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“The Impossible Present. Caleidoscopio” a Milano

Par : Arshake
23 octobre 2025 à 20:21
Fino al 25 ottobre 2025, BUILDING TERZO PIANO a Milano presenta The Impossible Present. Caleidoscopio, un progetto site-specific di Delphine Valli a cura di Melania Rossi, che raccoglie una serie di opere e fotografie inedite, testi e installazioni, in una molteplicità di linguaggi. L’esposizione si colloca temporalmente a due anni dalla pubblicazione del libro The Impossible Present, edito da Parallelo42 Contemporary Art, in occasione della residenza di ricerca dell’artista a Marrakech, in seguito alla sua vittoria del Grant Italian Council di ricerca nel 2021. Arshake è lieto di pubblicare la conversazione tra Melania Rossi e Delphine Valli che accompagna la mostra.

 Melania Rossi: Questa mostra in BUILDING TERZO PIANO raccoglie opere realizzate nel corso del tempo: prima, durante e dopo la tua residenza artistica a Marrakech, vinta nel 2021 con il progetto The Impossible Present, grazie al bando del Ministero della Cultura Italian Council X. 

Trovo interessante che per l’esposizione tu abbia aggiunto al titolo la parola “caleidoscopio”. In effetti tutti i lavori esposti si sovrappongono e si richiamano in maniera quasi spontanea ma ordinata, come avviene ai ricordi che si accavallano nello spazio siderale della memoria. Tutto si gioca tra materialità e immaterialità, tra cose che si somigliano ad un livello più sottile di quello razionale, tra associazioni che si impongono agli occhi, come intuizioni o presentimenti. Molte delle tue opere ci ricordano che possiamo osservare e sentire in modo diverso anche le strade più battute, proprio come accade nell’attento vagare del viaggio, dove scopriamo il mondo e noi stessi.  Al centro della mostra mi sembra esserci ciò che davvero resta delle esperienze vissute. Essendo tu un’artista – scultrice anche quando lavori in ambito pittorico – forma e colore sono caratteristiche che si imprimono immediatamente nella tua visione e nel tuo ricordo. Per poi sedimentarsi a poco a poco e farsi senso. Mi hai raccontato la tua storia una notte di cinque anni fa, eravamo a Marsiglia per un progetto nell’ambito di Manifesta 13 e tu stavi realizzando un’opera che univa tre luoghi della tua vita: il Maghreb, la Francia e l’Italia. 

Considerando tutti i movimenti emotivi e fisici, tutte le memorie che saranno riaffiorate nel tuo viaggio di ricongiungimento con il Maghreb, lasciato a 16 anni di età e dove non avevi più fatto ritorno fino al 2022: cosa significa per te questa ultima esposizione da BUILDING, sia artisticamente sia personalmente? E che gestazione ha avuto? 

Delphine Valli: Una lunga gestazione, direi. In fondo, da quando il libro The Impossible Present che ha coronato la fine del periodo di ricerca con l’Italian Council è stato pubblicato, l’idea di traslare matericamente e plasticamente l’esperienza vissuta si è imposta. Non ne sentivo l’urgenza, ma la necessità sì. Poi, dall’ottobre 2023, nel momento in cui avrei dovuto proseguire sullo slancio della pubblicazione del libro e del progetto appena concluso, mi è caduta una coltre di asfalto nero addosso e ho provato un intenso senso di scollamento dalla realtà che mi circondava. Mi sembrava di evolvere in un immenso teatro insignificante ma prepotente, dove ogni concetto era svuotato dalla propria sostanza. In quel periodo ho realizzato le tre carte nere presenti in mostra, ricoprendo con inchiostro calcografico nero fumo dei fondi argentati realizzati in precedenza. Per me allora, le scene erano diventate oscene.

Con te, avevamo il desiderio di proseguire il discorso apertosi a Marrakech e nel 2024, BUILDING ci ha offerto questa possibilità, accogliendo la nostra singolare proposta che si è immediatamente sviluppata attorno al libro The Impossible Present edito da Parallelo42, presente in mostra. Nella sua lunga gestazione, il progetto ha trovato la sua forma, sintetizzata nell’immagine del caleidoscopio, in cui gli elementi si rispondono, si ripetono ed evolvono in modo speculare. In confronto a quello della gestazione, il tempo della realizzazione è stato relativamente breve. Mi sono affidata all’intuizione, ogni elemento sembrava imporsi da sé e cercavo di non interferire. Come dici, la memoria funziona più per sovrapposizione che per giustapposizione e intuitivamente, sia nella realizzazione di opere derivanti dal progetto di ricerca svolto a Marrakech che nell’integrazione di opere precedenti, o contemporanee al periodo di ricerca, ho identificato il senso di ognuna alle fondamenta del mio lavoro in qualche modo rivelate dal periodo di ricerca stesso. La loro co-presenza nella mostra intende metterle in luce più che analizzarle, confidando nell’evidenza della filiazione

 

 I primi tuoi lavori che ho visto e che mi hanno spinta ad approfondire la tua ricerca erano due cementine marocchine in parte nascoste da forme geometriche, esposte in una collettiva a Roma diversi anni fa. Stavano lì, graziose ma misteriose, armoniche nel loro strano disequilibrio. In qualche modo esotiche al contesto. Poi ho iniziato a frequentare il tuo studio e, negli anni, vedevo che la forma del pendolo, del triangolo, del trapezio tornavano a popolare le tue opere, lasciando sospettare che fossero frammenti di una geometria più complessa. Come negli intrecci delle zelliges marocchine, le tessere smaltate di mosaico onnipresenti nelle case, nei giardini interni dei riad, negli edifici religiosi e nei palazzi. La tradizione secolare delle arti applicate nel mondo arabo deriva dalla teoria dell’ordine aristotelico, che connette i movimenti delle sfere celesti alle minime scosse delle forme. Non potendo rappresentare la figura divina, invisibile per natura, l’arte tradizionale islamica ha interiorizzato il dato spirituale. Ecco che un’immagine apparentemente semplice, decorativa, sottende un pensiero estremamente complesso. 

Cito a memoria dal tuo testo Orientarsi: la realtà sfugge ai nostri sensi. Oggi la fisica quantistica ha dimostrato che le cose non sono come appaiono, una verità intuita dalle filosofie orientali secoli fa. C’era in te consapevolezza di una possibile influenza delle arti applicate islamiche nella tua pratica artistica? In che modo la cultura visiva in cui sei stata immersa durante la tua infanzia potrebbe essere entrata nella tua ricerca? 

 Ho vissuto i primi 16 anni della mia vita immersa nella cultura islamica mentre frequentavo la scuola francese ad Algeri. Ho allora viaggiato molto in Algeria, in Marocco e in Tunisia. Sono cresciuta tra due sponde del Mediterraneo. Prima di tornare nel Maghreb nel 2022, non ero affatto consapevole di una sua possibile influenza sulla mia pratica. Nelle mie prime deambulazioni nella medina di Marrakech, sono stata particolarmente colpita dall’architettura islamica, dal suo rapporto allo spazio, interno ed esterno, alla luce ma ancora alle geometrie che la pervadono. Mi sentivo a casa. Era un’esperienza vissuta con tutto il corpo, una memoria sepolta perché non sollecitata riaffiorava. I diagrammi analitici geometrici sono stati concepiti da matematici e astronomi attorno ai IX e X secolo mentre l’arte islamica emerge nel VII secolo, in concomitanza con l’Islam e si diffonde rapidamente, dalla Spagna all’India. È una sua straordinaria peculiarità essere stata assimilata da così tanti tessuti etnici. 

Non ero stata consapevole della sua influenza ma ho realizzato a Marrakech che non avevo visto ciò che avevo interiorizzato: la cultura islamica aveva plasmato la mia sensibilità e in particolare il mio approccio allo spazio e al dato spirituale, anch’esso interiorizzato da essa stessa. Nella mia pratica, ho sempre privilegiato l’intuizione e il linguaggio che si è imposto a me è stato insistentemente astratto sin dall’inizio. Immagino che in modo capillare, quello che ha modellato il mio approccio al mondo si sia rivelato successivamente nella mia pratica artistica. Ho la sensazione che questo viaggio di ricongiungimento con il Maghreb mi abbia permesso di iniziare a integrare consapevolmente le due culture e mi liberi da un’ingiunzione esclusivamente astratta.

 Mi hai detto che i titoli delle tue opere provengono da un generatore automatico di titoli d’arte contemporanea. Qualche esempio: Mechanical Absence, A Lost Information, The Possibility of Orientation, … C’è un po’ di ironia nell’altisonanza dei nomi – ovviamente tutti in inglese – e anche nella scelta di delegare ad un automatismo l’assegnazione del titolo, soprattutto considerando che la scrittura è parte integrante del tuo lavoro. Le tue opere sono spesso accompagnate da tuoi testi originali. Inoltre, tu sei francese quindi pensi in doppia lingua, con tutte le interessanti oscillazioni di senso che avvengono durante le traduzioni. Anche in questa mostra ci sono molti testi, sempre poetici e caratterizzati da un uso sensibile della parola. In alcuni casi ci sono frasi estrapolate come: “Non sai mai di chi sei l’astro più luminoso”. In altri casi sono parole trovate come “Unico Grand Amour”, vista su un muro della Medina di Marrakech. Cito queste due in particolare perché in mostra le vediamo tradotte nella calligrafia geometrica araba. E anche le aste tortili dell’installazione The Literature of War fanno riferimento alla parola, perché ogni torsione corrisponde ad una lettera del nostro alfabeto. Cosa rappresenta per te la scrittura, come si integra nella tua arte visiva e in questa mostra?

 Il generatore ironico di titoli di arte contemporanea che ricordi non esiste più ma infatti, ho scelto di attingere al mio serbatoio di titoli autogenerati anche per le opere recenti, per coerenza con le altre opere in mostra. Mi piace sempre l’avere delegato al caso nonché a una macchina, la cura di avere prodotto il senso ma non delego l’assegnazione stessa, scelgo comunque il titolo in relazione all’opera. 

Quando ero bambina, traducevo mentalmente quanto stessi vivendo, come si farebbe in un racconto. All’osservazione si univa la distanza da quanto vissuto. Poi ho scoperto la letteratura e in particolare la poesia. Lo spazio letterario identifica lo spazio proprio all’opera letteraria ed è uno spazio a tutti gli effetti. Immateriale e intangibile. 

A un certo punto, è stata un’esigenza quella di integrare la scrittura alla mia produzione plastica, un tentativo di avvicinare questi spazi e di osservare quanto il loro incontro potesse generare. Per The Impossible Present, mi ero prefissata di integrare la scrittura alla trama plastica del lavoro, come avviene d’altronde nell’arte tradizionale islamica. Ho così ideato questo alfabeto, in cui ad ogni lettera corrisponde una specifica torsione dell’asta di ferro, ne deriva un messaggio criptico pur se contenuto nella materia stessa. Ho anche stampato due calligrafie geometriche di stile Kufico realizzate da Abdelghani Ouida, noto calligrafo di Marrakech. Questa volta, la scrittura si ricongiunge con la forma astratta, prediletta nell’arte islamica.

 Ci stai raccontando un viaggio di ritorno, dopo migrazioni che nel corso della tua vita ti hanno portata da Parigi ad Algeri e poi di nuovo in Francia per approdare infine a Roma. Ricordo che durante la stesura del progetto per IC ti sei interrogata molto sull’idea del ritorno come eterotopia. Nel pensiero di Michel Foucault, le eterotopie sono luoghi reali ma anomali, che contrastano con tutti gli altri spazi esistenti. Quando si torna in un luogo familiare, si può sperimentare una forma di eterotopia se si riesce a osservarlo con una prospettiva rinnovata. L’esperienza del ritorno può far sì che un luogo “diventi qualcos’altro da sé e non diverso come sconosciuto”. Un reale ritorno è, in effetti, impossibile perché non possiamo tornare i noi stessi di allora, né possiamo ritrovarci in quello stesso tempo o in quello stesso luogo.  Trovo quindi interessante che per ragioni politiche tu non sia potuta tornare ad Algeri, la città della tua infanzia, ma sia approdata a Marrakech. Come giustamente scrive Juan Palao, archivista e filologo, nel libro edito da Parallelo 42: “Andando ad Algeri, Delphine ha trovato Marrakech”. Del resto, “Present” in inglese è anche il dono: da un’impossibilità è nata un’opportunità.

Il confronto culturale è al centro della tua ricerca e le immagini che crei sono una sorta di ponte tra più mondi. Non si tratta solo del rapporto tra Oriente e Occidente, ma di dissolvere i confini oltrepassando definizioni, banalizzazioni, andando oltre le soglie del possibile. Infatti spesso le tue opere si situano in una sorta di spazio intermedio, tra due e tre dimensioni, tra disegno e scultura, dove persino l’antropocentrismo sembra superato. Il tempo e lo spazio giocano un ruolo fondamentale in questo progetto. L’elemento temporale perde qui la sua linearità e quello spaziale diventa evanescente. Tra questi due concetti si fa largo il “vuoto”, come campo di energie, che anche in mostra ha un ruolo dinamico. In qualche modo si torna ad una scoperta della fisica quantistica. Ciò che si rintraccia sempre nel tuo lavoro è la luce, le traiettorie luminose dei colori o dei metalli, che generano ulteriori forme e prospettive. In fondo i tuoi luoghi fanno tutti parte del Bacino del Mediterraneo e in questa mostra c’è moltissima di quella luce. Poi, ci sono anche le ombre che narrano altre storie. Cito dai tuoi appunti, che nel libro hanno l’eloquente titolo Orientarsi: “(…) per me, l’esperienza artistica non è da considerarsi separata da quella esistenziale, non si illustrano l’un l’altra, si generano a vicenda (…)”. 

Sì, questa unicità dell’esperienza, esistenziale e artistica, è la sua complessità. Il “Io sono inseparabile” della scrittrice francese vissuta in Algeria, Hélène Cixious, riassume l’impossibilità di scindersi. 

Ha in fondo contraddistinto molti aspetti del progetto che mi ha portata a vivere l’esperienza del ritorno alla cultura nella quale sono cresciuta in una città, Marrakech, che non conoscevo. Quest’ultimo aspetto è stato, effettivamente, un dono. Ero liberata dall’utopia del ritorno nella quale, come sottolinei, non si ritrova ciò che si ha lasciato e ho potuto dedicarmi totalmente alle reminiscenze che emergevano in me e allo studio comparato delle culture visive orientale e occidentale. Un libro in particolare mi è stato estremamente prezioso, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente di Hans Belting. In sostanza, la cultura visiva occidentale ha definito il suo canone percettivo con la prospettiva e la centralità dello sguardo umano, trasformando il mondo in un’immagine, attingendo alla teoria della visione di Alhazen, matematico e astronomo, scienziato geniale originario dalla Mesopotamia vissuto negli anni 1000. Per la cultura visiva orientale, l’immagine è collaterale (non vediamo la stessa cosa attraverso l’acqua e attraverso l’aria), essa si concentra sui raggi luminosi e ha interiorizzato il dato spirituale. E nel caso delle sue complesse geometrie, esse non sono mere decorazioni ma la rappresentazione di leggi cosmiche. 

Avevamo posto al centro del progetto la convergenza dei saperi, come si evince nel libro, ed è stato essenziale e vitale. Nello scambio, ho potuto misurare quanto la ricerca artistica abbia una sua dignità propria. Non cerca la sua autorevolezza all’esterno del suo campo ma si arricchisce nel confronto con altri campi e vice versa. L’approccio artistico, alla pari degli altri, è un modo per afferrare il mondo e accedere alla conoscenza o alla comprensione. Tre elementi presenti in mostra, intitolati Ode to Chaotic Meditation, realizzati con specchi antichi, evocano l’eterotopia di cui parli. Lo specchio è eterotopia per eccellenza, spazio utopico e riflettente. Permette di interrogarsi sul mondo visibile e sulla sua solidità o sulla sua realtà

Dopo Marrakech, sono effettivamente tornata ad Algeri, con una borsa di ricerca dell’Istituto Francese di Algeri. Ho sperimentato appieno l’impossibilità del ritorno. Aldilà delle considerazioni che possiamo farne, sicuramente giuste – per Foucault il ritorno è alla volta una pratica e uno spazio eterotopico “che ha per regola di giustapporre in un luogo reale più spazi di norma incompatibili” – ho sperimentato uno scompiglio che riguardava più il tempo, via lo spazio, dai quali ero esclusa. 

Per i Gnawa, confraternita mistica presente in Marocco, l’esilio non riguarda tanto lo spazio – la geografia – l’esilio è esilio dal Sé e in questo senso, il ritorno in Marocco si è offerto come chiave di comprensione che non riguardasse solo me naturalmente. Con The Impossible Present. Caleidoscopio, ho cercato di riunire vari spazi in un luogo, di giustapporre, di sovrapporre vari spazi aperti dall’esperienza fondatrice svolta a Marrakech. 

Delphine Valli – The Impossible Present. Caleidoscopio, a cura di Melania Rossi
BUILDING TERZO PIANO, fino al 25.10.2025

immagini: (copertina 1) Delphine Valli, “The Impossible Present. Caleidoscopio”, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo (2) Delphine Valli, “A studio The Formation of Joy”, foto: Luis Do Rosario 2025 (3) Delphine Valli, “On Being Superficial”, 2020 2021, The Impossible Present. Caleidoscopio, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo (4) Delphine Valli, “Progetto per disegno murale”, 2022 2025, The Impossible Present. Caleidoscopio, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo (5) Delphine Valli, “The Impossible Present. Caleidoscopio”, BUILDING TERZO PIANO, Milano, foto: Sarah Indriolo

 

 

 

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OSMOSI a Milano

Par : Arshake
25 septembre 2025 à 22:41

OSMOSI. Ripensare la coesistenza tra vita e materia, a cura di ALL FAD, da domani a Milano al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia (26-28 settembre, 2025), nasce come mostra e simposio di incontri tra arte, design, ricerca e pratiche sostenibili, con l’obiettivo di indagare il concetto di osmosi inteso come scambio, permeabilità e trasformazione tra discipline, materiali, idee, corpi e ambienti. Gli appuntamenti invitano a pensare in modo fluido e interconnesso, promuovendo pratiche ibride e collaborative che guardano al futuro del vivente e dell’inanimato, dello human e del nonhuman.

In esposizione le opere di José Angelino, Audrey Rangel Aguirre, Anna Barbara, Asia Nicoletta Perotti, Nuvola Ravera e Federica Terracina in dialogo con dieci creators selezionati tramite una call aperta.

(dal comunicato stampa)

OSMOSI. Ripensare la coesistenza fra vita e materia, a cura di ALL FAD, Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, Milan, 26-28.09.2025
Visitate qui il sito per il programma aggiornato degli eventi e degli interventi

 

 

 

 

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Masterclass With Luca-Andrea Lino Tessarini | Milan

17 décembre 2024 à 20:20
Masterclass With Luca-Andrea Lino Tessarini | Milan

OLTRE workshop & Masterclass is a new platform in Milano dedicated to professional students and professional dancers. Where: “Danza e Movimento” | Via Don Grioli 12, 20161 Milano, Italy When: Saturday 1st February 2025 |16.30 – 20.00  Sunday 2 February 2025 | 14.00 – 17.00 Luca-Andrea Lino Tessarini hails from Basel, Switzerland. He began his dance training at the Ballettschule Brigitte Dunkel at […]

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Vidave Theater Camp 2024

2 août 2024 à 09:49
Vidave Theater Camp 2024

Creation Workshop from 2-7 September 2024 in Milan with Vidavè Company and guests Where: PACTA Salone dei Teatri, via Ulisse Dini 7, 20142, Milano (MI) When: From 2nd till 7th of September 2024 Deadline for applications: 25th August 23:59 (CET) The VIDAVÈ Theater Camp is an event with open classes, creative residency, performance and conference […]

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Adrian Piper al PAC di Milano

15 mai 2024 à 16:55

Che il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano sia da alcuni anni una delle istituzioni pubbliche italiane più ricettive alle ricerche di artisti attenti ai contesti sociali, nonché alla performance è abbastanza noto tra gli addetti ai lavori: a definire tale identità ha contribuito in maniera cospicua la direzione artistica di Diego Sileo che, con competenza, curiosità e senza disdegnare la provocazione, dedica parte della programmazione a tale medium, attraverso mostre tanto di italiani quanto di figure internazionali, riannodando tragitti che segnano la storia dell’istituzione milanese. Quello che forse è meno evidente a chi non frequenta sistematicamente il PAC è che l’edificio stesso sembra favorire andamenti laterali rispetto alla tradizione delle arti visive, “naturalmente” aperto a esplorazioni che eludono “l’armadio chiuso” del modernismo: la grande vetrata affacciata sui giardini di Villa Reale è membrana osmotica con l’area verde retrostante, la sua continua mutevolezza cromatica e luminosa, la sua piacevole ma invadente presenza. E ugualmente il ballatoio che corre parallelo al vano centrale del piano terra si trasforma agevolmente nel balcone da cui assistere a quanto si svolge in basso. Un ideale loggione, tropo di una dimensione teatrale celata appena sotto la pelle dello spazio museale.

Dal 19 marzo e fino al 9 giugno, il PAC ospita la prima retrospettiva italiana di Adrian Piper (New York 1948), figura di spicco dell’arte post-concettuale statunitense, particolarmente rappresentativa per il costante impegno su aspetti e questioni legate al razzismo, ma con rare apparizioni italiane, tra cui il tempestivo Parlando a me stessa. L’autobiografia progressiva di un oggetto d’arte, edito in italiano da Marilena Bonomo nel 1975, con la presumibile mediazione di Sol Lewitt; il prestigioso Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2015, quella diretta da Owki Enwezor; la traduzione di Meta-art (1973) per Castelvecchi nel 2017 a cui aggiungere qualche inclusione di lavori in rassegne collettive. Sebbene la dimensione performativa a cui si è accennato in apertura, questa volta sia affidata solo alla documentazione fotografica e audiovisiva con cui si da conto di numerosi interventi di Piper, in particolare della splendida Funk Lessons (1983-85) tramite il film di Sam Samore, lo stile del curatore è ben riconoscibile. Infatti, tranne pochi lavori giovanili, tutto guarda al mondo, oltre i convenzionali problemi del visuale.

Il visitatore è accolto da un brusio di voci che provengono da installazioni sonore e video che punteggiano il percorso espositivo: una dimensione corale messa in evidenza sin dalle prime opere, con Negative Self-Portrait (1966), lavoro figurativo su carta, firmato “Adrienne”, subito prima quindi dell’adozione del più neutro – ma con sfumature maschili – Adrian. L’artista si presenta quindi con una identità multipla e sfaccettata: sebbene ricorra sovente alla propria immagine disegnata, fotografata, ripresa in video, i suoi connotati restano volutamente sfocati tanto rispetto all’appartenenza a un gruppo etnico definito – come avverte la definizione che campeggia su materiali promozionali dell’esposizione, Race Traitor – quanto dal punto di vista del genere. Se questo secondo aspetto è mobilitato solo indirettamente in The Mythic Being (1973-1980), Race Traitor è il titolo di un lavoro del 2018  in cui l’artista rielabora la riflessione sulla propria identità formulata quarant’anni prima, con i Political Self-Portraits (1978-1980), giocati sull’associazione tra la riproduzione della fotografia del passaporto – per antonomasia lo strumento di identificazione burocratica del cittadino – e una serie di eventi biografici in cui Piper ha preso coscienza del gruppo razziale a cui apparteneva o al quale gli altri ritenevano appartenesse. Il titolo della mostra, quindi, allude anche all’esperienza del passing, tematizzata dall’artista in questi e altri interventi, rievocandone le ambiguità sulla scorta sia della tradizione letteraria, sia delle pressioni sociali.

Attraverso approcci spiazzanti, Piper lavora per erodere le linee delle costruzioni sociali che dividono le persone in gruppi razziali: dalla riproposizione dei cliché al loro ribaltamento, fino all’esplorazione di situazioni in cui i presenti – visitatori inclusi – sono disorientati. In tal senso si muove la celebre installazione Cornered (1988) in cui il pubblico del museo diventa anche il destinatario del monologo della professoressa Adrian Piper[1], trasmesso da un televisore installato tra due certificati di nascita in cui un medesimo individuo viene definito “octoroon” nel 1953 e “white” nel 1965.

Nel video, infatti, Piper spiega – rivolgendosi direttamente al visitatore in sala – proprio l’impossibilità teorica di definirsi bianco o nero nella società statunitense, dove i contatti tra i due gruppi sono antichi e ramificati. La sensazione di essere parte in causa, parte del problema, di essere tra gli interlocutori dell’artista non ci abbandona mai: dal reiterato impiego del pronome “you” nei titoli, fino all’adozione dell’indagine sociologica che nella serie Close to Home (1987) fa emergere – potenzialmente nelle biografie di ciascuno – omissioni circa il proprio inconfessato razzismo; dalle luci che alternativamente si accendono e si spengono in Black Box /White Box (1992) trasformando l’osservatore in osservato al ricorso agli specchi in Das Ding-an-sich bin ich (2018).

Pur rinunciando alla narrazione lineare con l’intento di calare il pubblico nel bel mezzo delle prove di un coro, in cui le voci si alternano e si sovrappongono, la mostra dipana una conversazione che copre una carriera lunga quasi sei decadi, puntellata da prestigiosi riconoscimenti, come si deduce dalle collezioni da cui provengono i pezzi in mostra, coerente nel nucleo semantico ma diversificata per medium e stili, dai lavori d’esordio debitori dell’arte concettuale, fino alle recenti animazioni digitali, passando per installazioni, video e variazioni attorno all’impiego della fotografia e della scrittura.

Tra le opere stilisticamente più sorprendenti i Vanilla Nightmares (1986-1989, fig. 6) disegni a carboncino eseguiti sulle pagine del New York Times. Resi celebri dalle riflessioni di Hal Foster in Il ritorno del reale, le opere insistono sulle paure che alimentano il razzismo: con fisionomie esagerate e corpi vistosamente erotizzati, l’artista tratteggia donne e uomini bianchi e neri che visivamente interagiscono con le figure riprodotte nelle pubblicità o fotografate per la cronaca, e in generale entrano in risonanza con le notizie relative al Sudafrica pubblicate dal quotidiano. Ma dal vero si apprezza quanto il tratto, volutamente caricaturale e semplificato, non si sottragga alle atmosfere neoespressioniste di quegli anni, mettendo ancora una volta in comunicazione personale e collettivo, pubblico e privato, e con un approccio intersezionale ante litteram.

[1] Oltre che artista visiva, Piper ha insegnato filosofia teoretica in numerosi atenei statunitensi; dal 2005 vive a Berlino.
Adrian Piper, RACE TRAITOR, PAC- Padiglione Arte Contemporanea, Milano, 19.03 – 09.06.2024

images: (cover1) Adrian Piper, «Das Ding-an-sich bin ich», 2018, photo Nico Covre (2) Adrian Piper, «Race Traitor», 2018, stampa digitale (3) Adrian Piper, «Cornered», 1988 (4) Adrian Piper, «Close to Home», 1987, fotografie, testo, audiotape  (5) ) Adrian Piper, RACE TRAITOR», PAC, Milano, ph Nico Covre – Vulcano Agency (6) Adrian Piper, «Vanilla Nightmares #11», 1986, carboncino su pagina di giornale.

 

 

 

 

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Workshop By Akram Khan Company’s Rehearsal Director Nico Monaco

30 mars 2024 à 09:21
Workshop By Akram Khan Company’s Rehearsal Director Nico Monaco

Two days workshop by Akram Khan Company’s rehearsal director Nico Monaco. Where: Milano, Italy When: 11/05/2024 14:00 – 17:00 & 12/05/2024 11:00 – 14:00 The workshop is divided in two days for a total of six hours.Professionals and semi-professionals are welcome. How to register:Bookings through website www.imagofaculty.itOr send us an email to info@imagofaculty.it On website you can […]

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