morse. Dedicata alla città di Salerno, simbolo come altre città del Sud Italia dell’inizio della liberazione dal Nazi-Fascismo, il messaggio proiettato recita V V V V (…- / …-  / …- / …-), codice utilizzato da Radio Londra per trasmettere messaggi alla resistenza italiana, mentre la successione delle quattro V segue la metrica delle prime due battute della Sinfonia n. 5 di Beethoven; in seguito all’utilizzo del codice da parte della resistenza, il simbolo W fu utilizzato come simbolo della vittoria. Attraverso quest’intervento, visibile la sera, l’opera entra all’interno della piazza e della città, al cospetto dei passanti che inevitabilmente ne diventano parte integrante, diventando al tempo stesso un faro la cui luce, rivolta verso il mare, rappresenta simbolicamente un punto di riferimento a cui aggrapparsi in un momento storico contrassegnato da grandi derive. La stessa necessità per l’artista, e l’arte, di vivere nel presente e di raccontare la realtà quotidiana, ripensando al tempo stesso il ruolo della Fondazione Menna, è data dagli altri due progetti, Qui mi sento a casa di Marco Strappato e Hikikomori del collettivo damp, che si inaugureranno rispettivamente il 24 maggio e il 14 giugno.

Note
[1] F. Menna, Profezia di una società estetica, Officina Edizioni, Roma 1983, p. 27.
[2] Ibidem, p. 33.
[3] Ibidem, p. 132.
[4] Ibidem, p. 65.
[5] La Fondazione Filiberto e Bianca Menna nasce nel 1989 per volontà della famiglia Menna e dal 1994 è ospitata negli spazi attuali dell’Ex Casa del Combattente.
Spleen. Tre opere per la Fondazione Filiberto e Bianca Menna, a cura di Gianpaolo Cacciottolo e Massimo Maiorino
Fondazione Filiberto e Bianca Menna, Salerno, 04.05-30.06.2024
04.05: Inaugurazione Hey there you,  looking for a brighter season (W) di Davide Sgambaro
24.05: Inaugurazione Here I Feel at Home di Marco Strappato
14.06: Inaugurazione Hikikomori del collettivo damp

 

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MetaPan. Masterclass nel Metaverso

Par : Arshake
20 mai 2024 à 11:22

Tempo fa, il PAN – Palazzo delle Arti a Napoli, aveva annunciato la sua riapertura e indirizzo di programma con la sua struttura complementare nel Metaverso, il Metapan, e attraverso le progettualità di quattro artisti che rappresentano le diverse direzioni progettuali della programmazione futura, Bianco-Valente, Aureia Harvey, Chiara Passa, Quayola. Le installazioni virtuali sono accompagnate ora da una serie di lezioni per un ciclo di Masterclass aperte al pubblico (online) in corso di svolgimento da aprile a luglio 2024 con sei lezioni indirizzate a giovani laureati di diversi atenei italiani e di diversa formazione e con la partecipazione di alcuni tra i più importanti docenti ed esperti di arte e new media di rilievo nazionale ed internazionale – Francesco Spampinato, Professore di Storia dell’arte contemporanea, Università Alma Master Studiorum di Bologna; Andrea Pinotti, Professore di Estetica, Università Statale di Milano; Ruggero Eugeni, Professore di Semiotica dei media, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Elisabetta Modena, Ricercatrice in Storia dell’arte contemporanea, Università di Pavia.

 

Dopo aver incontrato Vincenzo Trione e Maria Grazia Mattei il 30 aprile e Francesco Spampinato il 9 maggio, il 23 maggio, ad incontrare studenti e pubblico saranno gli artisti invitati ad inaugurare lo spazio virtuale con le loro installazioni e approcci creativi, Bianco-Valente, Aureia Harvey, Chiara Passa, Quayola.

23 maggio, 2024. Sala virtuale del MetaPan. Incontro con Bianco-Valente, Aureia Harvey, Chiara Passa, Quayola: Link d’accesso al MetaPan
Prossimi appuntamenti:
4 giugno (17.30-19.00). Incontro con Andrea Pinotti, Università Statale di Milano: Teleimmagini. VR, AE e AI nello spazio pubblico e museale
17 giugno (17.30-19.00). Incontro con Ruggero Eugeni, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano: Breve ma veridica genealogia delle estensioni della realtà 
4 luglio (17.30-19.00) Elisabetta Modena, Università degli Studi di Pavia. Ambienti immersivi. Dal Futurismo alla Virtual Art
Il METAPAN è un progetto digitale – finanziato dalla Città Metropolitana di Napoli e promosso dal Comune di Napoli in partnership con MEET Digital Culture Center, il Centro Internazionale per l’Arte e la Cultura Digitale di Milano, riconosciuto nel 2023 come museo da Regione Lombardia – è curato da Maria Grazia Mattei, Fondatrice e Presidente di MEET e Valentino Catricalà, curatore d’arte contemporanea, con la supervisione tecnica dell’architetto Giuliano Bora, che ha realizzato lo spazio all’interno della piattaforma immersiva tridimensionale Spatial.io. L’iniziativa si inserisce nell’ambito del programma Napoli Contemporanea, curato da Vincenzo Trione, consigliere del Sindaco di Napoli Gaetano Manfredi per l’arte contemporanea e le attività museali.

 

 

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VIDEO POST > Be My Guest!

Par : Arshake
17 mai 2024 à 07:24

VIDEO POST rilancia Be My Guest! di Anna Pompermaier e Cenk Güzelis, un cena in mixed reality con AI, ospite e co-creatore del menù per rievocare antichi rituali nella vita di tutti i giorni, installazione al crocevia tra arte, architettura e ricerca.

Anna Pompermaier e Cenk Güzelis, Be My Guest!, 2023, video documentazione della performance con Realtà Aumentata
Be My Guest! è stato sviluppato come parte della residenza per artisti European Media Art Platform (EMAP)  presso iMAL. Leggi di più

 

 

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Harold Cohen: AARON

16 mai 2024 à 12:54

Con una mostra a cura di Christiane Paul, il Whitney Museum of American Art ripercorre l’evoluzione di AARON, il primo programma di intelligenza artificiale sviluppato nei tardi anni ’60 da Harold Cohen per accompagnarlo creativamente nella sua pratica pittorica, adottato a collaboratore per stimolare conoscenza sperimentazione. I lavori sono attentamente selezionati e tracciano in maniera scientifica i momenti chiave di questo dialogo uomo-macchina. L’approccio curatoriale è cronologico e permette di attraversare il passaggio da analogico a digitale, la transizione da astrazione a figurazione, a metà degli anni ’80, e tutto ciò che questi passaggi ha comportato in termini tecnici e concettuali.

Il Whitney Museum è l’unico museo a possedere nella sua collezione versioni del software AARON che tracciano i diversi periodi di sviluppo di questo progetto e permettono quindi di ritracciare le diverse fasi di evoluzione del software e di questo dialogo cresciuto con una certa gradualità.

Harold Cohen ha stabilito con il software un vero e proprio dialogo. Ha iniziato con il fornirgli regole e conoscenze per quello che riguarda i principi base di colore, forma, composizione e dimensione, fondamenti che appartengono alla sua formazione di pittore. Il loro dialogo è cresciuto, con una certa gradualità. Da un primo ragionamento su disegno e colore attraverso delle regole formulate per vie analogiche avviato negli anni ’60 si è arrivati ai primi anni ’70, quando si presenta l’occasione e il giusto contesto per sviluppare il software AARON alla Stanford University’s Artificial Intelligence Lab.

Da questo momento in poi, percorso è proseguito per fasi, ciascuna un tentativo (sempre riuscito, a volte anche troppo) di spingere oltre i limiti dell’intelligenza artificiale. Ad un certo punto, Cohen si rende conto che la macchina è in grado di fare cose che prima non immaginava possibili. Quando impara a colorare i disegni, prima completati a mano dall’artista, arriva ad un momento di crisi. Non è la mancanza di cose da fare, piuttosto l’arenarsi della collaborazione tra uomo e macchina.  “I felt that my dialogue with the program, the very root of our creativity, had been abruptly terminated”, racconta in una conferenza del 2010 all’ Orcas Center.

Ecco perché centrale nella mostra al Whitney è la macchina riportata in vita per fare entrare i visitatori, anche online in streaming sul sito in alcune ore del giorno, nel processo di esecuzione delle opere. Il software “as a central creative force behind the artwork”. Non solo. In mostra anche tutta una serie di ephemera, come quaderni di appunti e disegni personali che fanno parte del momento di progettazione e di riflessione.

Oltre a celebrare un artista riconosciuto come pioniere dell’arte digitale, la mostra entra nel vivo di questo dialogo uomo-macchina, penetra i meccanismi del processo scandendo le tappe, aiuta a riflettere sul nostro rapporto con le moderne tecnologie di intelligenza artificiale con i programmi più recenti come DALL-E, Midjourney e Stable Diffusion.

“Harold Cohen’s AARON has iconic status in digital art history, but the recent rise of AI artmaking tools has made it even more relevant. Cohen’s software provides us with a different perspective on image making with AI,” dice Christiane Paul, Curator of Digital Art at the Whitney. “What makes AARON so remarkable is that Cohen tried to encode the artistic process and sensibility itself, creating an AI with knowledge of the world that tries to represent it in ever-new freehand line drawings and paintings. Watching AARON’s creations drawn live as they were half a century ago will be a unique experience for viewers.”

In questi ultimi anni, in particolare in coincidenza con la crisi pandemica e lo spostamento di interessi economici e culturali online, alcuni termini come arte digitale sono stati particolarmente inflazionati, confusi con strumenti digitali come i certificati NFts, o con progetti di grafica e design. Questo ha significato oscurare buona parte di quelle sperimentazioni che hanno scritto la storia della ricerca in questi ambiti per più di vent’anni.

Queste operazioni che attraverso le mostre facilitano conoscenza e consapevolezza sono particolarmente importanti. In parallelo al Whitney, si è mossa anche la Galleria londinese Gazelli Art House, proponendo, con la mostra “Refractoring (1966-74)”, una selezione molto accurata di lavori di Cohen che hanno tracciato momenti chiave della transizione tra il 1966 e il 1974, momento nodale del suo lavoro ma anche inizio di diffusione delle tecnologie nella società. Tra i lavori, anche Sentinel esposto alla Biennale di Venezia nel 1966, quando è stato invitato a rappresentare il Padiglione Inglese, momento di grande riconoscimento internazionale che non arresta la sua spinta creativa “that arises when the individual starts to question the unquestioned assumptions of his field and to act out of the scenarios that present themselves as a result”.

Alla riflessione pura sul rapporto uomo-macchina le mostre restituiscono parte di questa storia, la rendono comprensibile avvicinando i visitatori al processo nella sua vitalità. Gli incontri, alcuni disponibili online sul sito del Whitney, i documenti prodotti e il catalogo con contributi dei più importanti studiosi che il 9 maggio è stato presentato alla Gazelli Art House, seguiranno la fine delle mostre. Tutto questo ci fa riflettere anche sulla curatela delle mostre, quando tra gli obiettivi c’è anche  quello di garantire che i contenuti siano resi disponibili e accessibili ai visitatori, rispettivamente nella misura di un museo e di una galleria.

Harold Cohen, AARON, a cura di Christiane Paul, Whitney Museum of American Art, fino al 19 maggio 2024

Immagini: (cover 1-2) panoramica d’installazione di Harold Cohen: AARON, Whitney Museum of American Art, New York, 3 febbraio –19 maggio, 2024 (3) Harold Cohen, AARON KCAT, 2001 (4) panoramica d’installazione di Harold Cohen: AARON, Whitney Museum of American Art, New York, 3 febbraio –19 maggio, 2024 (5) Harold Cohen, AARON Gijon, 2001 (6) Panoramica di installazione di Harold Cohen, Refactoring (1966-74), Gazelli Art House, Londra (8 marzo–11 maggio 2024).  Courtesy Gazelli Art House, Londra.

 

 

 

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Adrian Piper al PAC di Milano

15 mai 2024 à 16:55

Che il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano sia da alcuni anni una delle istituzioni pubbliche italiane più ricettive alle ricerche di artisti attenti ai contesti sociali, nonché alla performance è abbastanza noto tra gli addetti ai lavori: a definire tale identità ha contribuito in maniera cospicua la direzione artistica di Diego Sileo che, con competenza, curiosità e senza disdegnare la provocazione, dedica parte della programmazione a tale medium, attraverso mostre tanto di italiani quanto di figure internazionali, riannodando tragitti che segnano la storia dell’istituzione milanese. Quello che forse è meno evidente a chi non frequenta sistematicamente il PAC è che l’edificio stesso sembra favorire andamenti laterali rispetto alla tradizione delle arti visive, “naturalmente” aperto a esplorazioni che eludono “l’armadio chiuso” del modernismo: la grande vetrata affacciata sui giardini di Villa Reale è membrana osmotica con l’area verde retrostante, la sua continua mutevolezza cromatica e luminosa, la sua piacevole ma invadente presenza. E ugualmente il ballatoio che corre parallelo al vano centrale del piano terra si trasforma agevolmente nel balcone da cui assistere a quanto si svolge in basso. Un ideale loggione, tropo di una dimensione teatrale celata appena sotto la pelle dello spazio museale.

Dal 19 marzo e fino al 9 giugno, il PAC ospita la prima retrospettiva italiana di Adrian Piper (New York 1948), figura di spicco dell’arte post-concettuale statunitense, particolarmente rappresentativa per il costante impegno su aspetti e questioni legate al razzismo, ma con rare apparizioni italiane, tra cui il tempestivo Parlando a me stessa. L’autobiografia progressiva di un oggetto d’arte, edito in italiano da Marilena Bonomo nel 1975, con la presumibile mediazione di Sol Lewitt; il prestigioso Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2015, quella diretta da Owki Enwezor; la traduzione di Meta-art (1973) per Castelvecchi nel 2017 a cui aggiungere qualche inclusione di lavori in rassegne collettive. Sebbene la dimensione performativa a cui si è accennato in apertura, questa volta sia affidata solo alla documentazione fotografica e audiovisiva con cui si da conto di numerosi interventi di Piper, in particolare della splendida Funk Lessons (1983-85) tramite il film di Sam Samore, lo stile del curatore è ben riconoscibile. Infatti, tranne pochi lavori giovanili, tutto guarda al mondo, oltre i convenzionali problemi del visuale.

Il visitatore è accolto da un brusio di voci che provengono da installazioni sonore e video che punteggiano il percorso espositivo: una dimensione corale messa in evidenza sin dalle prime opere, con Negative Self-Portrait (1966), lavoro figurativo su carta, firmato “Adrienne”, subito prima quindi dell’adozione del più neutro – ma con sfumature maschili – Adrian. L’artista si presenta quindi con una identità multipla e sfaccettata: sebbene ricorra sovente alla propria immagine disegnata, fotografata, ripresa in video, i suoi connotati restano volutamente sfocati tanto rispetto all’appartenenza a un gruppo etnico definito – come avverte la definizione che campeggia su materiali promozionali dell’esposizione, Race Traitor – quanto dal punto di vista del genere. Se questo secondo aspetto è mobilitato solo indirettamente in The Mythic Being (1973-1980), Race Traitor è il titolo di un lavoro del 2018  in cui l’artista rielabora la riflessione sulla propria identità formulata quarant’anni prima, con i Political Self-Portraits (1978-1980), giocati sull’associazione tra la riproduzione della fotografia del passaporto – per antonomasia lo strumento di identificazione burocratica del cittadino – e una serie di eventi biografici in cui Piper ha preso coscienza del gruppo razziale a cui apparteneva o al quale gli altri ritenevano appartenesse. Il titolo della mostra, quindi, allude anche all’esperienza del passing, tematizzata dall’artista in questi e altri interventi, rievocandone le ambiguità sulla scorta sia della tradizione letteraria, sia delle pressioni sociali.

Attraverso approcci spiazzanti, Piper lavora per erodere le linee delle costruzioni sociali che dividono le persone in gruppi razziali: dalla riproposizione dei cliché al loro ribaltamento, fino all’esplorazione di situazioni in cui i presenti – visitatori inclusi – sono disorientati. In tal senso si muove la celebre installazione Cornered (1988) in cui il pubblico del museo diventa anche il destinatario del monologo della professoressa Adrian Piper[1], trasmesso da un televisore installato tra due certificati di nascita in cui un medesimo individuo viene definito “octoroon” nel 1953 e “white” nel 1965.

Nel video, infatti, Piper spiega – rivolgendosi direttamente al visitatore in sala – proprio l’impossibilità teorica di definirsi bianco o nero nella società statunitense, dove i contatti tra i due gruppi sono antichi e ramificati. La sensazione di essere parte in causa, parte del problema, di essere tra gli interlocutori dell’artista non ci abbandona mai: dal reiterato impiego del pronome “you” nei titoli, fino all’adozione dell’indagine sociologica che nella serie Close to Home (1987) fa emergere – potenzialmente nelle biografie di ciascuno – omissioni circa il proprio inconfessato razzismo; dalle luci che alternativamente si accendono e si spengono in Black Box /White Box (1992) trasformando l’osservatore in osservato al ricorso agli specchi in Das Ding-an-sich bin ich (2018).

Pur rinunciando alla narrazione lineare con l’intento di calare il pubblico nel bel mezzo delle prove di un coro, in cui le voci si alternano e si sovrappongono, la mostra dipana una conversazione che copre una carriera lunga quasi sei decadi, puntellata da prestigiosi riconoscimenti, come si deduce dalle collezioni da cui provengono i pezzi in mostra, coerente nel nucleo semantico ma diversificata per medium e stili, dai lavori d’esordio debitori dell’arte concettuale, fino alle recenti animazioni digitali, passando per installazioni, video e variazioni attorno all’impiego della fotografia e della scrittura.

Tra le opere stilisticamente più sorprendenti i Vanilla Nightmares (1986-1989, fig. 6) disegni a carboncino eseguiti sulle pagine del New York Times. Resi celebri dalle riflessioni di Hal Foster in Il ritorno del reale, le opere insistono sulle paure che alimentano il razzismo: con fisionomie esagerate e corpi vistosamente erotizzati, l’artista tratteggia donne e uomini bianchi e neri che visivamente interagiscono con le figure riprodotte nelle pubblicità o fotografate per la cronaca, e in generale entrano in risonanza con le notizie relative al Sudafrica pubblicate dal quotidiano. Ma dal vero si apprezza quanto il tratto, volutamente caricaturale e semplificato, non si sottragga alle atmosfere neoespressioniste di quegli anni, mettendo ancora una volta in comunicazione personale e collettivo, pubblico e privato, e con un approccio intersezionale ante litteram.

[1] Oltre che artista visiva, Piper ha insegnato filosofia teoretica in numerosi atenei statunitensi; dal 2005 vive a Berlino.
Adrian Piper, RACE TRAITOR, PAC- Padiglione Arte Contemporanea, Milano, 19.03 – 09.06.2024

images: (cover1) Adrian Piper, «Das Ding-an-sich bin ich», 2018, photo Nico Covre (2) Adrian Piper, «Race Traitor», 2018, stampa digitale (3) Adrian Piper, «Cornered», 1988 (4) Adrian Piper, «Close to Home», 1987, fotografie, testo, audiotape  (5) ) Adrian Piper, RACE TRAITOR», PAC, Milano, ph Nico Covre – Vulcano Agency (6) Adrian Piper, «Vanilla Nightmares #11», 1986, carboncino su pagina di giornale.

 

 

 

 

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FRAME > THE ORDER OF THINGS

Par : Arshake
13 mai 2024 à 23:20

FRAME cattura Ball Track Venus Italica, opera di Wim Delvoye per rilanciare la mostra “The Order of Things” di cui è parte al Musée D’Art et D’Histoire, riflessione dell’artista sulla relazione con l’arte e con gli oggetti.

Wim Delvoye, Ball Track Venus Italica, 2023 Bronze patiné ; H. 173 cm © Studio Wim Delvoye, immagine via
parte della mostra The Order of Things, Musée D’Art et D’Histoire, Ginevra, 26.01 – 16.06.2024

 

 

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VIDEO POST > Forays into Clamor

Par : Arshake
12 mai 2024 à 09:25

VIDEO POST rilancia la documentazione di Forays into Clamor, installazione generativa di Yoshi Sodeoka curata dalla Generative Gallery nel 2021.

Yoshi Sodeoka, Forays into Clamor, 2021, ph: Andrey Kashurin Denis Zubritsky
Nizhny Novgorod Fair, Russia, 27-29.08. 2021, immagine cover via

 

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The 1st de-Machine Storytelling Contest

Par : Arshake
10 mai 2024 à 11:16

Arshake è lieta di segnalare “The 1st de-Machine Storytelling Contest” di Enrico Bisenzi, lanciato il 19 marzo sul suo blog che, anche, ci piace rilanciare all’attenzione per interesse e originalità de testi e del suo ideatore, fra i primi in Italia ad occuparsi di INCLUSIVE DESIGN e il primo ad aver teorizzato l’esigenza di uno strumento di helpdesk per l’accessibilità del digitale.

Si tratta di “una proposta di scrittura per comunicare senza essere comprensibili dalle AI generative come Chat-GPT o Gemini. Un gesto provocatorio e irriverente che invita alla riflessione su un’evidente speculazione a senso unico che vede gli umani alimentare le ‘intelligenze’ artificiali degradandosi culturalmente e senza ricevere molto in cambio, se non una sensazione di comodità e piacere rispetto ad una serie di incombenze da realizzare; un rapporto, quindi, squisitamente ‘tossico’ e che andrebbe necessariamente riequilibrato (da un punto di vista economico in primis).

Un esperimento portato a buon fine (EVVIVA!) che ha prodotto uno stile di scrittura, grazie ad un codice interpretativo molto semplice e ad una formattazione differenziata, per farsi capire da un interlocutore umano ma non da un’intelligenza artificiale. La messa in relazione concettuale della prima e della seconda riga, una punteggiatura che funziona grosso modo come se fosse un testo unico ma anche a righe alternate (meglio distinguere il racconto da marcatori di paragrafi veri e propri ove la punteggiatura non è distintiva e il codice interpretativo non è esplicitato per favorire lettura e interpretazione da parte di eventuali screen-reader), alcuni concetti volutamente contraddittori fra i due distinti racconti scritti vicini tra loro come nelle due ultime righe, sono altri accorgimenti volutamente realizzati per creare ‘allucinazioni’ algoritmiche.

Continua a leggere qui per saperne di più e per partecipare…

 

 

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Intervista | Giovanni Gaggia

9 mai 2024 à 21:53
L’intervista a Giovanni Gaggia, artista marchigiano multiforme di un’estrema sensibilità tanto ai temi interiori quanto a quelli sociali e politici, è un’intervista peculiare, in cui non c’è spazio per alcuna polemica. Con un artista così chiaramente posizionato nei confronti della realtà, così profondamente impegnato nella costruzione di riflessioni, materiali o immateriali che siano, che trovano senso in qualcosa di molto vicino ai termini di “giustizia” e di “benessere”, non si può perdere l’occasione di capire al meglio il suo agire, così come il suo sentire. Ascoltare Gaggia significa mettere in discussione, spesso, le proprie convinzioni, significa impegnarsi ad aprire se stessi agli altri, vuol dire avere la possibilità di migliorarsi.

Fabio Giagnacovo: Sei un artista estremamente multiforme: nelle tue opere troviamo il disegno, la pittura, la scultura, la fotografia, il video, la performance, ma come possiamo leggere sul tuo statement (in realtà lo si nota facilmente anche solo guardando la serie di lavori che hai prodotto nell’ultimo decennio) prediligi soprattutto il disegno, la performance e il ricamo. C’è un collegamento tra questi 3 media? Qual è il processo che ti porta a scegliere il medium più adatto, nelle tue opere? E infine, siamo sempre portati a pensare, superficialmente, che nel mondo dell’arte il ricamo sia una pratica femminista, nel tuo caso evidentemente non lo è ma spesso si lega similmente, in maniera forte e chiara, ad un senso sociale e politico, cosa significa per te ricamare?

Giovanni Gaggia: Il filo che unisce i 3 linguaggi da te citati, valido per ogni media che decido di usare è il tempo. “Sul filo del tempo” trovo che sia un titolo meraviglioso. Aggiungerei, forse, un sottotitolo: “un viaggio politico”.

Il mio disegno si realizza tramite segni sovrapposti, quasi a ricalcare la tecnica classica della punta secca nell’incisione che fa parte della mia formazione di adolescente. Ora sta lì in un angolo del mio fare: mi attende dal 2011. Il ricamo è per sua natura un processo dilatato nel tempo, la più intima, a volte la più profonda, pratica che consente di avvicinarsi alla meditazione: un mantra. Infine la performance: ha un momento d’azione a volte indefinito e in questo spazio temporale accade qualcosa di unico e irripetibile. La mia intenzione è sempre lasciare allo spettatore un attimo che possa cambiarlo e che si possa portare via. Per questa ragione, negli ultimi anni, ho deciso di posare lo sguardo sulla danza contemporanea. Per me è la più grande forma d’arte, dove la profonda conoscenza del corpo si sposa con un concetto forte per far accadere qualcosa di straordinario.

Ora possiamo passare all’analisi del sottotitolo. Il mio lavoro è sempre profondamente e consapevolmente politico, la pratica ha definito l’uomo che sono e ha tracciato un chiaro ruolo sociale.

La mia ultima personale al Museo Riso di Palermo a cura di Dasirè Maida ha messo il punto sul mio lavoro al fianco dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica e della famiglia di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA scomparso nel 2006. Il titolo Quello che doveva accadere, che portavo con me dal 2015, è mutato in PRATICA POETICA POLITICA. In queste tre parole che iniziano tutte con la medesima lettera, con un rimando chiaro a Pier Paolo Pasolini, si racconta tutto il mio agire di artista e di uomo fino al ricamo, il quale diviene per me un mezzo per raccontare storie, che sia un uomo a farlo è l’ennesimo gesto politico.

Il disegno, le performance cariche di pathos, l’atto personale che diviene metafora e senso di qualcosa che travalica il sé, la tendenza poetica-politica, l’impegno sociale, il ruolo della memoria. Diciamo che se aggiungessimo il miele e il feltro verrebbe facilmente alla mente Joseph Beuys. C’è qualcosa che, in particolare, ti ha colpito e/o ti colpisce dell’artista-sciamano? È corretto, secondo te, pensare che “La rivoluzione siamo noi” o è utopico?

Colpito e affondato.

Oramai è nella mia quotidianità, fa parte in maniera importante della mia formazione, lo sguardo si è rivolto spesso a lui aspirando al suo oro, tentando di raggiungere una qualche consapevolezza spirituale.

Ripeto anche in questa occasione: la mia performance più grande è Casa Sponge. Il mio metaprogetto che vive di una esistenza propria e che grazie ai tanti passaggi, di artisti e non, si è caricato di una energia sua. Tra questi c’è ne è uno che ha reso visibile il concetto politico insito nel gesto di aprire le porte di casa: è Mario Consiglio il quale ha riaperto le finestre cieche del casale con due grandi specchi, in quello superiore dove si riflettono le nuvole c’è scritto YOU ARE A LEGEND. In basso ci siamo NOI. L’installazione è un omaggio a Joseph Beuys, rompe la barriera tra interno ed esterno e cerca l’equilibrio tra uomo, arte e natura. In questo modo si rende definitivamente palese la filosofia progettuale, ispirata al maestro-sciamano.

E’ utopico ma è corretto pensarlo. Quotidianamente penso a questa frase, è una sorta di faro guida che delinea il mio modo di comportarmi, fin dalle più piccole cose, al di là dell’opera d’arte.

Hai lavorato per anni alla serie di opere Quello che doveva accadere, dedicate alla strage di Ustica, progetto che riflette sul legame tra arte e memoria e sull’importanza della memoria come impegno civico. Indubbiamente, però, un progetto su un fatto in qualche modo irrisolto, ancora fumoso e per niente chiaro, pone anche l’attenzione su quel fatto, lo porta allo scoperto con tutte le sue contraddizioni. In altre parole è l’altra faccia della medaglia del reportage. Cosa può l’arte davanti a questo muro di gomma, come lo definiva Andrea Purgatori? E come nasce un progetto così pesante emotivamente, che riflette in qualche modo la morte di 81 persone, il dolore di 81 famiglie, il silenzio assordante che dura da più di 40 anni, il fatto che non si sia mai fatta giustizia?

82 famiglie, si aggiunge quella di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA che a tutti gli effetti viene considerato l’ottantaduesima vittima. Cito tre passaggi giudiziari dove emerge in maniera chiara la verità. E’ del 1999 l’ordinanza del giudice istruttore Rosario Priore quale scrive che il DC-9 è stato abbattuto: «è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto». Nel 2012 invece, la corte d’appello di Roma condanna, per omessa attività di controllo e sorveglianza, i Ministeri della difesa e dei trasporti. Secondo i giudici civili lo Stato è responsabile di «omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica». Infine il 2020, quando un’ennesima sentenza conferma le conclusioni di Priore: l’aereo è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra e condanna in via definitiva i due dicasteri al risarcimento di ITAVIA per 330 milioni di euro.

L’arte è l’elemento scelto dall’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, per fare sì che le luci su questa storia non si spengano mai. Si affianca alla giustizia, pungola la politica, sensibilizza il civile, la storia si mantiene viva. E’ la medesima azione compiuta dalle 81 luci sospese sopra la carcassa dell’aereo nella straordinaria installazione di Christian Boltanski per il Museo per la memoria di Ustica a Bologna. La vidi nel 2010 e quell’accadimento mi entrò dentro, iniziai a disegnare, lo feci per mesi. Riprodussi a matita alcuni oggetti che emersero dal mare di Ustica, la linea si muoveva intorno a tracce ematiche. Nacquero prima 7 tavole, le mostrai a Daria Bonfietti, Presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica. Tra le sue prime parole “Quello che doveva accadere”, questa frase mi spinse a continuare a raccontare questa tragica vicenda ed iniziare a studiare l’importanza dell’arte nella memoria. Talk, tre personali sul tema, due opere musealizzate, una pubblicazione edita da NFC edizioni, un libro d’artista pensato per una larga diffusione con circa 60 contributi, un’inchiesta nata sulle pagine di Artribune quarant’anni dopo l’accadimento. “[…] Analizziamo i termini Tempo e Giustizia in relazione a questa tragica vicenda, inoltre, se lo è stato, che valore ha l’aver affidato la memoria all’arte?”. Quel silenzio che descrivi ha generato voci forti e alcune costanti, come la mia.

Nel 2008 fondi Casa Sponge, nei pressi di Pergola, “prima di tutto artist-run space e residenza d’artista” si legge sul sito, ma anche molto altro: è laboratorio, è casa, tua e di chi ci vive per qualche giorno, prendendo qualcosa da essa e lasciando qualcos’altro, in termini sia materiali che immateriali, è cascina ottocentesca nella natura marchigiana pervasa dall’arte, è spazio meditativo ed interiore ma anche luogo comunitario scevro da sovrastrutture, è spazio artistico e culturale ai margini del circuito artistico e culturale eppure così vivo e rilevante, è una scelta coraggiosa. Cosa significa Casa Sponge per te, in termini interiori, da artista che l’hai fondata? E come, questo spazio fisico e sensoriale, si relazione al sempre più imperante spazio digitale della società contemporanea, (che certamente tu non neghi)? In qualche modo queste due realtà simultanee vanno in contrasto o in esse c’è una comunione d’intenti?

La mia vita si caratterizza per scelte nette. Facile è ricostruirla attraverso scelte folli, non convenzionali, sempre con una visione, inizialmente più sfumata, ora definita nei minimi dettagli.

Casa Sponge non è altro che il luogo dove i miei bisnonni si sono riscattati da mezzadri a contadini possidenti. E’ una terra che mi ha visto crescere, è un fazzoletto della collina di Mezzanotte. Il minuscolo borgo dà il nome alla zona, due castagne dalle fronde grandissime non fanno filtrare la luce. La mia casa sta nella parte più alta del poggio, qui la luce passa, e come se passa. E’ un luogo che non mi ha mai lasciato andare, pur tentando di scappare. Qui c’era qualcosa da trasformare e qualcosa da risolvere. Non era possibile farlo da solo, così la porta si è aperta in un gesto nel contempo dalla duplice lettura, una richiesta di aiuto e politica. Da solo non ce la potevo fare e accogliere si fa filosofia. Ad oggi ritengo che sia la mia opera d’arte più riuscita, segue il filo della mia esistenza. Ora ci attende, per me e la casa, un’altra tappa. La vedo in lontananza, ma non posso ancora rivelare ciò che ci attende.

Se non ci fosse il digitale Casa Sponge sarebbe un eremo, le “nuove” tecnologie sono fondamentali, mi concedono il lusso di lavorare da qui, mi permettono di mettere in atto la “restanza”. I social ad esempio sono stati fondamentali per far conoscere maggiormente Casa Sponge. Ricordo l’intervento di un influencer che decise di aiutarci a promuovere il progetto durante il lockdown, il ritorno è stato importante. C’è una comunione di intenti, il digitale è stato un facilitatore, mi ha aiutato a seguire la mia vocazione permettendomi di poterlo fare da un luogo decisamente decentrato. Il contrasto appare evidente, bisogna fare attenzione a non guardare le stelle ascoltando i messaggi vocali di WhatsApp.

Ti dedichi di frequente a laboratori didattici, spesso con bambini e ragazzi in un ambito scolastico. Non è frequente trovare un artista che dedica così tanto tempo alla formazione dei più giovani. In che modo credi che l’arte contemporanea possa arricchire queste giovani menti? E, più in generale, perché lo fai? Credi “semplicemente” che sia giusto farlo o c’è una pulsione più profonda nel veicolare certi temi poetico-sociali?

E’ un po’ come nella casa, si tratta di trasformare la vita in una performance che non termina mai. In questo tempo ci stanno gli altri, mi piace lavorare con tutte le fasce d’età dall’infanzia alla terza. Per me è doveroso farlo, altrimenti mi sembra di mentire, ho la necessità fisica di sapere che posso fare qualche cosa, se è assodato che l’arte non può cambiare il mondo, ma le singole persone si. Daria Bonfietti mi descrive come il cittadino artista.

Immagini (cover – 1) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica», Museo Riso Palermo, ph Michele Alberto Sereni (3) Realizzazione dell’opera di Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica» con la IV H del Liceo Classico Vittorio Emanuele, ph Michele Alberto Sereni (4) Giovanni Gaggia, «Quello che Doveva  Accadere. Pratica Poetica Politica», panoramica di installazione, in primo piano l’opera «Sanguinis Suavitas», Palermo Museo Riso, ph Michele Alberto Sereni (5) Giovanni Gaggia, «Il tempo se ne va», 2021, fermo immagine  da video, MUSMA, Matera (6) Giovanni Gaggia, «Eva Hide, My dad loves me», 2017, maiolica dipinta e mutandina per bambini, dimensioni ambientali (7) Casa Sponge foto Antonio Oleari (8) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra

Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista a Milica Jancovic, Arshake, 04.22.2024
Intervista a Giulio Bensasson, Arshake, 18.02.2024
Intervista a Eva Hide, Arshake, 28.12.2023
Intervista a Federica Di Carlo, Arshake, 16.12.2023
Intervista Giuseppe Pietroniro, Arshake, 07.12.2023
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023

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PARMA 360

Par : Arshake
8 mai 2024 à 11:34

In un’epoca di grande prosperità per le civiltà occidentali, ma al tempo stesso di recente instabilità, l’umanità del futuro dovrà affrontare nuove problematiche legate al cambiamento climatico, al mutamento dell’habitat, alla gestione delle risorse. Yuval Noah Harari, uno dei più grandi intellettuali, filosofi e divulgatori contemporanei, nel suo saggio “HOMO DEUS. Breve storia del futuro” ha preannunciato alcune delle sfide che daranno forma all’umanità XXI secolo, dalla robotica alla biotecnologia, dalla ingegneria genetica all’Intelligenza Artificiale.

Cinque grandi mostre di pittura, scultura, illustrazione, arte digitale e nuovi media sono allestite in dialogo con chiese e palazzi storici della città di Parma, in un percorso diffuso sul territorio che ha come obiettivo quello di valorizzare il patrimonio storico-artistico della città e di proporre al pubblico inedite visioni e prospettive della creatività contemporanea.

Promosso dalle associazioni culturali 360° Creativity Events ed Art Company, PARMA 360 Festival ha ricevuto il patrocinio e il contributo del Comune di Parma, il patrocinio della Regione Emilia-Romagna ed è sostenuto da un’ampia rete di partner pubblici e privati.

Il piano nobile di Palazzo Pigorini, edificio settecentesco affrescato con scene mitologiche da Francesco Scaramuzza, ospita la mostra “Survival” di Piero Gilardi (Torino 1942-2023), in omaggio al Maestro dell’Arte Povera – recentemente scomparso – ecologista ante-litteram e tra gli autori italiani più influenti del secondo dopoguerra a livello internazionale. Il progetto espositivo, a cura di Chiara Canali, racconta il percorso di Gilardi a partire dal suo complesso rapporto con la Natura, soggetto del suo lavoro, e con la Tecnologia, che ne ha condizionato tecniche e modelli di fruizione. Dal 1965 Piero Gilardi inizia a realizzare i “Tappeti-natura” con l’intento di stimolare nella società futura la percezione sensoriale dell’ambiente naturale, riproposto attraverso “dispositivi domestici” artificiali. Opere d’arte che rappresentano in modo realistico e meticoloso sezioni tridimensionali di suolo e paesaggio a grandezza naturale (piante di fico, palmeti, girasoli, cavoli, zucche, pesche…), intagliate nel poliuretano espanso e dipinte con pigmenti sintetici, sino al limite dell’iperrealismo. Sono sculture dipinte che non vanno contemplate passivamente, bensì devono interagire sensorialmente con il corpo del fruitore, per accoglierlo ed essere toccate, udite, percorse, esperienziate.

Il concetto di “interattività” attraversa tutta la mostra ed è accentuato in alcune opere più recenti come “Scoglio bretone” (2001), “Panthoswall” (2003) e “La Tempesta perfetta” (2017) che rientrano nel percorso di ricerca che, a partire dagli anni Ottanta, porta l’artista a utilizzare la tecnologia per consentire allo spettatore di partecipare attivamente interagendo con l’oggetto artistico, al fine di mobilitare una risposta nei confronti della difesa dell’ambiente e della sopravvivenza del Pianeta.

La mostra ci restituisce la figura di Piero Gilardi non solamente quale artista e ricercatore, ma anche nelle vesti di animatore culturale di un “attivismo militante creativo”, a beneficio di una condivisione esperienziale che ha come obiettivo l’impegno sociale e la lotta biopolitica. “In retrospettiva, la precoce consapevolezza di Gilardi per le dinamiche interattive, ma contraddittorie, fra modernità ed ecologia, come istanze preponderanti nelle trasformazioni culturali e quotidiane dell’umanità, si è rivelata molto lungimirante”, ha affermato Hou Hanru in occasione della mostra al MAXXI di Roma.

La mostra riunisce una ventina di opere dell’artista, anche di grandi dimensioni, e si avvale di prestiti da parte della Fondazione Centro Studi Piero Gilardi, della Galleria Giraldi di Livorno, della Galleria Enrico Astuni di Bologna e di collezionisti privati.

Al secondo piano di Palazzo Pigorini si sviluppa la prima sezione della mostra collettiva “L’opera d’arte nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale”, a cura di Chiara Canali, Rebecca Pedrazzi e Davide Sarchioni, la prima mostra collettiva di artisti italiani sulla Intelligenza Artificiale. Il titolo del progetto “L’opera d’arte nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale” si ricollega al famoso saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato nel 1936, in cui il filosofo tedesco sosteneva come, all’inizio del XX secolo, l’invenzione e l’utilizzo di nuove tecniche, quali il cinema e la fotografia, stesse radicalmente cambiando le modalità di produzione e di ricezione artistica. Allo stesso modo, negli ultimi anni, l’Intelligenza Artificiale ha visto una rapida ascesa – Intelligenza Artificiale è stata designata parola dell’anno 2023 dal Collins Dictionary –, e oggi sempre più artisti si sono confrontati e usano questa tecnologia per creare opere d’arte e progetti artistici collaborativi verso nuovi linguaggi estetici. In mostra: video, progetti immersivi, artwork digitali ma anche opere fisiche: dal mosaico all’installazione, dalla scultura alla fotografia – tutte opere frutto della creatività artistica di un pool di 20 artisti che hanno incluso nella loro ricerca e produzione l’uso dell’AI.

La mostra intende indagare diverse modalità di utilizzo dell’IA da parte di una ventina di artisti pionieri del digitale o AI artists di nuova generazione. Temi come la natura, la botanica, l’ambiente, ma anche l’uomo, l’umanità, le comunità, le città, i monumenti, le macchine, i sogni, le mitologie sono plasmati e/o trasformati attraverso l’impiego delle GAN, degli algoritmi e delle AI Generative, tra arte elettronica, glitch art, realtà aumentata, realtà virtuale e altre forme espressive dell’era digitale.

In mostra sono esposte le opere di: Antonio Barbieri, Domenico Barra, Davide Maria Coltro, Andrea Crespi, Giuliana Cunéaz, Debora Hirsch, Nick Landucci, Giuseppe Lo Schiavo, Manuel Macadamia, Vincenzo Marsiglia, Mauro Martino, Angelo Demitri Morandini, Max Papeschi con Michele Ronchetti, Chiara Passa, Giuseppe Ragazzini, Martin Romeo, Svccy.

Il progetto dedicato all’AI si completa con una seconda sezione espositiva, allestita presso il Torrione Visconteo, torre medievale sita in via dei Farnese, di fronte alla Pilotta, che presenta le video-installazioni site-specific ed immersive degli artisti Luca Pozzi, Kamilia Kard e Lino Strangis.

Durante lo svolgimento della mostra sarà presentato il libro-catalogo dedicato al progetto, edito da Jaca Book, che riunisce i saggi dei curatori Chiara Canali, Rebecca Pedrazzi, Davide Sarchioni, un contributo inedito di Piero Gilardi e l’apparato critico e iconografico dedicato ai venti artisti in mostra. L’esposizione avrà il suo twin digitale nel Metaverso su Spatial grazie alla collaborazione con Dario Buratti che ha realizzato un nuovo spazio con architetture futuristiche che accoglieranno le opere degli artisti nella loro versione digital.

Emanuele Giannelli, uno dei più celebri scultori contemporanei, è il protagonista della mostra Humanoid, a cura di Camilla Mineo, alla Chiesa sconsacrata di San Ludovico con quaranta opere di grandi dimensioni e presente in città con l’iconica Mr. Arbitrium, opera monumentale di oltre 5 metri che sorregge la Chiesa di San Francesco del Prato, gioiello gotico della Città di Parma, riaperta dopo 200 anni di storia travagliata, situata a pochi passi dal Duomo e Battistero. Al centro del lavoro dello scultore – diplomato all’Accademia di Carrara e da Roma approdato con il suo laboratorio a Pietrasanta, in Versilia – c’è l’Uomo, indagato nel suo essere contemporaneamente primitivo e futuristico, umano e non umano, in bilico fra uno stato primigenio (l’ironica Monkey Tribù) e un futuro incerto e globalizzato. In mostra è esposta una selezione di opere degli ultimi anni, realizzate prevalentemente in resina e ceramica: gruppi scultorei composti da singole figure o da gruppi di umani che dialogano strettamente fra loro, creando un universo dall’estetica futuristica impregnato di atmosfere filmiche e letterarie. Nei lavori di Giannelli i corpi sono modellati come fossero entità ibride, dotate di protesi tecnologiche: occhiali da saldatore, binocoli e visori (Korf) proiettano l’Uomo in un mondo virtuale che lo allontana dalla realtà, un universo in cui il progresso tecnologico, l’intelligenza artificiale, le nuove tecnologie hanno rivoluzionato e messo in crisi i più fondanti concetti identitari.

Giannelli sembra proiettarci in scenari apocalittici e fantascientifici raccontandoci di un’umanità alienata e omologata, dotata di numeri seriali sul petto: eserciti ieratici e silenziosi, come nell’opera Mr. Kirbiati, o come invece nei Sospesi, sculture in cui l’artista rappresenta lo sforzo fisico del corpo umano che cerca di opporsi alla forza di gravità, figure fluttuanti in una dimensione sospesa, alla ricerca di un equilibrio.

Le opere di Giannelli sorprendono e incuriosiscono e spingono a una riflessione profonda sul momento storico che stiamo vivendo, sul rapporto dell’uomo con la tecnologia, sull’incapacità che abbiamo di comunicare fra di noi in un mondo ultra connesso (Stati di allerta) e sul ruolo che l’essere umano avrà nel futuro del mondo, sulle scelte che compirà per sé stesso e, soprattutto, per il pianeta che lo ospita.

The Space Between presso il Laboratorio aperto del Complesso di San Paolo, vede esposti i lavori di quattro grandi illustratori contemporanei che da tempo hanno affermato il loro nome ed il loro lavoro in ambiti nazionali ed internazionali e che per la prima volta dialogano tra loro. La mostra, a cura di Federico Cano Correa di Galleria Caracol, espone i lavori più recenti di Emiliano Ponzi, Bianca Bagnarelli, Antonio Pronostico e Manfredi Ciminale. In un mondo in cui è sempre più difficile riconoscere la mano dell’umano rispetto ad un’AI, il ruolo dell’illustratore diventa quello di un narratore silenzioso, un artigiano del disegno che ci suggerisce di fermarci e di soffermarci per qualche secondo su di un’immagine, scovarne il senso profondo e farla (in qualche modo) nostra.

Ponzi è uno degli autori italiani contemporanei più affermati a livello internazionale e, lavorando in tecnica digitale, porta avanti uno stile concettuale assolutamente riconoscibile ed unico, dove la prospettiva, il punto di fuga e i colori donano ai soggetti che illustra un dinamismo ed un movimento quasi cinematografico. In mostra sono esposte illustrazioni editoriali realizzate per clienti come The New Yorker, Feltrinelli ed Einaudi, alcune tavole tratte dal libro commissionatogli dal MoMa di New York su Massimo Vignelli “The Great New York Subway Map”.

Bianca Bagnarelli è uno dei grandi talenti emergenti dell’illustrazione e del fumetto italiano. Il suo è uno stile che risente molto dell’influenza del fumetto americano contemporaneo, complice una sua grande abilità compositiva unita ad una sensibilità artistica elevata, Bagnarelli è arrivata in poco tempo ad essere una delle firme più richieste da riviste come The New York Times e The NewYorker per la quale ha recentemente realizzato la famigerata copertina “Deadline”. Antonio Pronostico, autore già di tre libri per Coconino Press, è una delle matite più interessanti ed originali degli ultimi anni. Anche lui divide il suo lavoro tra illustrazione e fumetto e utilizza la tecnica della matita e dell’acrilico, rimanendo fedele ad un approccio più analogico. Infine nel lavoro di Manfredi Ciminale possiamo riconoscere influenze provenienti da diverse epoche storiche e da diversi stili, in mostra ci sarà la sua serie dedicata alle nuvole, che fa parte di un progetto personale che porta avanti da diverso tempo. Ciminale è un artista che pone la questione ambientale al primo posto, emblematica l’immagine esposta che vede l’Empire State Building di New York un istante prima di essere sommerso da un’onda gigante.

L’ottava edizione di PARMA 360 Festival si completa con una serie di talk, incontri e workshop con gli autori protagonisti delle mostre e alcuni relatori, critici d’arte, curatori, giornalisti, operatori culturali in dialogo con loro.

Come ogni anno, il Festival si allarga alla città intera attraverso un CIRCUITO OFF, organizzato grazie al contributo dell’Assessorato alla Rigenerazione Urbana e Attività economiche, per far rivivere in modo nuovo gli spazi della città, promuovere la cultura artistica presente nel territorio e coinvolgere attivamente tutta la cittadinanza attraverso un percorso ramificato nel centro storico di Parma. All’appello sono chiamati una cinquantina di spazi creativi della città, tra negozi, ristoranti, librerie, studi d’artista ed esercizi vari. Quest’anno il CIRCUITO OFF di Parma 360, sbarca in Galleria Polidoro e Galleria Bassa dei Magnani proponendo un’ampia offerta culturale che ha l’obiettivo di rianimare, rivitalizzare e riqualificare lo spazio delle Gallerie attraverso il presidio della zona, il decoro, la cura e la realizzazione di attività artistiche e creative articolate in un ricco calendario di eventi in collaborazione con i commercianti e una rete di partner come il Gruppo Giovani Imprenditori di Ascom e Bia Garden Store.

PARMA 360 Festival della creatività contemporanea, che vede la direzione artistica e la curatela di Chiara Canali, Camilla Mineo e di Silvano Orlandini come Direttore di produzione, è organizzato dalle associazioni 360° Creativity Events ed Art Company, con il contributo del Comune di Parma, il patrocinio della Regione Emilia-Romagna, e un’ampia rete di partner pubblici e privati, tra cui Gruppo Zatti, BPER, Euplip, Studio Livatino, Athena – professionisti e consulenti associati, Fiere di Parma – Cibus 2024, ARA 1965 S.p.A, Termoblok, Colser, Ascom, Villani vini e liquori, Starhotels Du Parc.

(dal comunicato stampa)

PARMA 360 Festival, 06.04 – 19.05.2024, Parma, sedi varie

 

 

 

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VIDEO POST > EXPOSOMES SINGULIERS

Par : Arshake
4 mai 2024 à 09:43

VIDEO POST rilancia Singular Exposomes: Revealing the Invisible di Nicolas Michel, installazione generativa che ruota attorno all’exposome, concetto che misura i fattori non genetici che hanno un impatto sulla salute dell’uomo.

Nicolas Michel (Sound by: Valentin Fayaud), Singular Exposomes: Revealing the Invisible, 2024
Il progetto è stato realizzato a seguito di una residenza artistica organizzata in collaborazione tra Le Cube Garges e il Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica (CNRS) e finanziata dall’Agenzia Nazionale della Ricerca (ANR)

 

EXPOSOMES SINGULIERS // CNRS

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“Travellers” a Venezia

3 mai 2024 à 09:01

Gli spazi dell’Università Internazionale di Venezia all’isola di San Servolo ospitano, fino al 18 maggio e in concomitanza con la 60a Biennale di Venezia, “Travellers” mostra presentata dal MoCA di Shanghai con la direzione di Miriam Sun, in dialogo e in collaborazione con la curatrice italiana Giuliana Benassi. Artisti e opere sono portati assieme come risultato di un confronto tra cultura cinese e italiana. Lo spazio che li ospita è tutt’altro che pura cornice. È, piuttosto, il cuore pulsante di un progetto fortemente voluto da Miriam Sun che questo dialogo lo ha coltivato per anni, gradualmente e in continuo ascolto dell’altro. L’ Università Internazionale di Venezia è infatti un consorzio di 20 università di tutto il mondo, voluta trent’anni fa da Carlo Azeglio Ciampi come centro dedicato allo studio interdisciplinare, taglio di ricerca soprattutto all’epoca particolarmente all’avanguardia.

“L’intera mostra vuole restituire quella “rete simbiotica” dell’oggi, tessuta dagli artisti contemporanei che, seppur provenienti da Cina e Italia, sembrano uniti da un unico filo: quello dell’essere umano al cospetto del mondo”. Questo l’intento dichiarato nel comunicato stampa. In effetti, attraversando la mostra e parlando con la curatrice, la sensazione è che ogni lavoro si costituisca in un tutt’uno organico, in simbiosi anche con lo spazio. Nella costruzione di questo dialogo inter-culturale, le curatrici hanno incluso lavori che si confrontassero anche con il linguaggio tecnologico e il suo progresso nelle scienze evoluzionistiche.

I lavori più tecnologici sono intrisi di umanità. Fu Tong si muove nel contrasto tra forme fisiche immutabili e coscienza fluida (Flowing Bodies) e nel più delicato momento di umanità come quello delle sette sculture che proiettate a parete, stampate in 3D e ingrandite 100 volte riproducono le lacrime per come queste appaiono nelle diverse fasi della vita (When I think of You).

La vitalità è anche nella materia del lavoro di Josè Angelino che nelle sue opere luminose in vetro realizzate con gas argon e neon riproduce le dinamiche fisiche ed estetiche dell’aurora boreale. Lo stesso potremmo dire dell’opera Mosquitos: una serie di bicchieri di vetro all’interno dei quali dei magneti si agitano come mosche catturate, in risposta alle frequenze della risonanza di Schumann, pulsazione caratteristica che la Terra possiede di 7,83 hertz.  Vitali sono i lavori che fronteggiano le opere di Angelino, la serie “The Moonlight” di Yang Yongliang, dove le culture e il loro mescolarsi emergono nel profilo di paesaggi urbani che nascono dalla sovrapposizione di città come New York, Shanghai, Hong Kong, Parigi, Londra e Tokyo, visibili attraverso un perimetro circolare che rende il visitatore spettatore di un sogno.

La serie “Codice” di H. H. Lim, con le sue scritture incise su un gruppo di sculture che “sembrano piombate nello spazio espositivo da un viaggio temporale”, codici e numeri indecifrabili sospendono le coordinate del viaggio si pongono in dialogo con L’eccezione, opera video di Rä di Martino, dove una statua sembra in procinto di animarsi sulle note di una rielaborazione del love theme di Flashdance.

Il confronto va oltre a quello delle due culture, diventa confronto e incontro tra uomo e natura, come nella serie pittorica “Dialogue in Time and Space” “Summer Fireworks” di Shi Chengdong dove l’acqua è “superficie specchiante del mondo e membrana tra due dimensioni”. L’uomo è presente incarnato nel lavoro artigianale della tessitura come nelle opere di Matteo Nasini dove scultura e arazzo intendono proseguire nelle città invisibili di Italo Calvino. L’incontro è anche con la materia non organica di cui si compone la scultura di Gabriele Silli. Le dita verso l’alto della scultura Hands di Oliviero Rainaldi puntano verso la trascendenza, quella della vita e in particolare del viaggio come esistenza.

C’è dell’altro. Dicevamo che il progetto nasce da una forte passione di Miriam Sun nel dialogo tra cultura italiana e cinese, ma è radicato anche in un forte interesse per il confronto tra uomo e progresso tecnologico, a partire da quello in grado di ‘riscrivere’ la vita attraverso la manipolazione del DNA.

La mostra ha presentato infatti in anteprima la serie di “DNA”, ideata da Michael Levitt, premio Nobel per la Chimica 2013, progetto che si concentra sul profondo impatto dell’editing genetico e dell’IA sul futuro dell’umanità. Prodotta da Miriam Sun con un team di scienziati cinesi di cui fanno parte i professori Luo Zhen e Yin Tengfei, l’artista audiovisivo Guo Fei e il compositore Jin Wang, prende forma in installazioni luminose, performance dal vivo e sculture.

La performance di Guo Fei e il compositore Jin Wang, dove dati genetici, intelligenza artificiale e musica interagiscono all’unisono, si contaminano in tempo reale per restituire un altro aspetto importante celebrato da questo progetto di ricerca: l’incontro tra scienza e religione, più frequente di quanto non si possa immaginare.

Ed è proprio la piccola chiesa all’interno dell’Università dove ogni sera dei giorni inaugurali del progetto le composizioni di Jin Wang e le visualizzazioni di Guo Fei, si sono incontrate in un dialogo performativo improvvisato con organi a canne e sintetizzatori modulari. Note e immagini e ambiente risuonano in tutti gli spazi e celebrano la simbiosi dele opere in un unico corpo pulsante.

La ricorrenza del 700° anniversario della scomparsa di Marco Polo, e l’accostamento del tema con quello della Biennale di Venezia 2024 in corso, sono cornice di un progetto che affonda le radici nella spinta di un incontro prima di tutto umano. Il progetto è destinato a viaggiare a New York e in altre città dove costruirà occasioni di dialogo e confronto sempre nuove.

Travellers, a cura di Miriam Sun e Giuliana Benassi
Università Internazionale di Venezia, San Servolo, Venezia, 19.04 – 16.05.2024

 

immagini(cover 1) Qiu Anxiong – Tian Zhi Xiu Yue-邱岸雄 .photo credits MoCA, Shanghai (2) Fu Tong, «When I think of you-付彤 », ph: MoCA, Shanghai (3) H.H. Lim, «Percorso circolare-林辉华», ph: MoCA, Shanghai (4) Guo Fei&Jin Wang, «DNA-郭飞&金望»,ph: MoCA, Shanghai (5) Yang Yongliang, «The Moonlight», ph: MoCA, Shanghai (6) Guo Fei&Jin Wang, «DNA-郭飞&金望»,ph: MoCA, Shanghai

 

 

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