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“The Impossible Present. Caleidoscopio” a Milano

Par : Arshake
23 octobre 2025 à 20:21
Fino al 25 ottobre 2025, BUILDING TERZO PIANO a Milano presenta The Impossible Present. Caleidoscopio, un progetto site-specific di Delphine Valli a cura di Melania Rossi, che raccoglie una serie di opere e fotografie inedite, testi e installazioni, in una molteplicità di linguaggi. L’esposizione si colloca temporalmente a due anni dalla pubblicazione del libro The Impossible Present, edito da Parallelo42 Contemporary Art, in occasione della residenza di ricerca dell’artista a Marrakech, in seguito alla sua vittoria del Grant Italian Council di ricerca nel 2021. Arshake è lieto di pubblicare la conversazione tra Melania Rossi e Delphine Valli che accompagna la mostra.

 Melania Rossi: Questa mostra in BUILDING TERZO PIANO raccoglie opere realizzate nel corso del tempo: prima, durante e dopo la tua residenza artistica a Marrakech, vinta nel 2021 con il progetto The Impossible Present, grazie al bando del Ministero della Cultura Italian Council X. 

Trovo interessante che per l’esposizione tu abbia aggiunto al titolo la parola “caleidoscopio”. In effetti tutti i lavori esposti si sovrappongono e si richiamano in maniera quasi spontanea ma ordinata, come avviene ai ricordi che si accavallano nello spazio siderale della memoria. Tutto si gioca tra materialità e immaterialità, tra cose che si somigliano ad un livello più sottile di quello razionale, tra associazioni che si impongono agli occhi, come intuizioni o presentimenti. Molte delle tue opere ci ricordano che possiamo osservare e sentire in modo diverso anche le strade più battute, proprio come accade nell’attento vagare del viaggio, dove scopriamo il mondo e noi stessi.  Al centro della mostra mi sembra esserci ciò che davvero resta delle esperienze vissute. Essendo tu un’artista – scultrice anche quando lavori in ambito pittorico – forma e colore sono caratteristiche che si imprimono immediatamente nella tua visione e nel tuo ricordo. Per poi sedimentarsi a poco a poco e farsi senso. Mi hai raccontato la tua storia una notte di cinque anni fa, eravamo a Marsiglia per un progetto nell’ambito di Manifesta 13 e tu stavi realizzando un’opera che univa tre luoghi della tua vita: il Maghreb, la Francia e l’Italia. 

Considerando tutti i movimenti emotivi e fisici, tutte le memorie che saranno riaffiorate nel tuo viaggio di ricongiungimento con il Maghreb, lasciato a 16 anni di età e dove non avevi più fatto ritorno fino al 2022: cosa significa per te questa ultima esposizione da BUILDING, sia artisticamente sia personalmente? E che gestazione ha avuto? 

Delphine Valli: Una lunga gestazione, direi. In fondo, da quando il libro The Impossible Present che ha coronato la fine del periodo di ricerca con l’Italian Council è stato pubblicato, l’idea di traslare matericamente e plasticamente l’esperienza vissuta si è imposta. Non ne sentivo l’urgenza, ma la necessità sì. Poi, dall’ottobre 2023, nel momento in cui avrei dovuto proseguire sullo slancio della pubblicazione del libro e del progetto appena concluso, mi è caduta una coltre di asfalto nero addosso e ho provato un intenso senso di scollamento dalla realtà che mi circondava. Mi sembrava di evolvere in un immenso teatro insignificante ma prepotente, dove ogni concetto era svuotato dalla propria sostanza. In quel periodo ho realizzato le tre carte nere presenti in mostra, ricoprendo con inchiostro calcografico nero fumo dei fondi argentati realizzati in precedenza. Per me allora, le scene erano diventate oscene.

Con te, avevamo il desiderio di proseguire il discorso apertosi a Marrakech e nel 2024, BUILDING ci ha offerto questa possibilità, accogliendo la nostra singolare proposta che si è immediatamente sviluppata attorno al libro The Impossible Present edito da Parallelo42, presente in mostra. Nella sua lunga gestazione, il progetto ha trovato la sua forma, sintetizzata nell’immagine del caleidoscopio, in cui gli elementi si rispondono, si ripetono ed evolvono in modo speculare. In confronto a quello della gestazione, il tempo della realizzazione è stato relativamente breve. Mi sono affidata all’intuizione, ogni elemento sembrava imporsi da sé e cercavo di non interferire. Come dici, la memoria funziona più per sovrapposizione che per giustapposizione e intuitivamente, sia nella realizzazione di opere derivanti dal progetto di ricerca svolto a Marrakech che nell’integrazione di opere precedenti, o contemporanee al periodo di ricerca, ho identificato il senso di ognuna alle fondamenta del mio lavoro in qualche modo rivelate dal periodo di ricerca stesso. La loro co-presenza nella mostra intende metterle in luce più che analizzarle, confidando nell’evidenza della filiazione

 

 I primi tuoi lavori che ho visto e che mi hanno spinta ad approfondire la tua ricerca erano due cementine marocchine in parte nascoste da forme geometriche, esposte in una collettiva a Roma diversi anni fa. Stavano lì, graziose ma misteriose, armoniche nel loro strano disequilibrio. In qualche modo esotiche al contesto. Poi ho iniziato a frequentare il tuo studio e, negli anni, vedevo che la forma del pendolo, del triangolo, del trapezio tornavano a popolare le tue opere, lasciando sospettare che fossero frammenti di una geometria più complessa. Come negli intrecci delle zelliges marocchine, le tessere smaltate di mosaico onnipresenti nelle case, nei giardini interni dei riad, negli edifici religiosi e nei palazzi. La tradizione secolare delle arti applicate nel mondo arabo deriva dalla teoria dell’ordine aristotelico, che connette i movimenti delle sfere celesti alle minime scosse delle forme. Non potendo rappresentare la figura divina, invisibile per natura, l’arte tradizionale islamica ha interiorizzato il dato spirituale. Ecco che un’immagine apparentemente semplice, decorativa, sottende un pensiero estremamente complesso. 

Cito a memoria dal tuo testo Orientarsi: la realtà sfugge ai nostri sensi. Oggi la fisica quantistica ha dimostrato che le cose non sono come appaiono, una verità intuita dalle filosofie orientali secoli fa. C’era in te consapevolezza di una possibile influenza delle arti applicate islamiche nella tua pratica artistica? In che modo la cultura visiva in cui sei stata immersa durante la tua infanzia potrebbe essere entrata nella tua ricerca? 

 Ho vissuto i primi 16 anni della mia vita immersa nella cultura islamica mentre frequentavo la scuola francese ad Algeri. Ho allora viaggiato molto in Algeria, in Marocco e in Tunisia. Sono cresciuta tra due sponde del Mediterraneo. Prima di tornare nel Maghreb nel 2022, non ero affatto consapevole di una sua possibile influenza sulla mia pratica. Nelle mie prime deambulazioni nella medina di Marrakech, sono stata particolarmente colpita dall’architettura islamica, dal suo rapporto allo spazio, interno ed esterno, alla luce ma ancora alle geometrie che la pervadono. Mi sentivo a casa. Era un’esperienza vissuta con tutto il corpo, una memoria sepolta perché non sollecitata riaffiorava. I diagrammi analitici geometrici sono stati concepiti da matematici e astronomi attorno ai IX e X secolo mentre l’arte islamica emerge nel VII secolo, in concomitanza con l’Islam e si diffonde rapidamente, dalla Spagna all’India. È una sua straordinaria peculiarità essere stata assimilata da così tanti tessuti etnici. 

Non ero stata consapevole della sua influenza ma ho realizzato a Marrakech che non avevo visto ciò che avevo interiorizzato: la cultura islamica aveva plasmato la mia sensibilità e in particolare il mio approccio allo spazio e al dato spirituale, anch’esso interiorizzato da essa stessa. Nella mia pratica, ho sempre privilegiato l’intuizione e il linguaggio che si è imposto a me è stato insistentemente astratto sin dall’inizio. Immagino che in modo capillare, quello che ha modellato il mio approccio al mondo si sia rivelato successivamente nella mia pratica artistica. Ho la sensazione che questo viaggio di ricongiungimento con il Maghreb mi abbia permesso di iniziare a integrare consapevolmente le due culture e mi liberi da un’ingiunzione esclusivamente astratta.

 Mi hai detto che i titoli delle tue opere provengono da un generatore automatico di titoli d’arte contemporanea. Qualche esempio: Mechanical Absence, A Lost Information, The Possibility of Orientation, … C’è un po’ di ironia nell’altisonanza dei nomi – ovviamente tutti in inglese – e anche nella scelta di delegare ad un automatismo l’assegnazione del titolo, soprattutto considerando che la scrittura è parte integrante del tuo lavoro. Le tue opere sono spesso accompagnate da tuoi testi originali. Inoltre, tu sei francese quindi pensi in doppia lingua, con tutte le interessanti oscillazioni di senso che avvengono durante le traduzioni. Anche in questa mostra ci sono molti testi, sempre poetici e caratterizzati da un uso sensibile della parola. In alcuni casi ci sono frasi estrapolate come: “Non sai mai di chi sei l’astro più luminoso”. In altri casi sono parole trovate come “Unico Grand Amour”, vista su un muro della Medina di Marrakech. Cito queste due in particolare perché in mostra le vediamo tradotte nella calligrafia geometrica araba. E anche le aste tortili dell’installazione The Literature of War fanno riferimento alla parola, perché ogni torsione corrisponde ad una lettera del nostro alfabeto. Cosa rappresenta per te la scrittura, come si integra nella tua arte visiva e in questa mostra?

 Il generatore ironico di titoli di arte contemporanea che ricordi non esiste più ma infatti, ho scelto di attingere al mio serbatoio di titoli autogenerati anche per le opere recenti, per coerenza con le altre opere in mostra. Mi piace sempre l’avere delegato al caso nonché a una macchina, la cura di avere prodotto il senso ma non delego l’assegnazione stessa, scelgo comunque il titolo in relazione all’opera. 

Quando ero bambina, traducevo mentalmente quanto stessi vivendo, come si farebbe in un racconto. All’osservazione si univa la distanza da quanto vissuto. Poi ho scoperto la letteratura e in particolare la poesia. Lo spazio letterario identifica lo spazio proprio all’opera letteraria ed è uno spazio a tutti gli effetti. Immateriale e intangibile. 

A un certo punto, è stata un’esigenza quella di integrare la scrittura alla mia produzione plastica, un tentativo di avvicinare questi spazi e di osservare quanto il loro incontro potesse generare. Per The Impossible Present, mi ero prefissata di integrare la scrittura alla trama plastica del lavoro, come avviene d’altronde nell’arte tradizionale islamica. Ho così ideato questo alfabeto, in cui ad ogni lettera corrisponde una specifica torsione dell’asta di ferro, ne deriva un messaggio criptico pur se contenuto nella materia stessa. Ho anche stampato due calligrafie geometriche di stile Kufico realizzate da Abdelghani Ouida, noto calligrafo di Marrakech. Questa volta, la scrittura si ricongiunge con la forma astratta, prediletta nell’arte islamica.

 Ci stai raccontando un viaggio di ritorno, dopo migrazioni che nel corso della tua vita ti hanno portata da Parigi ad Algeri e poi di nuovo in Francia per approdare infine a Roma. Ricordo che durante la stesura del progetto per IC ti sei interrogata molto sull’idea del ritorno come eterotopia. Nel pensiero di Michel Foucault, le eterotopie sono luoghi reali ma anomali, che contrastano con tutti gli altri spazi esistenti. Quando si torna in un luogo familiare, si può sperimentare una forma di eterotopia se si riesce a osservarlo con una prospettiva rinnovata. L’esperienza del ritorno può far sì che un luogo “diventi qualcos’altro da sé e non diverso come sconosciuto”. Un reale ritorno è, in effetti, impossibile perché non possiamo tornare i noi stessi di allora, né possiamo ritrovarci in quello stesso tempo o in quello stesso luogo.  Trovo quindi interessante che per ragioni politiche tu non sia potuta tornare ad Algeri, la città della tua infanzia, ma sia approdata a Marrakech. Come giustamente scrive Juan Palao, archivista e filologo, nel libro edito da Parallelo 42: “Andando ad Algeri, Delphine ha trovato Marrakech”. Del resto, “Present” in inglese è anche il dono: da un’impossibilità è nata un’opportunità.

Il confronto culturale è al centro della tua ricerca e le immagini che crei sono una sorta di ponte tra più mondi. Non si tratta solo del rapporto tra Oriente e Occidente, ma di dissolvere i confini oltrepassando definizioni, banalizzazioni, andando oltre le soglie del possibile. Infatti spesso le tue opere si situano in una sorta di spazio intermedio, tra due e tre dimensioni, tra disegno e scultura, dove persino l’antropocentrismo sembra superato. Il tempo e lo spazio giocano un ruolo fondamentale in questo progetto. L’elemento temporale perde qui la sua linearità e quello spaziale diventa evanescente. Tra questi due concetti si fa largo il “vuoto”, come campo di energie, che anche in mostra ha un ruolo dinamico. In qualche modo si torna ad una scoperta della fisica quantistica. Ciò che si rintraccia sempre nel tuo lavoro è la luce, le traiettorie luminose dei colori o dei metalli, che generano ulteriori forme e prospettive. In fondo i tuoi luoghi fanno tutti parte del Bacino del Mediterraneo e in questa mostra c’è moltissima di quella luce. Poi, ci sono anche le ombre che narrano altre storie. Cito dai tuoi appunti, che nel libro hanno l’eloquente titolo Orientarsi: “(…) per me, l’esperienza artistica non è da considerarsi separata da quella esistenziale, non si illustrano l’un l’altra, si generano a vicenda (…)”. 

Sì, questa unicità dell’esperienza, esistenziale e artistica, è la sua complessità. Il “Io sono inseparabile” della scrittrice francese vissuta in Algeria, Hélène Cixious, riassume l’impossibilità di scindersi. 

Ha in fondo contraddistinto molti aspetti del progetto che mi ha portata a vivere l’esperienza del ritorno alla cultura nella quale sono cresciuta in una città, Marrakech, che non conoscevo. Quest’ultimo aspetto è stato, effettivamente, un dono. Ero liberata dall’utopia del ritorno nella quale, come sottolinei, non si ritrova ciò che si ha lasciato e ho potuto dedicarmi totalmente alle reminiscenze che emergevano in me e allo studio comparato delle culture visive orientale e occidentale. Un libro in particolare mi è stato estremamente prezioso, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente di Hans Belting. In sostanza, la cultura visiva occidentale ha definito il suo canone percettivo con la prospettiva e la centralità dello sguardo umano, trasformando il mondo in un’immagine, attingendo alla teoria della visione di Alhazen, matematico e astronomo, scienziato geniale originario dalla Mesopotamia vissuto negli anni 1000. Per la cultura visiva orientale, l’immagine è collaterale (non vediamo la stessa cosa attraverso l’acqua e attraverso l’aria), essa si concentra sui raggi luminosi e ha interiorizzato il dato spirituale. E nel caso delle sue complesse geometrie, esse non sono mere decorazioni ma la rappresentazione di leggi cosmiche. 

Avevamo posto al centro del progetto la convergenza dei saperi, come si evince nel libro, ed è stato essenziale e vitale. Nello scambio, ho potuto misurare quanto la ricerca artistica abbia una sua dignità propria. Non cerca la sua autorevolezza all’esterno del suo campo ma si arricchisce nel confronto con altri campi e vice versa. L’approccio artistico, alla pari degli altri, è un modo per afferrare il mondo e accedere alla conoscenza o alla comprensione. Tre elementi presenti in mostra, intitolati Ode to Chaotic Meditation, realizzati con specchi antichi, evocano l’eterotopia di cui parli. Lo specchio è eterotopia per eccellenza, spazio utopico e riflettente. Permette di interrogarsi sul mondo visibile e sulla sua solidità o sulla sua realtà

Dopo Marrakech, sono effettivamente tornata ad Algeri, con una borsa di ricerca dell’Istituto Francese di Algeri. Ho sperimentato appieno l’impossibilità del ritorno. Aldilà delle considerazioni che possiamo farne, sicuramente giuste – per Foucault il ritorno è alla volta una pratica e uno spazio eterotopico “che ha per regola di giustapporre in un luogo reale più spazi di norma incompatibili” – ho sperimentato uno scompiglio che riguardava più il tempo, via lo spazio, dai quali ero esclusa. 

Per i Gnawa, confraternita mistica presente in Marocco, l’esilio non riguarda tanto lo spazio – la geografia – l’esilio è esilio dal Sé e in questo senso, il ritorno in Marocco si è offerto come chiave di comprensione che non riguardasse solo me naturalmente. Con The Impossible Present. Caleidoscopio, ho cercato di riunire vari spazi in un luogo, di giustapporre, di sovrapporre vari spazi aperti dall’esperienza fondatrice svolta a Marrakech. 

Delphine Valli – The Impossible Present. Caleidoscopio, a cura di Melania Rossi
BUILDING TERZO PIANO, fino al 25.10.2025

immagini: (copertina 1) Delphine Valli, “The Impossible Present. Caleidoscopio”, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo (2) Delphine Valli, “A studio The Formation of Joy”, foto: Luis Do Rosario 2025 (3) Delphine Valli, “On Being Superficial”, 2020 2021, The Impossible Present. Caleidoscopio, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo (4) Delphine Valli, “Progetto per disegno murale”, 2022 2025, The Impossible Present. Caleidoscopio, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo (5) Delphine Valli, “The Impossible Present. Caleidoscopio”, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo

 

 

 

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FLESH AR(T) ATTACK al Mattatoio di Roma

Par : Arshake
11 octobre 2025 à 09:48
Abbiamo incontrato Chiara Passa, pioniera delle arti multimediali con base a Roma e le abbiamo chiesto di raccontarci di FLESH AR(T) ATTACK, evento performativo di realtà aumentata, presentato nell’ambito ULTRA REF, sezione del Romaeuropa Festival realizzato in collaborazione con gli studenti del triennio di Arti Multimediali e Tecnologiche dell’Accademia di Belle Arti di Roma. Venticinque progetti in realtà aumentata hanno orchestrato una mappatura dei particolari spazi dell’ex Mattatoio di Roma, affascinante spazio di archeologia industriale, ora destinato ad essere integrato in uno dei più ambiziosi progetti di riqualificazione urbana con la creazione di un polo di ricerca e produzione artistica, progetto che gode già della presenza di diverse realtà dedicate alla cultura, tra queste gli spazi adiacenti dell’Accademia di Roma, dell’Università di Architettura Roma Tre, e della storica scuola di musica popolare di Testaccio, e ormai anche tutte quelle attività che negli ultimi anni il Romaeuropa Festival ha portato nel suo configurarsi come polo di aggregazione della città e in un contesto internazionale. Per chi ha avuto esperienza del progetto, partecipare a FLESH AR(T) ATTACK ha significato attraversare questo grande spazio in una camminata tra presente e passato, fermando l’attenzione sulla magia di questa particolare porzione di area urbana, sulla sua storia e sull’energia che è in grado di sprigionare. A Chiara Passa abbiamo chiesto cosa ha significato lavorare nella specificità del luogo e in un progetto corale e inter-generazionale.  

Arshake: FLESH AR(T) ATTACK è un evento performativo? Puoi spiegarci con che modalità e come si struttura all’interno dello spazio (pubblico) e come ponte tra Festival e Accademia di Belle Arti?

Chiara Passa: Il progetto è articolato come un tour guidato attraverso 25 hotspot AR, ciascuno dei quali attiva un’interazione tra spazio fisico e contenuto digitale. Le installazioni aumentate non si limitano a decorare l’ambiente, ma lo rimodellano concettualmente, trasformando l’intera area in un centro d’arte immersivo e reattivo.

I lavori di FLESH AR(T) ATTACK sovrascrivono la memoria storica dell’ex Mattatoio con una nuova narrativa artistica digitale, ridefinendo il rapporto tra spazio, corpo e tecnologia. La carne – evocata nel titolo -diventa metafora di presenza, vulnerabilità e trasformazione, mentre la realtà aumentata si fa strumento di resistenza poetica e riflessione critica. In questo contesto, l’AR non è solo medium, ma linguaggio artistico che interroga il reale e ne espande i confini.

Attraverso smartphone e tablet, i visitatori sono invitati a esplorare una costellazione di opere multimediali che vanno dalla scultura digitale alla narrazione spaziale, fino alla critica post-umana. Ogni intervento in realtà aumentata è il risultato di un lavoro corale. Gli studenti hanno agito in direzioni diverse ma sempre complementari, perché legati dal tema della trasformazione poetica e critica dello spazio dell’ex Mattatoio. 

Il tema centrale delle opere AR è la metamorfosi del corpo architettonico e sociale, dove la carne – evocata nel titolo – diventa metafora di presenza, memoria e resistenza.

Alcuni hanno indagato l’idea di archivio, realizzando video tridimensionali che stratificano ricordi e immaginazione.  Altri, hanno lavorato direttamente sull’architettura del luogo, trasformandola in superficie sensibile e reattiva. Altri ancora (me compresa proponendo uno degli Object Oriented Stones, i sassi interattivi orientati agli oggetti) hanno generato sculture post-organiche, forme astratte che sembrano emergere dal sottosuolo di quell’archeologia post-industriale, come linfa visiva che nutre nuove visioni.

Cosa hai portato in questa occasione della tua esperienza con la Widget Art Gallery, nata nel 2008 come galleria digitale tascabile dove hai collaborato con artisti giovani e affermati?

Sicuramente l’esperienza curatoriale di spazi liminali e tascabili, ovvero ambienti non convenzionali che sfidano le logiche espositive tradizionali e invitano a ripensare il rapporto tra opera, contesto e fruizione è stata una base importante per questo lavoro. Con la Widget Art Gallery ho imparato a costruire narrazioni che si adattano a formati mobili, effimeri, decentralizzati, e questa sensibilità ha influenzato anche la progettazione di FLESH AR(T) ATTACK.
Per questo progetto ho portato con me una pratica curatoriale già sperimentata nella Widget che valorizza la coesistenza tra artisti emergenti e affermati, promuovendo un dialogo orizzontale e generativo. Lavorando con gli studenti, ho cercato di trasmettere l’importanza di concepire lo spazio espositivo come un organismo vivo, un dispositivo artistico e critico capace di accogliere visioni plurali e di attivare il pubblico in modo diretto. In questo senso, FLESH AR(T) ATTACK è stato anche un’estensione concettuale della Widget Art Gallery: un ambiente aumentato e situato, dove l’arte si manifesta in forma fluida, accessibile e radicalmente contestuale.

Cosa ha significato per te lavorare con gli studenti ad un progetto artistico corale? 

Il progetto nasce come esito dell’esame finale di Realtà Virtuale e Aumentata, un momento culminante del percorso formativo in cui gli studenti sono chiamati a confrontarsi con la progettazione e la realizzazione di opere digitali site-specific

Alla fine del semestre, abbiamo esplorato lo spazio dell’ex Mattatoio, discutendone insieme affinché ciascuno potesse scegliere un’area su cui lavorare. Ogni studente ha poi immaginato un intervento in realtà aumentata, reso accessibile tramite le matrici AR.

FLESH AR(T) ATTACK è anche un manifesto pedagogico: un esempio concreto di come la didattica possa generare pratiche artistiche contemporanee, valorizzando il lavoro degli studenti e promuovendo una visione collettiva e trasformativa dell’arte digitale.

Quale e’ stata la risposta del pubblico? 

La risposta del pubblico all’evento FLESH AR(T) ATTACK è stata estremamente positiva e calorosa, con un forte coinvolgimento e un sincero apprezzamento per l’esperienza immersiva e collettiva. Abbiamo accolto un pubblico variegato: anziani curiosi di scoprire le opere, famiglie con bambini, e naturalmente anche professionisti e appassionati del mondo dell’arte. Questo mix ha confermato l’efficacia della realtà aumentata come linguaggio artistico e pedagogico inclusivo. È importante ricordare che gli artisti creano opere principalmente per il pubblico, e non c’è soddisfazione più grande di vederlo partecipe, sorpreso, attento, ed emotivamente coinvolto. 

FLESH AR(T) ATTACK, 23-28.09.2025, ex Mattatoio, luoghi vari, 23-28 settembre 2025
Concepito da Chiara Passa come collaborazione tra Accademia di Belle Arti (Arti Multimediali, coordinamento Maria Cristina Reggio) e Romaeuropa Festival, nell’ambito della rassegna Ultra REF.
Con Chiara Passa, hanno esposto gli studenti del suo corso triennale di Arti Multimediali e Tecnologiche dell’Accademia di Belle Arti di Roma: Annamaria De Paris, Anton Tkalenko, Aurora Tittarelli, Caterina Pitrola, Chiara Stella Landi, Davide Solarino, Enea Tomassi, Federica Santoro, Francesca De Rosa, Giovanni Pio Appoloni, John Javier Zuniga Perez, Katharina Faller, Lanyi Zhang, Laura Molino, Lidia De Nuzzo, Martina Panico, Mirko De Paolis, Olimpia Paldi, Pietro Guerrini, Sophia Rossetto, Tiziano Orlandi, Wei Jia Deng, Yueqi Tu, Yuting Hu, Zihang Fu

immagini: (cover 1) mappa (2) FLESH AR(T) ATTACK, Mattatoio di Roma, 23-28.09.2025, foto: Monkeys VideoLab (3-4) FLESH AR(T) ATTACK, Mattatoio di Roma, 23-28.09.2025, foto: Federica De Pari 

 

 

 

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Heat and Solitude. In dialogo con Federica Di Carlo

12 septembre 2025 à 15:49
Nell’ambito di Volcanic Attitude, festival di cultura contemporanea tra Napoli e le Isole Eolie, alla sua quarta edizione, tenutasi tra il 24 e il 28 giugno 2025, Federica Di Carlo ha presentato, sul bordo del cratere di Vulcano, l’istallazione ambientale Heat and Solitude, progetto realizzato in collaborazione con INGV. In questo “ambiente estremo”, poco adatto all’arte così come poco adatto alle persone, si ergono le sculture di due piedi con la pianta rivolta verso il cielo, sorretti da due tubi che sprofondano nella fumarola sottostante, i quali fumi hanno contribuito all’aspetto finale dell’opera, producendo reazioni chimiche con il materiale scultoreo. I piedi, simbolo del dio Vulcano, nato storpio, hanno matericità differenti, se uno, infatti, è in bronzo bianco, che le sostanze vulcaniche hanno scurito e cangiato, l’altro è in un incredibile zolfo fuso, giallo e lucido, inerte attraverso la fusione.
Di Carlo, nella sintesi dell’opera, collabora con il vulcano stesso, così come con Francesco Sortino, vulcanologo dell’INGV, producendo un’opera “a sei mani” quasi totemica, stagliata verso il cielo ma profondamente terrena, in equilibrio tra scienza e mito, magnete tra il kairos degli eventi, il festival, l’incontro con Sortino, l’incedere della genesi dell’opera, l’aion di Vulcano e della mistica da cui prende il nome, immutabile ed inesauribile e il kronos della nostra vita terrena, di cui ne coglie un elemento imprescindibile che accomuna tutti i protagonisti di quest’opera, quindi tutti noi: la solitudine.
Se il “calore” del titolo è facilmente riconducibile all’hic et nunc dell’istallazione, la “solitudine” ne è evocata, ma proprio da quest’evocazione si diramano i fili invisibili che trasformano quei piedi in uno specchio. La solitudine del dio Vulcano, vero e proprio artista divino, forgiatore di armi e gioielli ma anche scultore, riecheggia in quella degli altri due ruoli che hanno preso parte all’opera: quella, per l’appunto, degli artisti, intenti, nel loro studio, a costruire trappole e grimaldelli percettivi, e quella dei vulcanologi, a studiare, in territori impervi e pericolosi, l’anima della terra. Ma la solitudine diventa specchio del mondo, un elemento sempre più presente nella quotidianità di ognuno di noi, in una realtà sempre più tecnologica, sempre più automatica, sempre più comoda, che come contrappeso produce un perturbante isolamento, malessere ontologico autoinflitto.
In conclusione, un’opera sfaccettata e affascinante che trova la quadratura del cerchio tra personale e sociale, arte e scienza, ontologia ed epistemologia. Quei piedi rivolti al cielo, raggiungibili con fatica, alpha di pensieri e sensazioni, dimostrano le qualità del prodotto artistico, chiarificano il senso dell’opera in un tempo in cui appare sempre più evidente il suo ammassamento sull’omega.

Pensieri e sensazioni riguardanti il senso dell’arte, della solitudine e della realtà ai giorni nostri. Questioni complesse che chiediamo direttamente all’artista:

Fabio Giagnacovo: HEAT & SOLITUDE è un lavoro “a sei mani”, le tue, quelle del vulcanologo Francesco Sortino e quelle del vulcano, e quindi del dio Vulcano (Efesto nella mitologia greca), dio del fuoco che scaccia gli spiriti maligni ma anche di quello distruttivo, della metallurgia, dell’ingegneria e della scultura. Vero e proprio artista che sembra in qualche modo ricalcare molto più di Apollo e delle Muse, simboli greci dell’ideale artistico assoluto, l’idea di arte contemporanea, eterogenea, più “reale” e meno propriamente lirica. Inoltre foggia creature pensanti da materiali inanimati, veri e propri cyborg, aprendosi al digitale al pari di Pigmalione. Credi che, pian piano, quel cosmo che possiamo definire con il termine “Arte” da essere Apollo si sia ritrovato ad essere Vulcano, geniale e isolato, disprezzato dagli dei e giustificatamente rancoroso (d’altronde fu gettato appena nato dalla cima del Monte Olimpo dalla sua stessa madre)? 

Federica Di Carlo: Quando sono stata invitata a creare un lavoro site-specific per il “Volcanic Attitude” sull’isola di Vulcano la prima cosa che mi sono domandata è stata come mai questo vulcano non avesse un vero e proprio nome rispetto agli altri vulcani come Stromboli, l’Etna ecc.. Ho scoperto che il Vulcano dell’isola di Vulcano da il nome a tutti i vulcani del mondo, e questo proprio grazie alla figura del Dio Vulcano. Il sentimento della solitudine sembra nascere nel racconto mitologico da questo Dio nato storpio, unico non bello tra gli dei e per questo gettato in mare dalla superficialità della madre Era. In un olimpo fatto di sfarzi, vizi, capricci, narcisismo, bellezza esasperata e ostentata, dove quello che appare é quasi sempre ingannevole e con conseguenze anche per gli dei stessi che vogliono tutto e subito…molto simile alla società di oggi; un antieroe di questo tipo trovo che sia necessario più di un Apollo. La sua solitudine diviene lo stato della creazione ma anche memento di uno stato della società apparentemente nascosto dietro agli schermi..nel costante timore di mostrarla; Invece è necessario accoglierla e attraversarla per usarla come strumento di rinascita e comprensione di quello che sta accadendo attorno a noi. Mi sento molto più simile a un Efesto che ad Apollo, ci serve più questo stato di onestà nell’arte piuttosto che la mera forma e l’ingannevole e superficiale di molta arte che oggi, compare e scompare con le mode.

 HEAT & SOLITUDE, come si evince già dal titolo, parla anche di solitudine. Indubbiamente essa ha la doppia valenza di essere forza distruttiva e creatrice contemporaneamente. Catalizzatrice del processo creativo, quando sborda in quel “deserto del reale”, come direbbe Mark Fisher, che è il sistema in cui esistiamo, diviene l’assoluto cul de sac, d’altronde ci si riconosce solo nell’altro, mettendosi in relazione all’altro per similitudine e differenza. Inquietante come, soprattutto dopo la saga pandemica, sempre più persone tendano naturalmente a isolarsi (tralasciando il simulacro dell’iperconnessione tecnologica) costruendosi un sistema complesso auto-riferito. Sei d’accordo? Come ti relazioni alla solitudine e come credi impattino sul mondo le varianze consuetudinarie al riguardo? 

La solitudine è un sentimento complesso e semplice al tempo stesso, ma che oggi mette molte persone a disagio perché non nasciamo come specie solitaria. Ci siamo auto-isolati nelle vite parallele che creiamo in finto racconto della nostra vita sui social, dove questo lato non può mai essere mostrato. E’ proprio questo esilio del sentimento della solitudine che la fa riemergere ed essere più contemporanea che mai; tutto ciò che viene soffocato, seppellito in profondità come magma riemerge senza preavviso ed in modo devastante. Abbiamo scordato l’altro lato della solitudine quella da assaporare, quella che ha a che fare con le nostre antenne connesse al sistema Natura-Mondo; che è poi lo stato dell’artista, l’unico stato possibile di creazione perché è in quei momento che possiamo fare da filtro e forgiare solo quel che resta di essenziale in quel momento. E’ una condizione che personalmente cerco e senza la quale non riesco a immaginare le mie opere. 

Nella creazione di quest’opera hai collaborato per la prima volta con un vulcanologo, ma sei solita collaborare con scienziati di vario genere nella concretizzazione delle tue opere, spesso sfaccettate, che fondono natura e cultura (entrambe a loro volta riconoscibili in termini sia scientifici che umanistici). Assistiamo, negli ultimi tempi, al proliferare di collaborazioni tra artisti e ingegneri informatici in cui la figura della “persona di scienza” è puramente tecnica e subordinata. In operazioni come HEAT & SOLITUDE, invece, c’è chiaramente un lavoro di squadra. Cosmi all’apparenza lontani, nelle tue opere, coesistono con naturalezza grazie anche a questo tipo di collaborazione. Viene da pensare che la genesi del pensiero visualizzato che dà vita all’opera attraversa un percorso tortuoso in quanto fondato su una serie di incognite e di elementi cangianti, si scontra con fatti e ipotesi al pari del metodo scientifico, in qualche modo cresce con una concretezza aliena a quel fare saturnino e dionisiaco che un certo tipo di arte coesistente alla tua ha. È così? Ed è così importante radicarsi alla realtà?

HEAT & SOLITUDE nasce prima di tutto da uno scambio tra due esseri umani sulla cima del cratere del vulcano e questo credo sia la base e il presupposto di quasi tutti i miei lavori. Poi subentra l’elemento della conoscenza che può essere artistica, scientifica o naturale, che proprio come gli elementi chimici del vulcano a seconda di come vengono combinati, come si incontrano, come si fondono tra di loro, generano nuove possibilità che prima nessuno vedeva. Collaborare con il vulcanologo Francesco Sortino del INGV è stato per me fondamentale per poter immaginare una scultura in dialogo aperto con il vulcano. Questo significava anche sacrificare una parte del controllo del lavoro, che però è per me un’abitudine che porto avanti nella mia ricerca da molto tempo; tendere le mani verso le leggi che ci governano e usarle in forma poetica (e attenzione non scientifica), è qualcosa che mi attira e che mi dà, come i vapori che fuoriescono dalle viscere della terra, quel senso verso il cielo del fare arte per capire e sentirci al mondo. Come lo stesso magma che crea la terra sulla quale noi camminiamo oggi. C’è stato un tempo di gestazione insieme a Francesco, e anche una parte sperimentale nella quale abbiamo testato dei materiali sulle fumarole del vulcano per capire fin dove mi potevo spingere con la mia idea di sculture. Con il suo aiuto e la sua apertura mentale, abbiamo fatto una cosa unica nel suo genere sia dal punto di vista materico che dal punto di vista artistico, perché ho potuto forgiare un piede in zolfo, cosa che non è per niente semplice e non credo mai fatta prima in ambito di arte contemporanea. E forgiarne un altro di bronzo bianco che a contatto con gli agenti chimici provenienti dal sottosuolo e portati da Francesco insieme alla Performer alla scultura stessa, ne ha modificato e trasformato il colore finale. Il risultato, che dal punto di vista chimico ci aspettavamo diverso ha assunto un colore imprevisto creando un nuovo stupore scientifico, artistico e poetico. E’ stato un vero e proprio lavoro a sei mani con il dio Vulcano.

Federica Di Carlo, “Heat & Solitude”, realizzato in collaborazione con INGV, nell’ambito del Volcanic Attitude, Napoli, Isole Eolie, 24 – 28.06. 2025

immagini: (All) Federica Di Carlo, “Heat & Solitude”, As part of Volcanic Attitude, 24 e 28 June 2025, @emiliomessina e @davive jay pompejano

 

 

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Ibrida. In dialogo con Francesca Leoni e Davide Mastrangelo

8 septembre 2025 à 16:40
Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, duo di artisti direttori di Ibrida, il festival che ogni anno porta a Forlì le forme più radicali e autorevoli della ricerca artistica multidisciplinare, racconta dell’edizione 2025 che si svolgerà dal 25 al 28 settembre 2025 nei suggestivi spazi della Fabrica delle Candele.
Questa edizione, dedicata al tema della Moltitudine, conferma il suo taglio interdisciplinare e intermediale con lavori di videoarte, performance art, installazioni, dialoghi, workshop e musica e un ospite speciale: l’americano Gary Hill, Leone d’oro alla Biennale di Venezia e pioniere della videoarte. Una grande mostra internazionale precede il festival nelle veci di prologo dedicata alle Anatomie Digitali e aperta al pubblico fino al ottobre negli spazi della Fondazione Zoli. Francesca Leoni e Davide Mastrangelo ripercorrono tutto il lavoro e le scelte che li hanno portati a questa decima edizione, nello spirito di ponte tra passato e futuro e nel nome di una pluralità di voci che ogni anno si rafforza in un network sempre in espansione.

Elena Giulia Rossi: Da dieci anni a questa parte Ibrida si è ogni volta arricchita ed evoluta per numero e varietà di eventi e opere. Quest’anno, celebrando la decima edizione, la proiezione al futuro proviene anche da uno sguardo a ritroso, al corpus di opere presentate nel tempo riletto come “un grande organismo in divenire”. In che modo avete restituito questo sguardo?

Francesca Leoni e Davide Mastrangelo: Abbiamo scelto di considerare il nostro archivio non come un insieme di memorie statiche, ma come una materia viva, capace di dialogare con il presente e di indicare nuove direzioni. Riguardando dieci anni di opere, si percepisce chiaramente come la videoarte e l’arte performativa abbiano reagito ai mutamenti sociali, politici e tecnologici. In questo senso, l’archivio diventa un vero “organismo in divenire” che respira con le trasformazioni del mondo, proprio come accade nei grandi musei internazionali che, negli ultimi anni, hanno iniziato a considerare la media art non solo come documento, ma come presenza viva e necessaria per rappresentare il presente.

Il tema di questa edizione è “Moltitudine”. In relazione alla pluralità dei linguaggi, quanto è importante per voi oggi riconoscere (e che sia riconosciuta) la specificità della videoarte?

La videoarte oggi si muove in uno spazio complesso: da un lato il linguaggio video è diventato quotidiano, pervasivo, parte integrante del nostro modo di comunicare; dall’altro rischia di essere confuso con la produzione di immagini effimere e di consumo. Per noi, riconoscerne la specificità significa sottolineare la sua forza poetica, politica e percettiva: la capacità di generare esperienze trasformative.

In un contesto di “moltitudine”, il video è una vera lingua madre della contemporaneità ed è l’uso consapevole e radicale a trasformarlo in arte. Proprio perché siamo oberati di contenuti audiovisivi, sentiamo la responsabilità di tracciare traiettorie chiare, evitando che tutto finisca nello stesso calderone indistinto. Il nostro compito è presentare allo spettatore il fenomeno per quello che è, ma al tempo stesso offrirgli strumenti utili per analizzare e comprendere l’opera.

Come si sono trasformati tecnologia e linguaggio video in questi ultimi dieci anni?

Dieci anni fa parlavamo ancora di “digitale” come di una frontiera necessaria; oggi siamo immersi in un ecosistema visivo in cui AI, realtà aumentata, streaming in tempo reale e linguaggi interattivi sono parte integrante della produzione artistica. Il linguaggio video ha assorbito contaminazioni dalla game art, dalla computer graphics e dall’arte generativa, creando un terreno ibrido in cui l’artista è spesso al tempo stesso programmatore, performer e regista. Oggi il sistema produttivo sta cambiando in maniera esponenziale: con l’avvento dell’AI, la distinzione tra produzione e post-produzione tende a dissolversi. Non c’è più un “dopo” in cui si interviene a montare o correggere, ma un processo circolare in cui l’opera nasce già all’interno di un flusso continuo di generazione, modifica e rielaborazione. Questo significa che l’atto creativo non si conclude, ma rimane aperto, in trasformazione permanente. Questa fluidità riflette l’andamento dell’arte contemporanea internazionale, dove le categorie tradizionali vengono costantemente messe in discussione.

Cosa ci aspetta quest’anno nella sezione dedicata alle installazioni inaugurata nel 2022?

Quest’anno la sezione installativa affronta un tema cruciale della nostra contemporaneità: l’universo dei social network, spazio in cui la “Moltitudine” ha trovato una voce amplificata, ma non sempre armoniosa. Ci troviamo in un’arena dove la parola si moltiplica fino a diventare rumore e il dialogo viene spesso sostituito dall’eco delle emozioni più immediate.

In questo contesto, Max Magaldi con Vainglory trasforma lo spazio in un paesaggio immersivo di dispositivi e voci digitali, riflettendo sul bisogno compulsivo di apparire. Igor Imhoff con Portable Insult Machine mette in scena la violenza verbale online, ribaltando i ruoli e ponendo lo spettatore davanti a un algoritmo che lo osserva e lo offende. Sara Koppel con The Garden of Water Lilies propone invece un’opera poetica in realtà aumentata che riattiva il legame tra uomo e natura. Tre prospettive diverse che illuminano la moltitudine digitale e le sue contraddizioni.

Quali considerazioni sono emerse dalla valutazione con la giuria delle opere ricevute per la open call?

Abbiamo registrato una forte presenza di opere sulla memoria e sulla stratificazione delle immagini, spesso intrecciando archivi familiari, documenti storici e materiali generati con AI. La geografia artistica si è ampliata: accanto a paesi già attenti come Belgio e Brasile, emergono nuove scene dall’Asia e dall’Africa, segno di un linguaggio ormai globale.

La Cina si è distinta per la qualità dei lavori e per l’uso di media diversi, come i videogame, per analizzare e rielaborare il reale. Un esempio è A Camera and an Engine di Yuting Chen, che segue la vita sospesa di una giovane live streamer tra digitale e fisico, alternando glitch e bug a metafore di precarietà e ansia sociale. L’opera riflette la fragilità dell’identità in una società ipercompetitiva, dove l’immersione digitale amplifica e al tempo stesso frattura l’esperienza vissuta.

Tutto questo conferma come la videoarte, pur nella sua specificità, sia oggi una piattaforma di dialogo interculturale e uno strumento prezioso per leggere le complessità del presente.

Quest’anno prologo al Festival sarà la collettiva “Anatomie Digitali”. Potete raccontarci di questo progetto e delle 5 aree tematiche?

Anatomie Digitali è il prologo con cui celebriamo i dieci anni di Ibrida Festival. Non è una semplice retrospettiva, ma un’indagine poetica e curatoriale sul corpo audiovisivo e sulle sue metamorfosi nell’ultimo decennio. Seguendo l’etimologia di “anatomia” abbiamo aperto il nostro archivio come farebbe un anatomista: per guardare dentro, scomporre, dissezionare. È anche uno sguardo critico, vicino a quello foucaultiano, che osserva come il potere e il sapere si inscrivano sul corpo.

Il percorso attraversa oltre quindici paesi, intrecciando linguaggi ed estetiche globali senza perdere il legame con il territorio, e si articola in cinque aree tematiche, come organi vitali di un corpo in divenire:

  • Genesi, che omaggia le origini della videoarte e le tensioni tra corpo e tecnologia, inaugurata da Self ( ) di Gary Hill (2016), anno di nascita del festival, opera che dialoga emblematicamente con il nostro percorso;
  • Corpi Elettronici, dove il corpo diventa interfaccia sensibile, identità fluida e dispositivo performativo;
  • Anatomia del Segno, dedicata a sperimentazioni visive e animazioni come materia simbolica;
  • Ibrida Prize, che riunisce le opere vincitrici capaci di coniugare ricerca estetica e urgenza espressiva;
  • Segnali, in cui glitch, intelligenza artificiale e nuove forme visive trasformano l’errore e il codice digitale in materia poetica.

Anatomie Digitali si configura così come una mappa fluida e multicentrica delle estetiche contemporanee, un atto d’amore verso la ricerca e l’ibridazione, ma anche una riflessione critica sulla condizione phygital in cui viviamo, sospesi tra biologico e artificiale, tra presenza e traduzione algoritmica.

Anche quest’anno ci sono novità importanti sul fronte dei riconoscimenti e delle residenze…

Quest’anno inauguriamo per la prima volta una residenza artistica interamente ideata e voluta da Ibrida: un passo che sognavamo da tempo e che segna un’evoluzione importante nel nostro rapporto con il territorio.

Per noi, residenze e riconoscimenti non sono solo premi, ma occasioni per creare legami e lasciare tracce concrete. Lo scorso anno, ad esempio, il vincitore del Premio Fabrica ha visitato Forlì durante il festival, realizzando riprese che entreranno nel suo prossimo lavoro.

Quest’anno facciamo un ulteriore salto in avanti grazie alla collaborazione con Atrium, associazione europea con sede a Forlì. L’artista selezionato da Ibrida vivrà la città e realizzerà un’opera di videoarte dedicata alle sue architetture dissonanti. L’opera sarà presentata in anteprima alla prossima edizione del festival e resterà nella collezione di Atrium, diventando una memoria visiva condivisa.

Considerazioni finali e augurio per il futuro.

Venendo a Forlì, il pubblico troverà non solo un festival, ma un’esperienza collettiva. Ci piacerebbe che Ibrida fosse percepito come un luogo dove l’arte non si limita a essere vista, ma vissuta e condivisa.

Dopo dieci anni ci guardiamo indietro con stupore: non avremmo mai immaginato di arrivare fin qui. Abbiamo attraversato momenti difficili e gioie inattese, e ogni edizione ha lasciato tracce profonde in chi vi ha preso parte. Il nostro augurio è che questa moltitudine continui a crescere, intrecciando esperienze locali e traiettorie internazionali, come un mosaico in continua espansione capace di restituire il senso di un tempo che cambia e, insieme, di una comunità che evolve e si trasforma.

IBRIDA Festival 2025. Moltitudini, a cura di Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Fabrica delle Candele, Forlì, 25-28.09.2025. Potete consultare qui il sito per il programma aggiornato degli eventi. 
Anatomie Digitali, a cura di Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Fondazione Dino Zoli, 01.09.09.10.2025
Artisti in mostra: Gianluca Abbate, Alessandro Amaducci, Karin Andersen, Apotropia, Elena Bellantoni, Filippo Berta, Sara Bonaventura, Robert Cahen, Matteo Campulla, Rita Casdia, Carlos Casas, Georgios Cherouvim, Citron/Lunardi, Zlatko Ćosić, Martín Córdoba, Brecht De Cock, Iginio De Luca, Silvia De Gennaro, Sandrine Deumier, Michele Di Pirro, Elisabetta Di Sopra, Ilaria Di Carlo, Felix Dierich, Francesca Fini, Laura Focarazzo, Regina José Galindo, Daniele Grosso, Marcia Beatriz Granero, Gary Hill, Igor Imhoff, Salvatore Insana, Jacopo Jenna, Yoshihisa Kitamura, Fenia Kotsopoulou, Francesca Lolli, Marcantonio Lunardi, Eleonora Manca, Antonello Matarazzo, Sofia Melikova, Albert Merino, Ethann Néon, Donato Piccolo, Luis Carlos Rodriguez, Miguel Rozas, Hiroya Sakurai, Ursula San Cristobal, Guli Silberstein, Valentin Sismann, Lino Strangis, Rino Stefano Tagliafierro, Cosimo Terlizzi, Devis Venturelli, Virgilio Villoresi, Debora Vrizzi, Hernando Urrutia, Shon Kim.

Immagini: (cover 1) Albert Merino, «Le Monde Sublunaire», 2022, frame da video (2) Debora Vrizzi, «Family Portrait», 2012, frame da video (3) Ibrida Staff 2025, © Vertov Project, photo by Andrea Bardi  (4-7) GARY HILL, !SELF series», Courtesy dell’artista e Galleria Lia Rumma Milano- Napoli (5) Yuting Chen, «A Camera and an Engine», 2024 (6) Georgios Cherouvim, «Geophone», 2016, frame da video (7) Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, © Vertov Project, photo by Andrea Bardi

 

 

 

 

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Dentro al sogno. In dialogo con fuse* a Videocittà

24 juillet 2025 à 08:16
Abbiamo incontrato Mattia Carretti, co-founder di fuse* (con Luca Camellini) e Matteo Salsi, che nella grande squadra di questo collettivo multidisciplinare è Designer e Creative Coder. Assieme abbiamo parlato di Onirica (), progetto avviato nel 2023 che nel giorno del nostro incontro (2 luglio 2025) andava in scena in una versione live sul palco di Videocittà, il festival romano ideato da Rutelli dedicato alla cultura digitale e da qualche anno ospitato nei suggestivi spazi di archeologia industriale del Gazometro di Roma.
In tutte le versioni di questa serie, Onirica () è entrata letteralmente nella dimensione del sogno attraverso l’impiego di algoritmi che restituiscono nelle forme più diverse dati relativi al sonno, in questo caso grazie alla collaborazione con due importanti dream banks: quella dell’Università di Bologna e quella della University of California Santa Cruz.
Dopo le versioni installative realizzate per INOTA Festival in Ungheria e la Fondazione Alberto Peruzzo a Padova, Onirica () è arrivata a Videocittà in una versione performativa live, in collaborazione con Diego Trotelli, coreografo del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto.
Mattia Carretti e Matteo Salsi sono entrati nel merito di alcuni aspetti legati alla progettazione di Onirica () in tutte le sue diverse versioni, dal lavoro di selezione con i dati, alla restituzione di questi nelle diverse forme –  installativa e performativa – con l’intenzione di ricongiungere i dati alla dimensione intima e misteriosa del sogno, più di ogni altra cosa umana. Nel raccontare di alcune scelte cruciali, non in ultimo, sono entrati nel vivo della loro metodologia di progettazione in qualità di squadra multidisciplinare.

Elena Giulia Rossi: Vi chiedo subito di Onirica (), del progetto che avete ideato per Videocittà, ma anche di tutta la serie in progress nata per esplorare la dimensione del sogno e il suo incontro con le logiche algoritmiche.

Mattia Carretti ( co-founder di fuse*): Onirica () è un progetto nato dall’idea di portare assieme il mondo AI, attraverso tecniche di machine learning, con un’esperienza puramente umana, quale è quella del sogno. Abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto effettivamente nel 2022 ma era frutto di una ricerca avviata molto prima, nel 2018, quando sperimentavamo con un sistema AI piuttosto rudimentale. Dopo, chiaramente, le possibilità espressive si sono evolute esponenzialmente con il progresso delle tecnologie.

Inizialmente l’esplorazione di alcune tecniche di analisi dati e della loro traduzione in immagini faceva parte di un processo di ricerca parallelo a questo. Non eravamo ancora a conoscenza dell’esistenza di queste due banche dati con cui poi abbiamo lavorato, quella dell’Università di Bologna e quella della University of California Santa Cruz. Quando le abbiamo scoperte, abbiamo pensato che questo materiale sui sogni organizzato in un dataset si sarebbe prestato benissimo per portare assieme realtà onirica ed esistenza artificiale.

Abbiamo avviato la progettazione inizialmente con Matteo per la parte visiva e poi con un team più esteso, come di solito facciamo nel nostro lavoro di squadra, portando assieme competenze diverse. Sono venute fuori diverse idee e diverse possibilità. Con INOTA Festival in Ungheria prima, e con la Fondazione Alberto Peruzzo (Padova) poi, abbiamo avuto la grande opportunità di avere uno spazio dove sperimentare.

Avere uno spazio a disposizione significa poter scegliere cosa è più adatto sulla base del contesto e ci ha aiutato molto a progredire con la ricerca. La prima versione è stata realizzata in una forma installativa, sia per Fondazione Alberto Peruzzo sia per INOTA Festival.

In queste passate occasioni abbiamo utilizzato le tecnologie a disposizione, per noi in quel momento adatte alla narrazione che intendevamo raccontare. Le sequenze di immagini si trasformavano una nell’altra, creando così un senso di allucinazione e di flusso di coscienza molto simile all’esperienza del sogno.

Successivamente, anche grazie all’evoluzione tecnologica e alla possibilità di generare queste immagini in tempo reale, abbiamo pensato che potesse essere interessante fare qualcosa dal vivo, recuperando un’idea che avevamo formulato in prima battuta, ovvero quella di lavorare con un danzatore. Poi tutto è successo in una concatenazione di eventi e di opportunità. Abbiamo così incontrato Diego Tortelli, coreografo del Centro Coreografico Nazionale Aterballetto, con cui già da tempo volevamo collaborare.

Come vi siete relazionati con queste banche dati? In cosa e dove i loro criteri di archiviazione hanno incontrato i vostri?

Matteo Salsi: La primissima cosa che abbiamo fatto era noi stessi provare a capire che cos’era questo dataset. Parliamo di 28 mila e più sogni. Era impossibile leggerli tutti. Oggi la tecnologia ci dà l’opportunità di sintetizzare queste informazioni visivamente; possiamo distribuire questi sogni in uno spazio tridimensionale ordinandoli per significato ed è letteralmente quello che abbiamo fatto: una nuvola di punti dove i sogni erano raggruppati per cluster tematici. Era possibile capire quali erano i temi più ricorrenti all’interno del dataset con una cognizione di causa maggiore rispetto a quella che può fornire una navigazione casuale dei dati.

Abbiamo così estrapolato temi ricorrenti, attraverso parole che ricorrono più frequentemente di altre. Ci siamo chiesti come poter restituire l’idea di una cosa così grande. È a questo punto che si è presentato il lavoro curatoriale. Siamo andati noi a collegare i punti e a tracciare una linea di una narrazione che non abbraccia l’intero dataset, piuttosto la storia che eravamo interessati noi a raccontare.

Prima avete accennato alla vostra metodologia di lavoro. Possiamo tornare su questo punto? Quando sono venuta nel vostro studio, ormai qualche anno fa, sono stata investita da una enorme energia con la presenza di tanti professionisti di formazione diversa, tutti interessati ad ascoltarsi gli uni con gli altri. Potete soffermarvi un pochino su questo aspetto legato alla progettazione?

Il nostro modo di lavorare in squadra è totalmente sinergico. Per quanto ci siano persone che si occupano di singole parti del progetto, c’è una continua contaminazione tra di noi. Spesso studiamo un tema, avviamo collaborazioni anche con scienziati, investiamo nella ricerca, per poter poi tirare fuori quante più idee ed esperienze possibili.

Come accade per molti dei nostri progetti, Onirica () è in continua evoluzione, ha preso forme diverse, più fisiche pensate per gallerie e musei, altre performative come quella pensata per Videocittà, altre ancora le continueremo ad esplorare in futuro. Questa è una modalità ricorrente del nostro modo di lavo rare.

Mi piacerebbe, a questo punto, entrare nel merito delle dimensioni sonora e musicale. Che ruolo hanno giocato nell’orchestrazione complessiva del lavoro e attraverso le varie versioni?

Mattia: Nella prima versione di Onirica (), quella installativa, volevamo lasciare più spazio alle parole.

Lavorando con i ricercatori molto spesso ci veniva detto che connotare emotivamente un racconto di un sogno poteva in qualche modo spostarne il significato. Ovviamente non siamo stati completamente neutri; siamo artisti. Allo stesso tempo abbiamo voluto cercare un equilibrio con l’aspetto scientifico. Inoltre, in questa prima versione il lavoro sulle voci è stato molto interessante. Volevamo avere voci diverse per ogni sogno; ciascuna doveva rappresentare la persona che sognava, una voce di un bambino, di una donna, di un uomo, di un adulto, di un anziano.

Inizialmente avevamo valutato la possibilità di realizzare le voci con attori veri. Poi abbiamo capito che era praticamente impossibile ottenere questa varietà, oltre ai costi molto alti di questo tipo di processo.

Così abbiamo utilizzato sistemi di generazione di voce artificiale. In fase di lavorazione ci siamo confrontati con diverse questioni: le voci artificiali hanno anche loro allucinazioni. Su dieci prove, una era buona. Alcune voci cambiavano il timbro, iniziavano a urlare, prendevano direzioni inaspettate:. Alla fine però ci siamo resi conto che, per tutte quelle prove riuscite con successo, la resa era veramente molto realistica ed efficace, molto migliore di quanto non lo fosse stato con attori veri.

Nella versione performativa abbiamo reintegrato un’atmosfera musicale molto connotata che avevamo escluso per la prima. Quindi, alcune idee di base, narrative, che abbiamo escluso nella prima versione le abbiamo poi riprese nelle successive.

Quale è il ritmo che scandisce la narrazione di Onirica () nelle sue varie versioni?

Mattia: Un ciclo di sonno completo, che comprende diverse fasi (non-REM e REM), dura in genere 90 minuti. Quindi, 90 minuti di sonno rappresentano un ciclo quasi completo e in una notte di otto ore il sonno attraversa circa 5 cicli, la prima fase di ogni ciclo era un sogno profondo, l’ultima fase è sempre un sogno REM .

Noi sapevamo in che fase del sonno sono emersi i sogni poi registrati nel dataset dell’Università di Bologna. I ricercatori svegliavano i pazienti in momenti molto precisi della notte, quando notavano una certa attività cerebrale in corso, tramite EEG e altri elettrodi connessi ai volontari. Questi parametri avevano la funzione di evidenziare ai ricercatori in quale fase del sonno si trova il soggetto in un determinato momento. Al risveglio, i volontari spiegavano quello che stavano sognando in quel momento al momento del risveglio, che veniva poi trascritto verbatim dai ricercatori.

Nella versione installativa di Onirica (), abbiamo letteralmente tenuto questa scansione del tempo: l’opera è suddivisa in cinque cicli, proprio come in una notte di sonno, mantenendo i sogni del profondo e nella fase del sonno profondo e i sogni REM nella fase REM, ripetendo ciclicamente questo pattern. L’idea era quella di rappresentare un viaggio nel spazio onirico e il suo risveglio.

Anche la performance è divisa in cinque capitoli. Ognuno di questi momenti racconta alcune specifiche tipologie di soglie. Per esempio, il primo capitolo racconta di sogni dove si è soli, il secondo di situazioni dove si incontrano altre persone, familiari, amici, eccetera.

Il terzo capitolo si confronta con gli incubi, il quarto con incontri con persone che non ci sono più e il quinto di risvegli nel sonno. In ciascuno di questi capitoli la musica indirizza molto l’aspetto emotivo. Le voci, in questo caso, sono state realizzate in maniera diversa rispetto all’installazione: sono state registrate tutte dalla stessa persona, da Matteo Amerena, parte del nostro team. Anche questa volta la combinazione tra voce e musica non è stata semplice da gestire. Sono ritmi che si devono intrecciare con il tutto e soprattutto con la danza.

In Onirica (), centrale è la coreografia di Diego Tortelli con il danzatore Hélias Dorvault. Come entra il corpo nella narrazione e nel sogno?

Mattia Carretti: Sicuramente nella versione live, la coreografia e la presenza del corpo aumentano esponenzialmente il livello di complessità di tutto. Nella performance si è scelto di dare al danzatore libertà artistica totale di movimento e di espressione. Poi sono state fatte certamente delle scelte coreografiche pensate sulla base della storia che si stava raccontando.

La coreografia ha seguito la storia e non è stata vincolata in nessun modo alla versione installativa. Inizialmente ci siamo chiesti perché avremmo dovuto mettere un corpo sul palco, cioè che cosa vogliamo raccontare con questo elemento in più.

Ed è stato interessante, secondo me, lo studio che è stato fatto con Diego Tortelli. A lui abbiamo chiesto di ragionare su due elementi fondamentali in relazione al comportamento del corpo nel sonno. Da una parte, sulle mioclonie notturne, quei movimenti involontari come capita quando hai la sensazione di cadere e ti svegli di soprassalto. Si tratta di piccoli disturbi del sonno. Tutti noi ne soffriamo in modo più o meno grave. Dall’altra invece abbiamo considerato il corpo per come questo è percepito all’interno del sogno, con le sue molteplici possibilità di movimento altrimenti impossibili nella realtà.

Abbiamo quindi lavorato coreograficamente su queste due dimensioni; poi Héliasha messo del suo nell’interpretare queste direzioni.

Musica, suono, danza e corpo sono componenti vitali e importantissime di questo progetto. Lo è anche la parte visiva e quella di prompt design che ha contribuito alla generazione delle immagini. Potete raccontarci di questo aspetto? Cosa significa e quali sono state le sfide?

Matteo: Il Prompt Design è stata certamente una sfida. Lo strumento di per sé è molto limitato. Spesso ci siamo trovati ad interpretare a nostra volta il racconto del sogno. Quello che ricevevamo dai dataset era un report testuale; la grandissima sfida era di tradurlo in una dimensione visivo-sonora e molto spesso i modelli di generazione delle immagini non portano ai risultati visivi che ti aspetteresti, quindi devi trovare delle strategie per ingannarli.

Ricordo un prompt dove c’erano questi bambini a forma di uova sul ponte di una nave e poi si tuffavano nell’acqua in mezzo a dei pesci. Il prompt era una convoluzione di uova nel mare con delle braccia e i bambini vestiti da uovo per carnevale. Il modello non era stato allenato a riconoscere questo immaginario. Quindi, spesso e volentieri, è stato necessario trovare una strategia per portare il modello dove volevamo noi.

Abbiamo lavorato con un image to image piuttosto che un text to image puro. Siamo partiti da un’immagine di base per vederla come una sorta di immagine di Rorschach per poi chiedere al modello di interpretarla. Questa è stata un po’ la chiave di impiego del modello per tutta la performance.

Mattia: È stata una vera e propria sfida riuscire ad avvicinarci a qualcosa che sentivamo essere giusto per il progetto. Spesso e volentieri le immagini non riuscivano bene, erano molto stereotipate.

Ti rendi conto di quanto questi modelli soffrano di molti bias, bias che noi stessi, esseri umani occidentali portiamo con noi, con la nostra cultura e il nostro ideale. Ci rendevamo conto che queste immagini, a primo impatto molto belle, erano in realtà troppo perfette, tutte uguali, mancava l’anima, non ci affascinavano tanto quanto poi ci hanno affascinato quando abbiamo provato un po’ alla volta in tanti modi ad hackerare il sistema, a modificarlo, a creare una nostra pipeline, a lavorare per tirar fuori qualcosa di più originale. Abbiamo imparato molte cose e ci siamo accorti che poteva essere un ottimo strumento. Così abbiamo anche pensato che poteva essere giusto fare divulgazione e condivisione di conoscenza con persone che sono anche giustamente intimorite da questo tipo di progresso, conoscendone e valutandone rischi e opportunità. Questo è quello che abbiamo cercato di fare alla Fondazione Peruzzo. Oltre all’installazione, abbiamo cercato di raccontare quello che abbiamo imparato durante tutto il processo.

Come vi siete relazionati con gli spazi e il contesto di Videocittà?

Matteo: Siamo molto legati a questo luogo perché nel 2022 abbiamo realizzato l’installazione Luna Somnium all’interno del Gazometro. È stata la prima installazione ad essere stata ospitata all’interno di quello spazio. È stata un’esperienza per noi estremamente importante. Al di là del progetto in sé, abbiamo capito che impatto l’arte può avere sulla comunità. Restituire il luogo alla comunità attraverso un progetto artistico è stato molto importante, e per noi molto emozionante.

Quindi abbiamo un legame con questo spazio che è diventato anche personale. Avere la possibilità di tornarci con un altro progetto è molto emozionante. Per quanto riguarda Onirica (), ci siamo trovati di fronte ad una situazione molto diversa da quella per la quale il progetto era stato pensato, ovvero per un teatro o uno spazio chiuso con luce e suono controllati. Qui sappiamo che siamo in un contesto all’aperto dove alcune componenti non sono del tutto controllabili.

Alla fine, la performance è andata estremamente bene, e siamo stati molto contenti del risultato nonostante appunto, come anticipato sopra, fossero una location e un contesto diversi dal solito, diversi da quello che ci immaginiamo per Onirica (). Questa performance è un’opera che, come probabilmente si è capito, ha una struttura e una narrazione ben precisa, con diversi ritmi e climax, ed è quindi strano che il pubblico possa arrivare e lasciare la platea a proprio piacimento. Al tempo stesso, nonostante questo, abbiamo ricevuto feedback estremamente positivi, e anche molto interessanti: più vediamo lo spettacolo in tour, più ci relazioniamo con il pubblico e più ci rendiamo conto che è un’opera che ha anche diversi momenti insoliti, quasi inquietanti. Proprio come nella dimensione onirica: questa successione di visioni, di immagini mentali, non può essere controllata e a volte ci ritroviamo a vivere momenti anche di estrema tristezza o paura, felicità o bizzarria – come essere sulle montagne russe. È proprio questo che volevamo suscitare negli spettatori, e siamo felici che la performance sia stata così tanto apprezzata.

Ovviamente, ringraziamo di cuore l’intero team del festival: Francesco Dobrovich, Michele Lotti, e l’intero, fantastico team tecnico con cui abbiamo lavorato.

immagini (all ):«Onirica ()», live at Videocittà, 2025

Onirica () è progetto di fuse* | Regia: Mattia Carretti | Produzione esecutiva: Mattia Carretti, Luca Camellini | Coreografia: Diego Tortelli | Performer: Hélias Salvador Dorvault | Musica e sound design: Riccardo Bazzoni | Responsabile del visual design: Matteo William Salsi | Sviluppo software: Matteo William Salsi, Alessandro Mintrone, Matteo Amerena | Selezione dei sogni: Alessandro Mintrone | Voci dei sogni: Matteo Amerena | Progettazione dei prompt: Alessandro Mintrone, Matteo William Salsi, Mattia Carretti, Matteo Amerena | Progettazione luci: Stefano Cane, Matteo Amerena | Direzione tecnica: Matteo Amerena | Ingegneria hardware: Matteo Amerena, Matteo William Salsi, Alessandro Mintrone | Comunicazione e copywriting: Virginia Bianchi | Assistenti di produzione: Filippo Aldovini, Virginia Bianchi, Martina Reggiani | Documentazione fotografica e video: Matteo Torsani, Emmanuele Coltellacci. Le immagini di Onirica () sono basate su una pipeline che integra la libreria Diffusers: state-of-the-art diffusion model sviluppata da Huggingface e OpenGL Shading Language (GLL). La performance è realizzata con MOCAP Perception Neuron di NOITOM.
Fondato nel 2007, fuse* è uno studio dedicato all’esplorazione del potenziale creativo delle tecnologie contemporanee e della loro profonda influenza sul modo in cui viviamo, pensiamo e ci relazioniamo con il mondo.
Guidato dai fondatori Mattia Carretti (1981) e Luca Camellini (1981), lo studio riunisce un gruppo multidisciplinare di artisti, architetti, ingegneri e designer che collaborano alla creazione di progetti innovativi, opere d’arte, spettacoli e mostre, dedicandosi al contempo alla ricerca e alla sperimentazione. Ispirati dall’osservazione dei fenomeni sociali e naturali e alimentati dalle scoperte scientifiche e dalla ricerca, i lavori di fuse* evolvono attraverso collaborazioni con specialisti e centri di ricerca, integrando conoscenze avanzate e modi di pensare diversi.
Noto per le installazioni su larga scala e le performance dal vivo, lo studio sperimenta costantemente nuove relazioni tra fisico, digitale, naturale e artificiale, esplorando una vasta gamma di strumenti, tra cui scultura, stampa, video, luce e suono. Visitate qui il sito dei fuse* per scoprire il profilo dello studio e tutta la squadra.

 

 

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In dialogo con Roberto Ghezzi

Par : Laura Catini
19 juillet 2025 à 18:08
Il progetto artistico “Iceland still”, ideato da Roberto Ghezzi e dedito a una nuova spedizione di ricerca in Islanda, si è concentrato nei mesi di giugno e luglio, nella parte meno civilizzata dell’isola, quella orientale, tra Egilsstaðir, Höfn e Landmannalaugar. La realizzazione si è svolta in collaborazione con fotografo Antonio Manta e il pilota di droni Leonardo Vianello Mizar, gli sponsor tecnici Light Adventures, BAM di Antonio Manta, e il supporto di Phoresta ETS.
La mia riflessione sul lavoro di Roberto Ghezzi mi porta inequivocabilmente a parlare in termini critici di un termine che oggi sta felicemente subendo un riesame da parte del settore: il tempo. È indubbio che i progressi informatici e tecnologici hanno, anzitutto, un impatto sulla vita umana e sul tempo naturale dell’individuo. Una scansione delle ore che non trova la sua corrispondenza nemmeno nello scorrimento del tempo circoscritto dallo strumento di misurazione, l’orologio, invenzione artificiale dell’uomo stesso.
Si può far riferimento, con tale connotazione, già ad Aristotele che ne parlava in relazione allo svolgersi di eventi e in rapporto con la metamorfosi. Ed è proprio il mutamento che il nostro indaga, ricercando la possibilità di una sussistenza simultanea di quello scorrere naturale del tempo in una latitudine ove tutto sembra fluire più lentamente, quasi fermandosi, in un paesaggio che “non ha alberi, né persone, è immobile” – sostiene Ghezzi.
Va anche sottolineato che l’artista si distanzia dallo Jeweiligkei, quell’ora naturale che dimora nella determinazione dell’esistenza umana sin da sempre, nell’esserci dell’essere come tempo. Fa riferimento, infatti, come autentico prosieguo di una ricerca in itinere e generatrice di nuovi nessi, a un’inversione di sguardo che vuole la Natura come soggetto principe e agente del suo stesso lavoro. Ne parlo in dialogo con l’artista.

Laura Catini: Il tempo è stato presente, seppur sopito sinora, nel tuo esplorare e restituire la Natura. La ricerca sulla sua scansione prende luogo, in un paesaggio che sembra essere ossimoro per l’indagine, in Islanda. In una latitudine, in cui affermi essere tutto sospeso. Quasi a voler rendere evidente qualcosa che non c’è ma si percepisce. È un esame molto legato alla propria psiche…

Roberto Ghezzi: Ho scelto l’Islanda proprio per questo. In quest’isola gli avvenimenti “evidenti” sono rari, si muovono nuvole, icebergs, si muovono le onde del mare, ma nessun albero e, dove sono io, nessun essere umano o animale tranne rari uccelli a tradire la presenza del tempo. Che “forse” c’è, ma non si vede. Si, si intuisce, dentro di noi. Ma se lasciassimo soltanto parlare ciò che ci circonda?  Lo sentiremmo ancora così bene, questo flusso, questa freccia verso il futuro?

È difficile dichiarare l’attuale spedizione di ricerca come un fondersi tra arte e scienza, come sostiene la Fisica quantistica in relazione al tempo e nonostante le più recenti scoperte…

Per quanto la mia preparazione non mi permetta di essere un cultore della materia, sono affascinato dagli ultimi studi sul tempo affrontati da molti fisici nel corso degli anni. Ancora mi sconvolge la relatività, e sono più di 100 anni che ne abbiamo contezza. Figuriamoci pensare all’ipotesi della “non esistenza” del tempo.

Lavorando da sempre con lunghe esposizioni (naturografie, foto stenopeiche, ecc), si può però dire, in effetti, che io abbia lavorato sempre con un susseguirsi di eventi, con un accumulo di tracce. Ecco, in questo caso lo studio si è approfondito proprio in tal senso, inseguendo la sequenza di queste tracce, focalizzando l’attenzione su ciò che, dato un certo paesaggio, variava rispetto all’attimo precedente in quello stesso paesaggio. E vi assicuro che in 24 ore, anche in un territorio immobile come l’Islanda degli altipiani interni, si muovono molte cose.

In questa occasione hai deciso di abbandonare le “camere oscure” dell’Annapurna in Nepal per far impiego di una tecnologia di ultima generazione…

Sì, mi piace sempre variare l’approccio al paesaggio, pur rimanendo fedele alla mia ricerca. Grazie al supporto del fotografo e stampatore Antonio Manta ho usufruito di attrezzature di ultima generazione: può sembrare banale, ma fotografare ininterrottamente lo stesso paesaggio per 24 ore richiede prestazioni davvero elevate, in termini di macchina, di batterie, di schede di memoria…e se poi ci si mette anche il clima artico.

Nonostante l’utilizzo di una strumentazione sofisticata, si prevede l’ingresso di alcuni compromessi nel processo creativo…
Non so ancora come realizzerò la restituzione finale dell’opera. Non è detto che sia una fotografia digitale (che già di per sé, vi anticipo, sarebbe un lavoro di una complessità estrema perché immaginate cosa può significare sovrapporre 1500 scatti da 300 megabyte ciascuno, in un unico livello, conservando trasparenze e visibilità). Potrebbe comunque essere anche un’installazione analogica. In definitiva, come spesso è accaduto in passato con altre ricerche, è nel processo, nel percorso, nel viaggio, che ho avuto le più grandi soddisfazioni.

ICELAND STILL, progetto di Roberto Ghezzi, Islanda Orientale, Spedizione di ricerca tra arte e scienza
Sedi varie: Egilsstaðir – Höfn – Landmannalaugar, giugno-luglio 2025
In collaborazione con Antonio Manta e Leonardo Vianello Mizar | Sponsor tecnici Light Adventures e BAM di Antonio Manta | Supporto Phoresta ETS | Communication Manager: Amalia Di Lanno

immagini: (cover 1): Roberto Ghezzi, «Iceland Still», 2025, Courtesy the Artist (2) Roberto Ghezzi, «Iceland Still», 2025, Courtesy the Artist (3) Roberto Ghezzi, «Iceland Still», laguna ghiacciata, multipla esposizione 22′, 2025 (4) Roberto Ghezzi, «Iceland Still», Islanda interna, lunga e multipla esposizione 10′, 2025 (5) Roberto Ghezzi, «Iceland Still», i deserti neri, lunga esposizione, 2025

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Intervista | REPLICA (Pt2)

21 janvier 2025 à 23:22

Prosegue la conversazione tra Elena Barison con Lisa Andreani e Simona Squadrito, fondatrici di REPLICA, Archivio italiano del libro d’artista, archivio italiano del libro d’artista, affrontando il tema dell’archivio e delle pubblicazioni esoeditoriali attraverso formati molteplici, sul piano curatoriale ed editoriale, mettendo in discussione le loro definizioni e modalità di presentazione.

Elena Barison: Partendo dal concetto che fare archivio possa essere letto come una metodologia artistica, avete mai riflettuto se REPLICA, nel suo modo di produrre un archivio di libri d’artista, possa assumere anche la dimensione di pratica artistica?

Nel nostro caso non abbiamo mai sentito il bisogno di sviluppare una pratica che vada oltre il curatoriale o la mera ricerca, ma sicuramente, più in generale, siamo state attratte dall’archivio d’artista quale materia interessante da esplorare e da cui trarre ispirazione per nuove forme di progettualità. In particolare, le modalità con cui gli artisti creano le regole del proprio archivio o come si approcciano ai materiali editoriali e cartacei si trova in parte esaminata all’interno di alcune interviste della rubrica Archive Actualized come quella sull’Archivio di Chiara Fumai realizzata con FUR, ma anche quella rivolta all’Associazione Culturale Alberto Grifi. Le biblioteche degli artisti, il loro modo di ordinare scatoloni, seguendo un’identificazione che segue i nomi degli amici e più stretti collaboratori, ci ha portato a leggere questi spazi anche come archivi di relazioni.

Nel 2021 avete preso parte a Iniziative di ii. Le giornate di Iniziative sono state la prima occasione per fuoriuscire dal contesto museale e artistico, per intervenire attivamente nello spazio urbano e tra le persone. In che modo avete presentato REPLICA al pubblico?

L’azione di REPLICA durante il festival si è diffusa a macchia d’olio tra i partecipanti, sviluppandosi durante tutti i giorni delle iniziative. Accompagnando di volta in volta tutte le performance che costituivano il programma, al pubblico è stata consegnata la nostra edizione dal titolo Il biglietto che esplode, composta da dieci buste ognuna contenente un estratto di un capitolo dell’omonimo romanzo di William Burroughs. Attraverso il metodo del cut-up, le parole dello scrittore erano rivisitate e ogni busta era stata riempita di piccoli esplosivi. Il pubblico poteva liberamente conservarle e ottenere al termine dei dieci giorni di festival l’edizione completa oppure aprirle e rendere più movimentata l’atmosfera attraverso lo scoppiettio dei petardi.

Nel 2022 avete presentato ad ArtVerona, Un Tulipano Rosso. Antigruppo siciliano, e nel 2023 avete vinto il premio dell’Italian Council con il progetto Antigruppo siciliano: uno studio translocal. Come è nato l’interesse per l’Antigruppo?

Eravamo in vacanza insieme in Sicilia quando Lisa ha introdotto l’argomento dell’Antigruppo siciliano, che aveva scoperto da poco. Ci siamo subito appassionate a questo allora sconosciuto movimento poetico, ne abbiamo riconosciuto il valore, anche quello legato al suo oblio: l’Antigruppo non è ricordato nemmeno in Sicilia ed è stato cancellato dalla memoria storica italiana, mentre paradossalmente è più riconosciuto negli Stati Uniti. Il progetto è nato con una certa spontaneità, ma ora vorremmo realizzare una mostra articolata che integri tutte le nostre varie pratiche: il libro, il manifesto, la performance e il reading.

Fin dai primi mesi di ricerca abbiamo individuato i temi fondamentali dell’Antigruppo:  l’unione di parola poetica e azione politica militante (Poesis e Praxis), la parola poetica unita all’azione politica, vissuta nella strada, in piazza, come un libro aperto a diversi contesti; la dimensione transnazionale, che si manifesta sia nel legame con gli Stati Uniti, grazie alla presenza di un esponente americano, sia nel rapporto con il Mediterraneo – quest’ultimo aspetto lo stiamo approfondendo particolarmente in relazione alla censura di Un popolo è un popolo di Rolando Certa, una poesia che esprimeva la vicinanza di uno dei fondatori dell’Antigruppo al popolo palestinese; e infine l’editoria alternativa in opposizione a quella ufficiale dei poteri forti, da loro nominata establishment culturale.

Dal momento in cui avete avviato le ricerche sull’Antigruppo siciliano, l’argomento ha in qualche modo influenzato il vostro approccio e metodologia? In un certo senso vi state impegnando nel portare avanti con REPLICA la guerriglia urbana e sociale dell’Antigruppo per provocare un cambiamento o anche solo per promuovere la pace?

La ricerca sull’Antigruppo ha sicuramente lasciato dei segni importanti in quella che è la ricerca più in generale di REPLICA. Anche se non ne abbiamo mai parlato, sentiamo un bisogno forte di una dimensione di comunità e di condivisione. È come se ci fossimo allontanate in maniera naturale da una serie di produzioni che potevano avere un mero risultato stilistico e grafico, come se si fosse implementato uno sguardo e un’idea di attivazione della nostra ricerca, di questi oggetti, attraverso il coinvolgimento degli altri.

Abbiamo presentato i progetti dell’Antigruppo con eventi di natura collettiva e collegiale, attraverso dei reading, in cui si ascoltava l’altro, donandosi e concedendo qualcosa di più forte e di tangibile nella comunità di persone. Rispetto alle presentazioni fatte si è innescato un interessamento che non ci aspettavamo, anche quando siamo andate a presentare la ricerca a Helsinki nel contesto del festival Islands & Seas, New Spring Garden e in collaborazione con PUBLICS (30 maggio 2024), c’erano molte persone interessate a visionare i materiali, sensibilizzate dal racconto e dall’idea che comunque negli anni Settanta esistessero incontri tra i popoli del Mediterraneo. Il lavoro svolto dall’Antigruppo andrebbe ripensato come reenactment per parlare di questioni attuali e di problematiche che continuano a persistere.

Dopo il reading a Monbijoupark (Berlino, 24 luglio 2024) – organizzato a seguito della richiesta di censura di una delle poesie dell’Antigruppo da parte dell’Archivio Conz, uno dei partner culturali che inizialmente ci aveva sostenuto nel bando Italian Council – abbiamo sentito la necessità di cercare altri alleati, altre persone, di uscire dai posti degli addetti alla cultura e di andare nei luoghi pubblici, con la gente disattenta e impreparata.

Un altro momento importante per noi è stato il secondo reading, Una Freccia Contro il Carro Armato (22 settembre 2024), fatto a Casa Cicca Museum (Milano) con tutti i crismi e le persone erano davvero coinvolte. È stato emozionante.

La natura sfuggente del libro d’artista ci ha portato a esplorare molteplici modalità per condividerlo con il pubblico. Il nostro progetto si sviluppa su più livelli: archivia e colleziona, agisce come dispositivo di ricerca, utilizza linguaggi sempre diversi, mantenendo un approccio stimolante. Un libro può generare una serie di azioni molto diverse tra loro, funzionando come un sistema reticolare.

Dall’Antigruppo siciliano abbiamo appreso come sviluppare un progetto di ricerca solido. Il nostro approccio segue una filosofia rizomatica, che trae forza proprio dalle nostre profonde differenze personali.

REPLICA
See also:
 Interview (Pt1), Arshake, 17.01.2025

 

immagini: (Cover 1) REPLICA, Il biglietto che esplode – Iniziative di ii, a cura di Lisa Andreani, Maziar Firouzi, Francesca Pionati and Tommaso Arnaldi, Roma 08.05 – 19.05.2021, courtesy gli autori (fig. 2) Installation view, Un Tulipano Rosso. Antigruppo siciliano, a cura di REPLICA e Viaraffineria, intervento di Giuseppe De Mattia, ArtVerona 2022, credits Matteo De Nando (fig. 3) Antigruppo siciliano: uno studio translocal, pubblicazione indipendente realizzata con il supporto di Italian Council (XII Edizione, 2023), a cura di REPLICA (Lisa Andreani e Simona Squadrito), 2024. Design: Miriam Sannino e Valerio Di Lucente; (fig. 4) Una Freccia Contro il Carro Armato, reading di poesie dell’Antigruppo Siciliano, a cura di REPLICA (Lisa Andreani e Simona Squadrito), Emma Rose Hodne, Floriana Grasso, Carola Provenzano e Giulia Currà, Casa Cicca Museum, Milano, Settembre 2024 (fig. 5) ARROW AGAINST THE TANK, reading a cura di REPLICA (Lisa Andreani e Simona Squadrito) e CROSSLUCID, Monbijoupark, Berlino, Luglio 2024.

 

 

 

 

 

 

 

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Intervista | REPLICA (Pt1)

17 janvier 2025 à 17:09

Lisa Andreani, attualmente dottoranda allo IUAV di Venezia con un progetto sulla mediazione culturale, e Simona Squadrito, co-fondatrice di Kabul Magazine e docente allo IED di Milano, raccontano, in dialogo con Elena Barison, del progetto REPLICA da loro fondato come archivio italiano del libro d’artista, affrontando il tema dell’archivio e delle pubblicazioni esoeditoriali attraverso formati molteplici, sul piano curatoriale ed editoriale, mettendo in discussione le loro definizioni e modalità di presentazione.

Elena Barison: Ciao ragazze, potete introdurre ai lettori di Arshake il progetto REPLICA, come è nato e qual è stata la sua genesi?

In un primo momento, Simona aveva aperto un piccolo corner dedicato ai libri d’artista presso la Libreria Utopia di Milano, ma gestire da sola il progetto, già di per sé molto articolato, risultava difficile. Ci siamo incontrate quasi sette anni fa e, condividendo interessi comuni, abbiamo dato vita a REPLICA nel 2019, un progetto di ricerca e curatoriale dedicato ai libri d’artista.

La decisione di creare un archivio italiano del libro d’artista è nata dalla consapevolezza che in Italia mancava una realtà di questo tipo, soprattutto con uno sguardo verso la contemporaneità. Nel primo anno, attraverso due open call, abbiamo iniziato a raccogliere libri di artisti, designer, performer, mantenendo un approccio flessibile alla collezione, che ora si espande grazie a donazioni spontanee e acquisizioni. È interessante notare come, alla luce del fatto che sia difficile definire cosa sia esattamente un libro d’artista, riceviamo volumi molto diversi tra loro.

Negli ultimi anni il percorso di REPLICA ha assunto direzioni specifiche: abbiamo sviluppato un’attenzione particolare per gli anni Settanta e Ottanta, raccogliendo pezzi storici, e dal 2023 ci stiamo dedicato principalmente alle ricerche sull’Antigruppo siciliano, tema sul quale abbiamo vinto la dodicesima edizione dell’Italian Council. A breve uscirà il primo libro realizzato grazie ai fondi del premio, mentre a febbraio consegneremo a Postmedia Books la bozza per un volume teorico sull’Antigruppo, che conterrà tutta la storia della nostra ricerca.

Rispetto alla gestione dell’archivio, per un periodo la collezione era ospitata a Villa Vertua Masolo a Nova Milanese, dove avevamo realizzato dei display specifici, lavorando e riflettendo sul concetto di esposizione del libro. Con la chiusura della Villa, dovuta prima al Covid, poi a un restauro e infine alla conclusione del mandato di Simona come direttrice, abbiamo iniziato a sviluppare l’idea di un archivio nomade. Presso lo Spazio Volta di Bergamo e alla Scuola indipendente per le arti visive e gli studi curatoriali di Lecce, PIA, abbiamo inviato in occasione del festival Langue&Parole delle scatole di libri, selezionati in base ai temi degli incontri o dei progetti, come ad esempio il viaggio o gli studi bibliografici italiani. La collaborazione con PIA è stata particolarmente interessante perché prevedeva non solo un momento di attivazione performativa dei volumi da parte degli studenti, ma offriva anche alla scuola la possibilità di utilizzare il materiale fornito da noi.

Nel 2023 abbiamo tenuto insieme il corso di scrittura creativa dell’Accademia di Belle Arti di Siracusa, un’esperienza che ha rappresentato un importante lavoro sull’archivio: attraverso i laboratori annuali proposti agli studenti emergono nuove riflessioni e progetti, partendo dalla loro analisi del materiale di REPLICA.

Durante l’ideazione dei vari progetti curatoriali, quali sono state le sfide principali che vi hanno posto di fronte i materiali esoeditoriali? Secondo voi ci sono state delle occasioni espositive nelle quali è particolarmente riuscita la restituzione della ricerca sul libro d’artista?

All’inizio, insieme al tema dell’archiviazione, ci siamo interrogate sulle modalità espositive dei manufatti, che per loro natura permettono una vastità di forme ed esperienze, ma non volevamo creare un effetto vetrina che fossilizzasse l’oggetto e la sua essenza democratica. Non abbiamo trovato una risposta definitiva, anche in materia di salvaguardia, quindi abbiamo sempre affiancato il lavoro curatoriale a quello editoriale (attraverso ATPreplica e la rubrica per NERO Editions).

Con la mostra Multipli e unici a Edicola Radetzky a Milano nel 2019 abbiamo presentato il paradigma forse più immediato per raccontare il libro d’artista: come pezzo unico o nella sua dimensione moltiplicata. Il display, realizzato da Nicola Melinelli, permetteva di esporre gli oggetti aperti, con parti in tessuto che formavano delle amache, e abbiamo presentato delle compilation musicali di Davide Bertocchi, così come una performance su un libro realizzato da Valerio Veneruso.

Sul tema dei multipli abbiamo anche inaugurato nel 2023, la sezione Multipli ad Arte Fiera Bologna, che ci ha offerto una nuova occasione per riflettere sull’oggetto e sul termine, per esplorarne la dimensione e comprendere come il libro d’artista crea opere-narrativo-performative e sfugga a definizioni univoche, essendo soggetto a una certa problematicità e ambiguità.

A Bologna, pur non essendosi creato il contesto per dare forma a un display radicale, il processo di inclusione ed esclusione si è rivelato altrettanto interessante.

Una delle mostre più significative per le riflessioni generate è stata Spoken Narrative a Villa Vertua Masolo nel 2020, dove abbiamo collaborato con Francesco Pedraglio, che oltre a gestire una casa editrice di pubblicazioni legate alla narrativa e alla fiction, crea opere-libro e opere performative. L’allestimento della mostra prevedeva drappi di tessuto appesi che creavano tavoli immaginari con mensole e oggetti, come elementi da leggere e attivare. Quando il collezionista di uno dei libri esposti ci ha richiesto una teca protettiva, abbiamo proposto di realizzare un libretto a supporto della lettura ulteriore dei libri e dei materiali presenti entro le teche, quasi restituendo una voce ai loro autori. Il libro in quella sede è diventato un luogo, in cui si sono attivate comunità di voci diverse.

Con il progetto Archive Actualized, prima editoriale sulla piattaforma NERO e poi espositivo, è stato possibile aprire nuovi quesiti. La rubrica iniziale è nata nel 2022 dall’idea di mappare i luoghi in cui i libri d’artista sono conservati. Per farlo abbiamo raccolto una serie di interviste: alla Fondazione Baruchello, al collezionista Giuseppe Garrera, ai collezionisti di P420 e all’Archivio di Alberto Grifi, grazie alle quali abbiamo investigato le singole metodologie di archiviazione e di lettura di cosa sia il libro d’artista o il libro oggetto. Il progetto è stato poi presentato a Spazio Mensa a Roma, in dialogo con il designer Valerio Di Lucente e Studio Julia. Con un allestimento molto semplice, costituito da materassini in gommapiuma sui quali poggiavano dei fogli con l’introduzione di Archive Actualized e da del nastro adesivo blu con cui abbiamo creato una grande griglia, in contrasto con il colore giallo della stanza. Con dei chiodi abbiamo appeso degli estratti delle interviste su fogli A4, insieme ai contatti e agli indirizzi degli archivi per invitare il pubblico a visitarli. In quel caso abbiamo presentato anche una sorta di anticipazione dell’intervista all’Archivio di Alberto Grifi esponendo un film del regista romano.

Un esperimento che ricordiamo con grande affetto è anche quello con Franco Ariaudo, una lecture performance di Sportification, in cui l’artista ha ideato una modalità ulteriore di presentare il progetto libro. Oppure, la mostra con Giuseppe De Mattia a Spazio Chiosi a Lugano, nel 2021, in cui abbiamo ideato Fogliaccio, un lavoro che parla di archivio e di schedatura archivistica della casa editrice Tasso, includendo l’esistente e l’inesistente. È come se nel riflettere su tutte queste forme del mostrare e del parlare, l’oggetto richiamasse una dimensione altrettanto libresca per essere esperito.

… to be continued…

Lisa Andreani è attualmente dottoranda allo IUAV di Venezia con un progetto sulla mediazione culturale. Nel corso degli anni pregressi ha partecipato alla realizzazione di progetti molteplici, all’interno di istituzioni come il MACRO e il MAXXI di Roma, co-curando più recentemente :After. Festival diffuso di Architettura in Sicilia (22-29 aprile 2023).
Simona Squadrito è co-fondatrice di Kabul Magazine e docente allo IED di Milano, dove insegna un corso su Pasolini e su Arte e intelligenza artificiale, mentre all’Accademia di Belle Arti di Siracusa MADE PROGRAM insegna fenomenologia dell’arte, estetica e scrittura creativa.

immagini: (Cover 1) Team REPLICA: Lisa Andreani e Simona Squadrito (2) Installation view, REPLICA. Archivio Italiano del libro d’artista, display a cura di Parasite 2.0 e Furlani-Gobbi, Villa Vertua Masolo 2019, credits di Martina de Rosa (3) Multipli e unici, a cura di REPLICA, display a cura di Nicola Melinelli, Edicola Radetzky, Milano 2019, credits Martina De Rosa (fig. 4) Installation view, Un foglio è un foglio ma piegato enne volta diventa un libro d’artista, a cura di REPLICA, Spazio Choisi, Lugano 2021, courtesy Libri Tasso (5) Installation view, Archive Actualized, a cura di REPLICA, display a cura di Studio Julia, Spazio Mensa, Roma 2022, credits Giorgio Benni.

 

 

 

 

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Intervista | Giovanni Gaggia

9 mai 2024 à 21:53
L’intervista a Giovanni Gaggia, artista marchigiano multiforme di un’estrema sensibilità tanto ai temi interiori quanto a quelli sociali e politici, è un’intervista peculiare, in cui non c’è spazio per alcuna polemica. Con un artista così chiaramente posizionato nei confronti della realtà, così profondamente impegnato nella costruzione di riflessioni, materiali o immateriali che siano, che trovano senso in qualcosa di molto vicino ai termini di “giustizia” e di “benessere”, non si può perdere l’occasione di capire al meglio il suo agire, così come il suo sentire. Ascoltare Gaggia significa mettere in discussione, spesso, le proprie convinzioni, significa impegnarsi ad aprire se stessi agli altri, vuol dire avere la possibilità di migliorarsi.

Fabio Giagnacovo: Sei un artista estremamente multiforme: nelle tue opere troviamo il disegno, la pittura, la scultura, la fotografia, il video, la performance, ma come possiamo leggere sul tuo statement (in realtà lo si nota facilmente anche solo guardando la serie di lavori che hai prodotto nell’ultimo decennio) prediligi soprattutto il disegno, la performance e il ricamo. C’è un collegamento tra questi 3 media? Qual è il processo che ti porta a scegliere il medium più adatto, nelle tue opere? E infine, siamo sempre portati a pensare, superficialmente, che nel mondo dell’arte il ricamo sia una pratica femminista, nel tuo caso evidentemente non lo è ma spesso si lega similmente, in maniera forte e chiara, ad un senso sociale e politico, cosa significa per te ricamare?

Giovanni Gaggia: Il filo che unisce i 3 linguaggi da te citati, valido per ogni media che decido di usare è il tempo. “Sul filo del tempo” trovo che sia un titolo meraviglioso. Aggiungerei, forse, un sottotitolo: “un viaggio politico”.

Il mio disegno si realizza tramite segni sovrapposti, quasi a ricalcare la tecnica classica della punta secca nell’incisione che fa parte della mia formazione di adolescente. Ora sta lì in un angolo del mio fare: mi attende dal 2011. Il ricamo è per sua natura un processo dilatato nel tempo, la più intima, a volte la più profonda, pratica che consente di avvicinarsi alla meditazione: un mantra. Infine la performance: ha un momento d’azione a volte indefinito e in questo spazio temporale accade qualcosa di unico e irripetibile. La mia intenzione è sempre lasciare allo spettatore un attimo che possa cambiarlo e che si possa portare via. Per questa ragione, negli ultimi anni, ho deciso di posare lo sguardo sulla danza contemporanea. Per me è la più grande forma d’arte, dove la profonda conoscenza del corpo si sposa con un concetto forte per far accadere qualcosa di straordinario.

Ora possiamo passare all’analisi del sottotitolo. Il mio lavoro è sempre profondamente e consapevolmente politico, la pratica ha definito l’uomo che sono e ha tracciato un chiaro ruolo sociale.

La mia ultima personale al Museo Riso di Palermo a cura di Dasirè Maida ha messo il punto sul mio lavoro al fianco dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica e della famiglia di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA scomparso nel 2006. Il titolo Quello che doveva accadere, che portavo con me dal 2015, è mutato in PRATICA POETICA POLITICA. In queste tre parole che iniziano tutte con la medesima lettera, con un rimando chiaro a Pier Paolo Pasolini, si racconta tutto il mio agire di artista e di uomo fino al ricamo, il quale diviene per me un mezzo per raccontare storie, che sia un uomo a farlo è l’ennesimo gesto politico.

Il disegno, le performance cariche di pathos, l’atto personale che diviene metafora e senso di qualcosa che travalica il sé, la tendenza poetica-politica, l’impegno sociale, il ruolo della memoria. Diciamo che se aggiungessimo il miele e il feltro verrebbe facilmente alla mente Joseph Beuys. C’è qualcosa che, in particolare, ti ha colpito e/o ti colpisce dell’artista-sciamano? È corretto, secondo te, pensare che “La rivoluzione siamo noi” o è utopico?

Colpito e affondato.

Oramai è nella mia quotidianità, fa parte in maniera importante della mia formazione, lo sguardo si è rivolto spesso a lui aspirando al suo oro, tentando di raggiungere una qualche consapevolezza spirituale.

Ripeto anche in questa occasione: la mia performance più grande è Casa Sponge. Il mio metaprogetto che vive di una esistenza propria e che grazie ai tanti passaggi, di artisti e non, si è caricato di una energia sua. Tra questi c’è ne è uno che ha reso visibile il concetto politico insito nel gesto di aprire le porte di casa: è Mario Consiglio il quale ha riaperto le finestre cieche del casale con due grandi specchi, in quello superiore dove si riflettono le nuvole c’è scritto YOU ARE A LEGEND. In basso ci siamo NOI. L’installazione è un omaggio a Joseph Beuys, rompe la barriera tra interno ed esterno e cerca l’equilibrio tra uomo, arte e natura. In questo modo si rende definitivamente palese la filosofia progettuale, ispirata al maestro-sciamano.

E’ utopico ma è corretto pensarlo. Quotidianamente penso a questa frase, è una sorta di faro guida che delinea il mio modo di comportarmi, fin dalle più piccole cose, al di là dell’opera d’arte.

Hai lavorato per anni alla serie di opere Quello che doveva accadere, dedicate alla strage di Ustica, progetto che riflette sul legame tra arte e memoria e sull’importanza della memoria come impegno civico. Indubbiamente, però, un progetto su un fatto in qualche modo irrisolto, ancora fumoso e per niente chiaro, pone anche l’attenzione su quel fatto, lo porta allo scoperto con tutte le sue contraddizioni. In altre parole è l’altra faccia della medaglia del reportage. Cosa può l’arte davanti a questo muro di gomma, come lo definiva Andrea Purgatori? E come nasce un progetto così pesante emotivamente, che riflette in qualche modo la morte di 81 persone, il dolore di 81 famiglie, il silenzio assordante che dura da più di 40 anni, il fatto che non si sia mai fatta giustizia?

82 famiglie, si aggiunge quella di Aldo Davanzali, azionista di maggioranza dell’ITAVIA che a tutti gli effetti viene considerato l’ottantaduesima vittima. Cito tre passaggi giudiziari dove emerge in maniera chiara la verità. E’ del 1999 l’ordinanza del giudice istruttore Rosario Priore quale scrive che il DC-9 è stato abbattuto: «è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un’azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto». Nel 2012 invece, la corte d’appello di Roma condanna, per omessa attività di controllo e sorveglianza, i Ministeri della difesa e dei trasporti. Secondo i giudici civili lo Stato è responsabile di «omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica». Infine il 2020, quando un’ennesima sentenza conferma le conclusioni di Priore: l’aereo è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra e condanna in via definitiva i due dicasteri al risarcimento di ITAVIA per 330 milioni di euro.

L’arte è l’elemento scelto dall’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, per fare sì che le luci su questa storia non si spengano mai. Si affianca alla giustizia, pungola la politica, sensibilizza il civile, la storia si mantiene viva. E’ la medesima azione compiuta dalle 81 luci sospese sopra la carcassa dell’aereo nella straordinaria installazione di Christian Boltanski per il Museo per la memoria di Ustica a Bologna. La vidi nel 2010 e quell’accadimento mi entrò dentro, iniziai a disegnare, lo feci per mesi. Riprodussi a matita alcuni oggetti che emersero dal mare di Ustica, la linea si muoveva intorno a tracce ematiche. Nacquero prima 7 tavole, le mostrai a Daria Bonfietti, Presidente dell’Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica. Tra le sue prime parole “Quello che doveva accadere”, questa frase mi spinse a continuare a raccontare questa tragica vicenda ed iniziare a studiare l’importanza dell’arte nella memoria. Talk, tre personali sul tema, due opere musealizzate, una pubblicazione edita da NFC edizioni, un libro d’artista pensato per una larga diffusione con circa 60 contributi, un’inchiesta nata sulle pagine di Artribune quarant’anni dopo l’accadimento. “[…] Analizziamo i termini Tempo e Giustizia in relazione a questa tragica vicenda, inoltre, se lo è stato, che valore ha l’aver affidato la memoria all’arte?”. Quel silenzio che descrivi ha generato voci forti e alcune costanti, come la mia.

Nel 2008 fondi Casa Sponge, nei pressi di Pergola, “prima di tutto artist-run space e residenza d’artista” si legge sul sito, ma anche molto altro: è laboratorio, è casa, tua e di chi ci vive per qualche giorno, prendendo qualcosa da essa e lasciando qualcos’altro, in termini sia materiali che immateriali, è cascina ottocentesca nella natura marchigiana pervasa dall’arte, è spazio meditativo ed interiore ma anche luogo comunitario scevro da sovrastrutture, è spazio artistico e culturale ai margini del circuito artistico e culturale eppure così vivo e rilevante, è una scelta coraggiosa. Cosa significa Casa Sponge per te, in termini interiori, da artista che l’hai fondata? E come, questo spazio fisico e sensoriale, si relazione al sempre più imperante spazio digitale della società contemporanea, (che certamente tu non neghi)? In qualche modo queste due realtà simultanee vanno in contrasto o in esse c’è una comunione d’intenti?

La mia vita si caratterizza per scelte nette. Facile è ricostruirla attraverso scelte folli, non convenzionali, sempre con una visione, inizialmente più sfumata, ora definita nei minimi dettagli.

Casa Sponge non è altro che il luogo dove i miei bisnonni si sono riscattati da mezzadri a contadini possidenti. E’ una terra che mi ha visto crescere, è un fazzoletto della collina di Mezzanotte. Il minuscolo borgo dà il nome alla zona, due castagne dalle fronde grandissime non fanno filtrare la luce. La mia casa sta nella parte più alta del poggio, qui la luce passa, e come se passa. E’ un luogo che non mi ha mai lasciato andare, pur tentando di scappare. Qui c’era qualcosa da trasformare e qualcosa da risolvere. Non era possibile farlo da solo, così la porta si è aperta in un gesto nel contempo dalla duplice lettura, una richiesta di aiuto e politica. Da solo non ce la potevo fare e accogliere si fa filosofia. Ad oggi ritengo che sia la mia opera d’arte più riuscita, segue il filo della mia esistenza. Ora ci attende, per me e la casa, un’altra tappa. La vedo in lontananza, ma non posso ancora rivelare ciò che ci attende.

Se non ci fosse il digitale Casa Sponge sarebbe un eremo, le “nuove” tecnologie sono fondamentali, mi concedono il lusso di lavorare da qui, mi permettono di mettere in atto la “restanza”. I social ad esempio sono stati fondamentali per far conoscere maggiormente Casa Sponge. Ricordo l’intervento di un influencer che decise di aiutarci a promuovere il progetto durante il lockdown, il ritorno è stato importante. C’è una comunione di intenti, il digitale è stato un facilitatore, mi ha aiutato a seguire la mia vocazione permettendomi di poterlo fare da un luogo decisamente decentrato. Il contrasto appare evidente, bisogna fare attenzione a non guardare le stelle ascoltando i messaggi vocali di WhatsApp.

Ti dedichi di frequente a laboratori didattici, spesso con bambini e ragazzi in un ambito scolastico. Non è frequente trovare un artista che dedica così tanto tempo alla formazione dei più giovani. In che modo credi che l’arte contemporanea possa arricchire queste giovani menti? E, più in generale, perché lo fai? Credi “semplicemente” che sia giusto farlo o c’è una pulsione più profonda nel veicolare certi temi poetico-sociali?

E’ un po’ come nella casa, si tratta di trasformare la vita in una performance che non termina mai. In questo tempo ci stanno gli altri, mi piace lavorare con tutte le fasce d’età dall’infanzia alla terza. Per me è doveroso farlo, altrimenti mi sembra di mentire, ho la necessità fisica di sapere che posso fare qualche cosa, se è assodato che l’arte non può cambiare il mondo, ma le singole persone si. Daria Bonfietti mi descrive come il cittadino artista.

Immagini (cover – 1) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra (2) Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica», Museo Riso Palermo, ph Michele Alberto Sereni (3) Realizzazione dell’opera di Giovanni Gaggia, «Pratica Poetica Politica» con la IV H del Liceo Classico Vittorio Emanuele, ph Michele Alberto Sereni (4) Giovanni Gaggia, «Quello che Doveva  Accadere. Pratica Poetica Politica», panoramica di installazione, in primo piano l’opera «Sanguinis Suavitas», Palermo Museo Riso, ph Michele Alberto Sereni (5) Giovanni Gaggia, «Il tempo se ne va», 2021, fermo immagine  da video, MUSMA, Matera (6) Giovanni Gaggia, «Eva Hide, My dad loves me», 2017, maiolica dipinta e mutandina per bambini, dimensioni ambientali (7) Casa Sponge foto Antonio Oleari (8) Giovanni Gaggia, Illustrazione di Nikla Cetra

Survive the Art Cube è una serie di conversazioni con artisti di diverse generazioni curata da Fabio Giagnacovo. Il titolo riprende il più famoso libro di Brian O’Doherty a volerne ricalcare il piglio critico. Ha il fine di comprendere meglio come questi artisti percepiscono lo spazio analogicodigitale in cui siamo immersi e la nostra contemporaneità, che senso e che importanza ha lo spazio artistico oggi e che senso ha nel nostro presente fare un percorso artistico. I tempi cupi impongono una riflessione sulla realtà e solo gli artisti, forse, possono aprirci la mente:
Interviste precedenti:
Intervista a Milica Jancovic, Arshake, 04.22.2024
Intervista a Giulio Bensasson, Arshake, 18.02.2024
Intervista a Eva Hide, Arshake, 28.12.2023
Intervista a Federica Di Carlo, Arshake, 16.12.2023
Intervista Giuseppe Pietroniro, Arshake, 07.12.2023
Intervista a Francesca Cornacchini, Arshake, 14.11.2023
Intervista ad Enrico Pulsoni, Arshake, 09.11.2023
Intervista a Marinella Bettineschi, Arshake, 15.10.2023

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ARTIST OF THE MONTH – OCTOBER 2024

Par : admin
28 octobre 2024 à 11:55
ITSLIQUID Group officially presents ARTIST OF THE MONTH, a competition open to anyone and established to increase and develop the art market and the dialogue between collectors, art critics, journalists and art lovers. Making contemporary art accessible to all. The winners will be featured on ITSLIQUID Platform, promoted extensively worldwide and considered for any upcoming curatorial projects of ITSLIQUID Group

Intervista | Pietro Cardarelli

16 mars 2024 à 11:37
Lavorare con la luce è un’arte complessa, soprattutto quando la luce stessa si fa soggetto di vita. Luce emozionale, luce intima, luce che danza. Pietro Cardarelli, lighting e visual artist, mescola ogni giorno lighting design, live video, videomapping, live media, graphic design, scenografia contemporanea e perfoming art.
Nato sotto il segno dell’Ariete, Pietro esplora le costellazioni della luce consegnandoci lo stupore magico della ribalta, illuminando la parte più profonda di ognuno di noi nel momento che ci attraversa e ci fa ‘riflettere’.

Giorgio Cipolletta: Raccontami della tua ricerca artistica. Come inizia e in che direzione si sta evolvendo? Puoi descrive il tuo lavoro, i tuoi metodi, le tue fonti di ispirazione?

Da che ne ho memoria, la luce ha sempre occupato i miei pensieri, in qualsiasi sua forma. Un fascino irresistibile, da sempre, quasi fossi una falena.

La mia ricerca si basa prevalentemente su due campi: la manipolazione dello spazio attraverso la luce e la luce intesa come elemento fisico con una sua vita propria, in grado di interagire con tutto ciò che essa avvolge. In altre parole la luce può essere esperita come un’essenza capace di vivere autonomamente e generare relazioni con l’Altro.

Il mio lavoro inizia con il desiderio di attivare queste relazioni.

La luce è un attore sulla scena, un musicista sul palco, un danzatore nello spazio, un artista luminoso che trascina il pubblico rendendolo partecipe.

Da questo percorso, che ho mosso insieme a molti altri artisti di settori diversi, sono arrivato ad un lavoro più intimo e personale dedicato alla manipolazione spaziale attraverso la realizzazione di installazioni e ambienti immersivi in cui il pubblico potesse compiere un percorso di relazione a partire dallo spazio esterno fino ad annullarlo e arrivare al proprio spazio interiore.

La luce abbraccia totalmente la mia ricerca multidisciplinare. Essa rappresenta intimità e allo stesso tempo, spazio visuale, tecnologia e fenomeno di ‘riflessione’.

James Turrell e Ólafur Elìasson sono stati, e sono ancora oggi, grande fonte di ispirazione.

Non posso non citare Room for one color (1997) dell’artista danese, un’installazione folgorante per il mio percorso. Così come sono assolutamente fondamentali artisti più recenti come Robert Henke o Yann Nguema.

Quando inizio un nuovo lavoro mi pongo sempre in un’ottica di studio, conoscenza profonda e rispetto per l’artista che devo ‘vestire’ o lo spazio da ‘abitare’. Una volta entrato in empatia con la luce, cerco semplicemente di diventare il primo spettatore dei miei lavori. Cerco di raggiungere, quanto più possibile, quella soglia di stupore ed emozione in grado di sorprendermi per primo.

Portare la luce, per me elemento vivo, deve essere un gesto quasi ‘magico’, quell’elemento nel realismo magico che porta una variazione nello spazio conosciuto del reale. Altro passaggio fondamentale però è lo studio, attento, meticoloso al limite del maniacale. Così come voglio rispettare lo spazio o l’artista che ospiterà la mia luce, altrettanto cerco di rispettare la luce stessa. Se questa ibridazione funziona, allora il pubblico si troverà in una dimensione immersiva attraverso la quale potrà vivere profondamente questa condizione ‘di rapimento estatico’.

Qual è il segreto della luce? Che rapporto hai con essa?

Prima di tutto, bisognerebbe dedicare una riflessione alla fisica quantistica, ma non è questa la sede per farlo, ma sicuramente occorre tenere presente la dualità della luce (particella/onda) come fulcro della mia ricerca e studio profondo sulla vera della sua natura ‘viva’.

Perché parlo di vita? Perché il suo essere fisico interagisce con noi e vive con noi attraverso i nostri occhi, ci fornisce la visione di quella che consideriamo realtà.

Nel corso dei laboratori sulla luce, che mi è capitato di tenere, ho potuto sperimentare la capacità che hanno le persone di ‘sentire’ la luce anche non vedendola.

Il mio rapporto sempre più stretto con la luce si basa su due elementi fondamentali: la percezione ‘fisica’ della luce e la luminanza. Quest’ultima viene descritta come la «qualità-quantità» della luminosità che arriva nella nostra retina. Questo rapporto tra l’intensità luminosa emessa da una sorgente nella direzione dell’osservatore e l’area apparente della superficie emittente così come vista dall’osservatore determina il fenomeno dell’esperienza della luce stessa.

Partendo dalla consapevolezza di una «soggettività» della realtà, la mia produzione artistica si muove proprio catturando la parte percettiva, interiore ed emotiva della luce. L’universo che esploro è legato proprio al concetto di spazio e luogo. Infatti nei miei lavori parlo di ‘manipolazione’ dello spazio, perché si va ad agire in quel confine tra percezione e luminanza. Per capire meglio, è quell’effetto, Ganzfeld che Turrell elabora nelle sue opere, dove la luce che vede lo spettatore (senza che egli ne veda la fonte) è solo la sua percezione: uno spazio-mente. Per fare un altro esempio, l’installazione, per la performance Schönheit (2023) che ho realizzato nella foresta di Aaper a Düsseldorf si basa proprio sul principio dell’alterazione della percezione spaziale. L’installazione è invisibile, i dispositivi nascosti sono nell’ambiente naturale e ciò che si va a catturare è proprio la natura stessa della foresta, la luce naturale del sole. Solo stando nell’area della performance il pubblico ha la percezione di un’alterazione sensoriale, ma allo stesso tempo la foresta rimane tale con la sua vegetazione naturale.

Ci racconti del progetto della lampada Birth? Che cosa è? Come funziona? Dove l’hai già sperimentata e hai intenzione invece di portarla? Qual è la sua caratteristica principale?

La lampada Birth nasce in realtà da una sorta di ‘ossessione’, un sogno nel cassetto nato dalla necessità di avere un dispositivo luminoso molto versatile e che potesse essere anche presente e con un corpo minimal e sottile. Questa luce ideata e creata assume le sembianze del classico faro-luce e allo stesso tempo sprigiona vita, perché diventa esso stesso performer.

La lampada Birth ha una sua grande versatilità capace di creare multi-effetti e diverse tipologie di luce.

Birth è una lampada ‘emotiva’ in grado di adeguarsi alle varie suggestioni e  interagire con i danzatori, attori, musicisti, etc…

La lampada ha la grande capacità sia di generare luce attraverso l’interno che quella di modificare la luce riflessa. La forma di Birth evoca una stella prodotta da delle estrusioni di elementi prismatici simili a quelli che si trovano all’interno dei fari motorizzati attualmente in commercio.

Attualmente esistono solo sei esemplari di Birth. La lampada è stata realizzata grazie alla collaborazione professionale di Tecno Service di Ernesto Ottavi e Realizzazioni Castelli e Fanini. Le lampade Birth hanno accompagnato il concerto di Sergio Cammariere, di Anne Paceo, degli Yellowjackets, di Dee Dee Bridgewater e di Emiliano D’Auria.

Attualmente le Birth sono impegnate a danzare insieme a Giosy Sanpaolo nel progetto “15e36” della compagnia di danza contemporanea Hunt. Questo progetto, a cui tengo moltissimo, mi permette di interagire intimamente con la performer, come un passo a due: corpo e luce che danzano insieme. In futuro vorrei invece impiegarle in un’installazione, a cui sto lavorando, dove le lampade possano rispondere e interagire con il pubblico direttamente attraverso un sistema di sensori.

Nella tua carriera hai avuto l’occasione di mescolare digital art, pure light, installation art for performing e lighting for music, come riesci a mescolare e gestire le arti?

Il mio lavoro non è solo individuale, anzi spesso sono in collaborazione e a supporto di altri artisti. Ho cercato da sempre di portare la luce, con le sue sfumature e forme e una continua ricerca tecnologica, realizzando molti progetti con diversi artisti. L’idea su cui la luce prende forma nei miei progetti, mi ha permesso di dare totale libertà al suo spettro che avvolge ogni campo artistico. Desidero sempre di superare i limiti della luce e continuamente attraverso teatri, musei, ma anche piazze, spazi industriali o addirittura aziende. Ciò che amo della luce è proprio la sua versatilità e la sua capacità di essere intrinsecamente site-specific.

Personalmente, a ogni lavoro, mi colloco sempre come un soggetto in più in legame con il performer, ma non solo, può essere un un grafico, un architetto o qualsiasi altro soggetto. In altre parole la luce si fa soggetto attivo e co-protagonista di ogni lavoro.

Riguardo al tuo legame con la luce, pensi che l’artista abbia una responsabilità sociale e quindi essere strumento di coscienza collettiva?

Personalmente, come per molti artisti, sento una responsabilità sociale dovuta dalla grande comunicabilità dei media che ho scelto di usare per il mio lavoro. In tutti i miei progetti c’è sempre una componente di riflessione per il pubblico. Ogni lavoro nasce da idee che presuppongono una necessità di comunicazione profonda. Nella mia ultima installazione immersiva nel verde, Growing Lights, lo spettatore viene invitato a vivere questa esperienza con lentezza, riappropriandosi del luogo illuminato.

Oltre all’aspetto estetico di una nuova illuminazione con i molteplici “punti di vista” che posso creare, sicuramente, c’è una riflessione sui temi ecologici, dettato anche dal tema  del surriscaldamento globale, che investe oggi la discussione collettiva.

Attraverso i miei studi e i miei lavori con l’intelligenza artificiale, molto prima dell’ondata globale a cui stiamo assistendo ora, mi sono sempre messo nell’ottica di esplorarla dal punto di vista umano e del rapporto uomo-tecnologia. L’essere umano (con la sua emotività) insieme alla luce (con la sua percezione sensibile) sono ‘i registi’ dei miei progetti.

La luce è un fenomeno complesso, pensiamo alla frase ‘venire alla luce’ per indicare la nascita, la vita e da sempre è elemento naturale, nonché rappresentato nell’arte pittorica.

Questa azione del ‘venire alla luce’ (al mondo) per me oggi rappresenta l’approdo ad una conoscenza profonda soprattutto di sé, della propria interiorità e del rapporto del sé con la società e la realtà circostante.

L’Arte per me non è pura elucubrazione mentale, ma un grande strumento di comunicazione sociale, perché essa è in grado di parlare in luoghi dove altri mezzi non riescono a dialogare. Perciò, per me, l’artista ha anche un dovere etico-morale, se così si può dire, perché il suo lavoro non è fine a se stesso, ma intrinsecamente veicola già un messaggio. Nel panorama dell’arte contemporanea oggi, forse il mio pensiero può risultare un po’ naïf, ma credo sia molto importante riportare alla discussione alcune argomentazioni, che forse non sono più banali e scontate. Molto spesso oggi, quando tengo dei corsi e delle lezioni, noto che si è molto più interessati a realizzare il «cool tecnologico» fine a se stesso, piuttosto che usare la luce semplicemente come un mezzo di comunicazione profonda ed emotiva.

Un progetto che hai in mente, ma che ancora non hai realizzato.

Il rapporto tra luce e scienza è un campo che ho iniziato ad esplorare andando oltre la ricerca tecnologica. Attualmente sto lavorando con la Dott.ssa Bruna Corradetti del Baylor College of Medicine di Houston, con la quale stiamo sviluppando un progetto tra arte e ricerca del comportamento cellulare umano. La fusione tra tecnologia, arte e biologia darà vita ad un progetto interattivo che possa essere non solo riflessivo per il pubblico, ma anche, e soprattutto, utile in campo medico per l’esplicitazione di importanti e innovativi ‘punti di vista’ nella ricerca stessa. Anche in questo progetto, ovviamente, al centro c’è la luce con la sua emotività generata dai soggetti coinvolti e da chi permette questo: luce soggetto-oggetto umano.

Questa ricerca attualmente è molto appassionante e spero che questo progetto possa vedere la luce molto presto.

PIETRO CARDARELLI è scenografo, Lighting e Visual Artist e Creative Director. Produzione artistica, grafica, dalla promozione all’immagine dei live (lighting design, live video, videomapping, live media, graphic design, scenografia contemporanea, allestimenti e installazioni), perfoming art, video arte e digital art sono le espressioni artistiche che portano Pietro a lavorare come Creative Director per cantanti, artisti, band e produttori musicali, stilisti, coreografi, strutture d’arte ed aziende. È inoltre docente per diversi corsi di formazione (“Manipolazione Creativa dello Spazio”, “Visual Art”, “Lighting Design”.  Dal 2016 al 2020 fa parte del board scientifico per progetti di rigenerazione urbana creativa (“SPACE – Spazi Creativi Contemporanei” e “Invasioni Contemporanee”). Partecipa a diverse mostre e collettive d’arte in Italia e all’estero. Dal 2014 è progettista e lighting e visual artist per il compositore, autore e musicista Dardust (Dario Faini) curando tutte le date dei tour in Italia e all’estero. Dal 2015 è responsabile lighting designer e visual art director per i progetti “Pyanook” e “PyanookLab” del musicista e compositore Ralf Schmid presso lo studio Kubus dello ZKM di Karlsruhe e la Humboldtsaal di Freiburg (Germania), debuttando al live europeo Neue Meister Music a Berlino. Collabora inoltre con lo studio di ricerca per la realtà aumentata MarbleAR di Los Angeles. Dal 2019 è lighting e visual artist per il coreografo e performer Morgan Nardi presso l’FFT a Düsseldorf (Germania) dove nel 2020 realizza diverse installazioni digitali interattive una nel centrale Hofgarten, nel 2022 nel Northpark e nel 2023 nella foresta di Aaper.  Nel 2021, come artista, è firmatario del Manifesto Internazionale della Light Art.  Nello stesso anno crea il progetto di ricerca “Yūgen_a mood place”© sull’interazione tra la luce e il cibo.  Nel 2023 realizza una serie di installazioni di luce nell’area industriale dismessa ex Sgl-Carbon (Ascoli Piceno). Parallelamente crea la lampada “Birth”©, utilizzata nei concerti di Sergio Cammariere, Yellowjackets, Anne Paceo e Emiliano D’Auria Quartet. L’ultimo lavoro a cui partecipa è “Yume” di Elisa Maestri, un progetto di MeTe Teatro/La Casa di Asterione, dove luce e disabilità si fondono.

immagini: (cover 1) Pietro Cardarelli, «LampadaBirth», 2023 (2-3) Pietro Cardarelli, «Phisiologus», 2019 (4) Pietro Cardarelli, «Pea Wall», 2018 (5-6) Pietro Cardarelli, «Schönheit», 2023 (7) Pietro Cardarelli, «Phisiologus», 2019 (8) Pietro Cardarelli, ritratto

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